Beach House – 7

Il settimo album dei Beach House, il duo composto da Victoria Legrand e Alex Scally, intitolato semplicemente 7, in uscita l’11 maggio per  Sub Pop/Bella Union/Mistletone, arriva dopo tre anni dall’ultimo Thank You Lucky Stars. Fin da subito, leggendo i titoli delle tracce dalla tracklist si può intuire il mood generale del disco: è un’intuizione che in poco tempo, all’ascolto, non solo non viene tradita, ma anzi viene ribadita, uscendone rafforzata e trasformandosi in una convinzione. Le canzoni risultano in bilico tra sensazioni oscure (che si palesano soprattutto nei riff quasi neo wave di Dive) e aperture a vette in cui si respira un’atmosfera rarefatta.

Il lavoro, nato tra gli studi Baltimora e di Los Angeles, si contorna di un’aura lussureggiante, sofisticata e dilatata, collocata al difuori del tempo, in un vortice etereo generato dalla commistione di neopsichedelia e art rock. Dark Spring, il pezzo di apertura, e terzo singolo uscito, è accompagnato dal video in bianco e nero diretto da  Zia Anger (My Last Film, Mitski, Jenny Hval). La sezione ritmica, in cui la batteria padroneggia, ed a cui si aggiunge una chitarra digrignante, ricorda gli Slowdive.

Non importa, ci vuole tempo”, il mantra ripetuto nella seconda traccia, Pay no mind it takes time. È in questo momento che scopriamo l’approccio del disco: un soliloquio in cui Victoria Legrand, a tratti con la sovrapposizione di Alex Scally, dialoga con la parte più profonda di sé, ricordando molto Bjork per le scelte stilistiche, tra cui un cantato dolce e sussurrato, quasi onirico, unito alle chitarre dilatate dalle evidenti nuance shoegaze.

Tutto il disco è riassumibile in un amalgama derivante dall’unione di tristezza e piacere, l’uno legato a doppio filo all’altro. Un risultato che per modo e qualità potrebbe diventare colonna sonora di un film di Wes Anderson. Nonostante il processo creativo spezzettato (i Beach House infatti hanno scelto di comporre solo quando realmente ispirati, preferendo alle full immersion in studio undici sessioni brevi), il risultato è coeso e ben unito, non si percepiscono “salti” tra una traccia e l’altra.

In Lemon Glow, secondo singolo uscito e terza traccia del disco, emergono tra gli infiniti riverberi e loop di chitarra distorta le nuance à la Tame Impala. A differenza degli altri brani i contorni sono meno sfumati e più acuti, quasi graffianti. Rimane comunque l’esperienza quasi sinestetica, per il forte potere evocativo delle parole, ed il testo piuttosto semplice, concentrato su sensazioni e colori.

Anche nella canzone successiva, L’Inconnue (dal francese, “Lo sconosciuto”), i loop la fanno da padrone, ma è un viaggio tra altre latitudini e longitudini, in cui il focus viene spostato dall’Australia alla Francia, passando per l’islandese Bjork.

Drunk in LA sembra quasi far parte della scena finale d’un film, il passaggio tra il piano sequenza in bianco e nero di una macchina che corre in un rettilineo ed un’inquadratura dell’asfalto che scorre sotto il muso dell’auto, appena prima dei titoli di coda. Poi il passaggio a Dive, in cui con un crescendo nell’apertura dei suoni raggiunge il climax a metà brano, per poi rituffarsi in tonalità più cupe e pressanti, quasi da marcia, la cui cavalcata di basso ne è espressione, prima di virare completamente in Black Car, nella scena di una passeggiata notturna.

A seguire, nell’ultima parte del disco, il suono sembra attingere a piene mani dalle atmosfere eighties. La traccia in coda all’album, Last Ride, con minutaggio da canzone post rock (7 minuti), viene aperta da una suonata di tastiera, dolce e delicata, che rimane in loop fino a metà brano, allo sbocciare di cori vocali ed all’aggiunta di chitarra acustica ed elettrica, in un lento crescendo. Fa ripensare a Daydreaming, un brano dell’ultimo album dei Radiohead (A Moon Shaped Pool, 2016). Dopo il momento clou i suoni rimangono sospesi ed echeggianti, l’ottima chiusura per un ottimo disco.

 

a cura di Alessandro Spagnolo

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