Billie Eilish – When we fall asleep, where do we go?

Diciassette anni, diciassette milioni di follower su Instagram. Astro nascente della musica a stelle e strisce – con Dave Grohl che in maniera un po’ avventata (attempata?) si è spinto a paragonare il suo impatto sugli adolescenti americani a quello dei suoi Nirvana agli inizi degli anni novanta fino ad ascriverla tra le fila del rock’n’roll. Come se questo non bastasse, un successo – che le ha fruttato milioni di streaming – nel 2016, con il brano Ocean Eyes inciso a nemmeno quindici anni.

E sopra ogni cosa l’hype, grande, grandissimo che ha accompagnato prima l’attesa e poi l’uscita del suo album di debutto When we fall asleep, where do we go? – un titolo lunghissimo e shakespeariano per un lavoro che vede confermata la collaborazione di una vita – Billie Eilish scrive canzoni dall’età di undici anni – con il fratello maggiore Finneas O’Connell.

E l’apertura del disco – circa quarantacinque minuti di musica – è affidata proprio all’introduzione di !!!!!!! in cui la ragazzina cresciuta nell’EastSide di Los Angeles scherza con il fratello sul suo apparecchio per i denti – “I have taken out my Invisalign and this is the album” – cui fa seguito una fresca, istintiva, sonora, fragorosa quasi sguaiata risata.

È l’incipit perfetto: Billie Eilish è soprattutto questa cosa qui, un’adolescente che scrive e canta per i propri coetanei. E lo fa da una posizione e con un’immagine che rappresenta quasi la quintessenza dell’american way of life per un adolescente americano di oggi. Aria scazzata che però rivela uno spirito pronto e attento se non caustico, ricco di humour nero, i suoi vestiti larghi che le danno un look – fintamente? – trasandato, il profilo androgino, le palpebre a mezz’asta tra l’assonnato e lo sguardo sarcastico, di sfida al mondo adulto. Anche il suo profilo Instagram – così seguito – non ha nulla dell’approccio della star né tantomeno esprime una posizione di privilegio, ma è simile a quello delle tante ragazzine che la seguono, quella fanbase che da un lato ne esalta la popolarità dall’altro le permette – in un costante dialogo – di tenersi lontana dalle tante insidie dello star system.

Anche i temi affrontati nei testi risentono della stessa atmosfera: primi amori e prime delusioni, sguardo ora appassionato ora già critico e disincantato sui suoi coetanei, sample di serie, giochi di parole, malinconia adolescenziale, paure e timori grandi e piccoli. Soltanto che tutto questo prende fin da subito la direzione di un doppio binario che pur strizzando costantemente l’occhio a un universo pop, dall’altro sembra spingere il disco verso una tensione che appartiene ad altri mondi, grazie sia alla produzione del fratello sia all’incredibile versatilità vocale e timbrica di cui è dotata.

Al primo ascolto il disco suona una bomba: ci sono i suoni giusti, la produzione giusta e la sua voce, appunto – che, pur contraendo un debito pesante verso alcuni nomi di quella scena contemporanea che si pone al crocevia tra musica mainstream e alternativa come Lana Del Rey (Born to die è stata la colonna sonora della sua infanzia) e Lorde – è comunque capace di tessiture che le permettono una prima riconoscibilità e che sorprende per attitudine come per la vocazione interpretativa.

La sua voce è assonnata, melliflua, pastosa, zuccherosa: si trascina quieta senza mai esplodere del tutto, mantenendo spesso come un’aria di simpatica e contagiosa sufficienza. La dimensione onirica è certamente quella che meglio descrive il disco con le sue atmosfere declinate più sul versante degli incubi che su quello dei sogni; nei testi, ricchi di suggestioni e animati da figure mostruose – che si ritrovano nei suoi video (lacrime nere, ragni, mostri sotto al letto, figure oscure) come nell’immaginario gotico che arriva fin sulle copertine dei singoli e del disco fino alle volute della musica.

Proprio sul fronte musicale va evidenziato come il disco si distingua per una grande varietà di proposta: subito dopo la risata che lo apre si è immersi in bad guy che rappresenta la punta di un iceberg che fa di un suono cupo e ritmato – dominato da imponenti bassi – una delle sue cifre più caratteristiche e convincenti. La voce in bad guy è accompagnata da un beat oscuro per poi sciogliersi via via in una tonalità morbidamente sensuale e sincopata – sorta di Lolita dark contemporanea – fino a scivolare su un finale assolutamente a sorpresa e quasi destrutturato.  Quest’attitudine al suono cupo la ritroviamo intatta negli altri brani che più devono alla componente ritmica del disco come nella freschissima all the good girls go to hell e il singolo bury a friend, avvolto nelle oscure spire di un sogno a occhi aperti.

