Biennale Democrazia | Il programma e un contributo

L’ottava edizione di Biennale Democrazia, la manifestazione culturale promossa dalla Città di Torino, ideata e presieduta da Gustavo Zagrebelsky, in programma dal 22 al 26 marzo, ha come tema Ai confini della libertà, e avrà l’obiettivo di indagare, con oltre 100 incontri e 220 ospiti, il rapporto tra libertà e democrazia nella società moderna.

Si parte il 22 marzo con l’incontro con la giornalista Francesca Mannocchi, che parlerà di storie di ucraine e ucraini. La giornalista e scrittrice turca Ece Temelkuran indagherà invece come nascono dittature e regimi autoritari, mentre il professore Alessandro Barbero parlerà della nascita dell’Europa. Incontri sull’Iran, sul cyberspazio e l’ecologia politica, e spettacoli come Songs of freedom, che ripercorre la storia della musica come mezzo di espressione per la libertà.

Tra gli ospiti della Biennale ci sarà Xavier Tabet, professore ordinario al al Département d’études italiennes dell’Université Paris 8, e autore di “Lockdown. Diritto alla vita e biopolitica” per Ronzani Editore. Tabet ci ha inviato un contributo che anticipa il dialogo con Manuela Ceretta, moderato da Giuseppe Sciara, «Lockdown. La libertà alla prova della pandemia», che si svolgerà il 23 marzo alle ore 17 al Teatro Gobetti di Torino. Lo leggiamo qui sotto.

Per tutte le informazioni relative agli eventi consultare il sito biennaledemocrazia.it


Biopolitica e libertà alla prova della pandemia

La crisi è etimologicamente «ciò che recide», ciò che taglia. È al tempo stesso una minaccia e un’opportunità. La crisi è anche un momento in cui il futuro è aperto e si sente che qualche cosa di nuovo possa nascere, il cui esito è indisponibile, non può essere previsto. La crisi ci disorienta e ci invita ad aprirci a nuovi modi di pensare. Allo stesso tempo è un fatto totale che rivela la natura profonda di una società. Il suo «taglio» consiste di solito nel mettere in evidenza una struttura sociale già presente, ma spesso dissimulata, e resa allora visibile, evidente.

La crisi che abbiamo vissuto con la pandemia del Covid 19 è stata così uno straordinario catalizzatore della vita intellettuale, con una sorta di proliferazione virale di «discorsi». La forza dell’evento è stata quella di obbligarci ad una sorta di disponibilità all’ignoto e di rimessa in questione di molte certezze. Rimane tuttavia vero anche il fatto che ciascuno affronta l’evento tramite i propri interrogativi. Per quanto mi riguarda, è alla luce delle ipotesi foucaultiane sulla biopolitica che ho tentato di sviluppare in particolare l’idea secondo cui questa crisi ci ha mostrato quanto la vita – e il «diritto alla vita» – sia diventata la vera posta in gioco della politica contemporanea .

La biopolitica è un concetto che il filososo francese Michel Foucault (1926-1984) elabora nel 1976, e che sviluppa al contempo nel libro La volontà di sapere e nell’ultima lezione del corso al Collège de France intitolato Bisogna difendere la società. La biopolitica, termine che il filosofo non distingue più di tanto dal biopotere, è una politica della vita, l’esercizio di un potere sulla vita, un biopotere. Rappresenta il fatto che i procedimenti di potere e di sapere prendono in considerazione i processi della vita e iniziano a controllarli e modificarli. La biopolitica, che si dà la vita come oggetto e come fine, riflette l’entrata nell’ambito del potere delle questioni relative a sanità, processi vitali e cure fornite alla «specie umana». È da allora che la gestione dell’igiene, della natalità e longevità, dell’alimentazione, della sessualità, diventano obiettivi essenziali del potere politico.

Per parte mia, mi è sembrato subito che il fatto che quattro miliardi di persone (più o meno la metà del pianeta) nell’aprile 2020 siano state confinate e obbligate dai rispettivi governi a rimanere in casa in nome della protezione della vita – una sorta di «arresti domiciliari di massa» – abbia rappresentato un impressionante evento biopolitico. Il confinamento che abbiamo vissuto si è inserito di fatto nell’orizzonte generale della difesa della vita in termini di salute e di assistenza di massa delle popolazioni da parte dello Stato. Ha rappresentato un meccanismo di sicurezza globale funzionante al livello di una popolazione. Quale altro termine potrebbe convenire meglio di quello di biopolitica per caratterizzare quelle società che hanno fatto della vita umana il loro principio guida, al punto da arrivare a sacrificare a questo principio dei valori così imprescindibili quali la socialità, ma anche semplicemente la libertà?

Oggi viviamo in un’epoca di idolatria della vita, con il riconoscimento della vita biologica e dell’esistenza fisica come valore supremo. Si è passati progressivamente, nel mondo contemporaneo, dalla questione della salvezza dell’anima a quella della protezione della vita. La lezione della Seconda Guerra mondiale è stata che nessuna vita è indegna di essere vissuta e che l’inviolabilità della vita umana rappresenta l’imperativo fondamentale. Questo imperativo prevale su molte altre norme, al punto che non tenerne conto è diventato politicamente difficile. Tutto questo è sicuramente molto positivo. Ma ha anche un costo, provoca dei rischi. Uno di questi sta nella riduzione della vita a «nuda vita», da difendere, da proteggere a «tutti i costi», nell’ambito di quello che il filosofo Roberto Esposito (uno dei pensatori che hanno, in modo fecondo, ripreso e prolungato il pensiero di Michel Foucault) chiama, in senso lato e politico, «l’età dell’immunologia». Per dirla in termini filosofici classici, il rischio è quello della dimenticanza del bios, inteso dai greci come forma di vita (e quindi dignità della vita, vita «buona» che non può essere ridotta a sola vita «sana»), a solo beneficio della zoe, dell’esistenza biologica. Il rischio è quello della dimenticanza della vita come realtà biografica, come destino, a solo beneficio della vita come realtà biologica, come esistenza fisica.

Tuttavia, ci si può chiedere anche in che misura abbiamo assistito, con il lockdown, ad un momento di estremizzazione della questione della difesa della vita, o piuttosto ad un momento di manifestazione lampante della crisi dello Stato provvidenza. Per via delle logiche del neoliberismo, inteso come quella forma particolare di razionalità che riconfigura tutti gli aspetti dell’esistenza in termini economici, esso si è mostrato in parte impreparato ad affrontare questo evento. Con la pandemia, la natura biopolitica del potere ha certo raggiunto, in un certo senso, il suo apogeo. Ma il momento biopolitico della pandemia è stato anche un momento di correzione, di rattrapage, di orientamenti politici anteriori che andavano contro questa protezione delle vite, di tutte le vite. Ci si può quindi chiedere in che misura la pandemia non abbia rivelato alcuni limiti forti della compatibilità tra biopolitica e neoliberismo, tra sacralizzazione della vita e trattamento disuguale degli esseri umani.

Comunque sia, in un mondo nel quale le paure si sommano, e talvolta si mescolano (paura sociale, ecologica, terroristica, biologica, e ora la guerra alle porte dell’Europa), la pandemia ci ricorda che quel che ci minaccia di più è la rottura del legame sociale e del pensiero della relazione. Ci ricorda che «esistere» (non esattamente la stessa cosa di vivere o sopravvivere) è «essere esposti», che se io sono è perché noi siamo. Cioè che ogni identità è una identità in relazione. E che la mia libertà non esiste senza gli altri.

Xavier Tabet

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