Bill Callahan – Dream River

Quando Bill Callahan usava il nome Smog per portare avanti il suo progetto lo-fi ancora non aveva maturato a pieno la voce, quella che conosciamo oggi, strumento perfetto che s’incastra nella musica a tratti minimal, a tratti corposa come un Cabernet Sauvignon, che ne fa da supporto. Ascoltare per credere: ai tempi di Bathysphere (successo consacrato di Smog, di cui Cat Power – che figura tra le ex storiche di Bill Callahan assieme a Joanna Newsom – ne ricalcò un’intensa versione), ai tempi del disco Wild Love insomma (1995) la voce di Bill non è ancora così profonda come lo diventerà dopo. Se c’è una linea di demarcazione ideale che separa i due progetti, l’a.k.a. name da quello vero, forse va rintracciata proprio nella voce del cantautore del Maryland, che perde quei vezzi difettosi dell’inizio e diventa fendente, profonda, scura. Sometimes I Wish I were an Eagle e Apocalypse si configurano proprio in questa direzione, oltre a quel modus che ha Callahan di portare avanti la storyline di una canzone, con ripetizioni continue che in un certo senso possono ricordare (o influenzare?) anche il cantato di Matt Berninger dei National. Too Many Birds è un pezzo chiave di questo nuovo style, e si fissa quasi fisicamente dentro il cervello.

Ora siamo al quarto lavoro per Bill Callahan, Dream River, che si apre proprio con la formula che si ripete “beer” e “thank you” di The Sing, avvolta in un’atmosfera da violino che si fa assordante grazie alla voce del vecchio Bill (che prende sempre più le sembianze di un vecchio conservatore del Texas, o di uno che si è ritirato a vita privata in una baita a Big Sur come il vecchio Jack Kerouac). Siamo nella dimensione delle voci calde e cavernose, che ti avvolgono, la magia che sapeva regalarti Leonard Cohen, e ancora oggi ti regala – per dire – Mark Lanegan a ogni colpo. A un primo ascolto il disco potrebbe apparire meno ispirato dei due precedenti lavori che ne hanno consacrato definitivamente il talento, tuttavia noi sappiamo come vanno queste cose con Callahan, si sconsiglia decisamente di fermarsi al primo strato, perchè ciò che accade coi suoi disci – non immediati – è che si attanagliano dopo al corpo, diventando memorabili all’improvviso. Il cantautorato oscuro che conquista. Per esempio quella Small Plane che a primo ascolto non dice quasi niente, ma sai già – ormai sai riconoscere questo genere di cose – che te ne innamorerai.

Il problema è una questione di livelli: ci sono pezzi smart e facili, come Reflektor, che possono portare “cotte” ma non arriveranno mai nel profondo, durano appena un soffio di vento; e poi ci sono i fantasmi disgraziati che ti risalgono le ossa, a un livello intimo qui non si tratta di cotta ma di comunicazione profonda, scambio. Forse perchè è il lavoro di un uomo che ha da dire qualcosa, che beve e si racconta, e ci racconta l’America profonda (quella di Apocalypse era chiara e vitale).

La chitarra di Spring è ancora una volta quella ritmata di Callahan, dentro si incastrano strumenti anche diversi come flauti che ci ricordano qualcosa d’atmosfera indiana. Folk allo stato puro. La bellezza di questi ultimi lavori è totalmente primitiva, non ti ricorderanno mai le città industriali, ma piuttosto la pace di un deserto, i fiumi e i torrenti che scorrono a frotte, gli uccelli che volano, e qualche sorso di alcool, la libertà come un’aquila che vola, o un mattino disgraziato dopo una nottata passata a bere da soli. Spring è la primavera, “la vera primavera è dentro di te” canta come un santone Bill Callahan, ma sappiamo cosa ci sta raccontando: la natura selvaggia che scorre continuamente, il movimento, la musica che si incrocia nel rumore della pioggia. In un modo colpito in faccia dall’elettronica il bel folk diventa una boccata d’ossigeno.

Lo troverete pesante, alla lunga, Callahan. Al punto che Ride my arrow potrebbe annoiare, stancare, finchè non si apre in qualcosa di diverso, e sorprende dopo mezzo minuto di giro a vuoto. Che tipo di segreti ci racconta il cantautore dell’America che non vediamo dobbiamo scavarlo a fondo, ritrovarlo nella bellezza originaria anche dei testi. Questo aspetto, spesso trascurato nella musica, è evidente nella poesia di Callahan. E allora ci sono vari approcci filosofici del mood callahaniano, uno di questi è tenerlo semplicemente in sottofondo a far prendere corpo a desideri ignoti dentro di sè, l’altro è approfondirlo. Anche perchè stiamo chiaramente parlando di uno dei maggiori autori dei nostri tempi.  E probabilmente anche dei più influenti, perchè è chiaro che il folk prende a man forte da lui, e che anche il cantanto di gruppi meno ispirati dal genere, riesce sempre a ben rubare a Callahan. Quando Winter Road chiude il disco noi siamo già rapiti. Il punto è il livello di rapimento a cui arriveremo quando il disco andrà sempre più avanti a girare nel lettore, nelle auto, nelle cuffie per strada, e via dicendo.

Intenso. Disperato. Callahaniano.

2013, Drag City

Tracklist:

  1. The Sing
  2. Javelin Unlanding
  3. Small Plane
  4. Spring
  5. Ride My Arrow
  6. Summer Painter
  7. Seagull
  8. Winter Road
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