Non mancano pezzi più sognanti affidati alle atmosfere del dream pop di xanny – in cui Billie prende le distanze dal consumo di uno dei più noti psicofarmaci in commercio – o alla bossa nova che sa di cocktail fruttati con i piedi immersi nell’acqua di una piscina sotto un sole tiepido di wish you were gay (con la sua buffa speranza davanti a un rifiuto amoroso) con la voce di Billie che fa davvero tutto quello che vuole con semplicità disarmante o ancora, 8, brano impreziosito dall’ukulele ad accompagnare la voce che qui si fa quasi un miagolio accartocciato.

you should see me in a crown – che prende spunto da una frase pronunciata dal Moriarty di Sherlock – si annovera tra i brani più interessanti grazie a una produzione – qui assolutamente di livello – che si rifà a un sound dubstep.

Nei momenti migliori dell’album Billie sembra stare totalmente dentro i suoi pezzi, sa giocare con la sua voce, con le atmosfere costruite dalla mano del fratello, con tutte le innumerevoli evoluzioni timbriche, mostrando un controllo sorprendente per la sua età e finendo così col dare la sensazione di essere sempre a proprio agio dentro una confort zone che appare tutt’altro che ristretta.

Billie Eilish ha tutti e due i piedi ben piantati nel mondo del teen pop ma la testa è fortunatamente spesso altrove, dentro un universo musicale capace – attraverso la ricerca dei suoni e ancora di più, per alcuni aspetti, grazie ai testi che pur nella semplicità dei temi sono ricchi di notevoli esercizi di stile – di operare una piccola rivoluzione nel genere. E, secondo questa prospettiva, è pressoché impossibile non riconoscere a lei e al suo lavoro grandi meriti, in primis quello di essere un’alternativa certamente di ben altra apertura e respiro per i tanti adolescenti che la seguono.

Gli altri brani del disco appaiono però decisamente fuori fuoco. when the party’s over starebbe benissimo dentro un album di Lady Gaga (con tutto il rispetto per lei ma qui cosa c’entra?) o in heavy rotation su frequenze mainstream; my strange addiction porta con sé gli echi della peggior Shakira solo apparentemente nascosti da abiti di diversa fattura (e per carità è un rischio che corre anche Rosalía assunta forse troppo prematuramente a musa di certi giri di musicisti). E gli ultimi quattro brani – tranne forse per la ballad molto classica I love you – fanno veramente da riempitivo stentando a farsi ricordare.

È così che poco a poco l’effetto del primo ascolto tende un po’ a scemare e a ridimensionarsi quasi che l’estrema versatilità vocale e musicale finisca col poter rappresentare un limite; emerge soprattutto la sensazione – e il dubbio spiacevole – che When we fall asleep, where do we go? sia un disco troppo costruito a tavolino allo scopo di piacere ad ogni costo, una macchina (quasi) perfetta che accontenta alla fine un po’ tutti, costruita su una ragazzina apparsa già da troppi anni come una predestinata.

I riferimenti che pure sono stati fatti a Childish Gambino o a Tyler, The Creator sono certo importanti e impegnativi ma marcano al contempo una distanza notevole. La decantata genuinità della coppia di fratelli ci pare – allo stesso modo – un finto merito, come ingenua ci sembra la descrizione di un mondo compositivo naïf e anzi – una volta denunciati i punti di riferimento – è marcato ancora di più il divario corposo che separa gli arrangiamenti e le basi di questo disco rispetto a tutte le grandi produzioni che sono in circolazione.

È un disco in definitiva che mostra diverse anime e del resto sarebbe anche impensabile che una ragazza di diciassette anni – pur determinata e preparata al successo – possa già avere le idee chiare sulla direzione da prendere. When we fall asleep, where do we go? rappresenta, così, certamente un esordio molto interessante, in cui le pur molte ombre non sono in grado di oscurare gli episodi migliori lasciando ben sperare per i prossimi passi di una carriera che ci auguriamo lunga e di successo.


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