Bleech Festival, il villaggio globale della provincia piacentina

Dal 31 agosto al 3 settembre 2023 torna Bleech Festival, il boutique festival piacentino arrivato alla sua settima edizione che quest’anno si trasformerà in un villaggio musicale dove poter vivere concerti ed esperienze fuori dal comune. Riccardo Covelli, co-fondatore e direttore artistico della rassegna ci ha svelato cosa aspettarci da quella che si prospetta un’edizione unica nel suo genere.

Ciao Riccardo, l’anno scorso ti avevo chiesto quali differenze avessi riscontrato nell’organizzare un festival prima e dopo la pandemia, oggi, invece, vorrei sapere se secondo te è cambiato ancora qualcosa rispetto al 2022 e di definire meglio in quale fase siamo.

Con la pandemia di Covid-19 credo che sia diminuito drasticamente il processo di acquisto della musica e di conseguenza sia completamente cambiato anche il concetto di ascolto. Oggi andare a un concerto è diventato un rito ed è l’unica spiegazione che riesco a dare vedendo che ci sono migliaia di paganti nonostante il forte rincaro dei biglietti spesso accompagnato da un servizio terrificante. È avvenuto un cambio di paradigma in cui il concerto si è appunto trasformato in una messa, ma dopo aver toccato l’apice di questo fenomeno, ci troveremo a percorrere una lenta discesa.

Riccardo Covelli, co-fondatore e direttore artistico Bleech Festival

Qualche giorno fa leggevo su Instagram il post di Claudia Losini (in arte Famosini) una speaker radiofonica e creatrice di podcast, di origine piacentina, ma trapiantata a Torino che metteva giustamente a fuoco la problematica legata all’organizzazione dei festival in Italia. Oltre a essere aumentato il prezzo dei biglietti, la gestione dei “grandi eventi” lascia spesso perplessi, per non dire delusi. Tre esempi: per assistere allo show di Harry Styles al Campovolo di Reggio Emilia molte persone hanno dovuto aspettare fino al mattino un treno che li riportasse a casa, a Lucca altre hanno sentito e visto poco o niente dei Blur perché non erano nell’area del pit e altre ancora a Milano si sono perse il live degli Arctic Monkeys perché in coda a scambiare banconote con i token come in una partita di Monopoli. Perché in Italia si vedono scene di questo tipo, mentre all’estero no?

I grandi concerti o festival a cui si fa riferimento sono prodotti da grandissime aziende dove purtroppo ci sono una verticalità e una struttura semplicemente volte al profitto. All’estero non funziona allo stesso modo. Per esempio il modello inglese si basa su una regola dei terzi, un terzo è finanziato dal pubblico, un terzo da sponsor privati e un terzo arriva dai proventi dei biglietti. L’Italia è un paese in cui un grande concerto è finanziato dalla vendita dei biglietti e dei beni in loco (bevande e cibo), per cui l’approccio è decisamente più freddo. Inoltre bisogna considerare che le aziende che possono permettersi di fare produzione di concerti sono al massimo due o tre e che non vengono dal basso o dal mondo del volontariato.

Un concerto viene organizzato in una specifica location non tanto perché esiste un legame con il territorio o una causa, ma perché lì può funzionare. Perciò, quando manca il collante, il pubblico passa in secondo piano e diventa il fine per raggiungere un obiettivo di natura economica. Per riuscire a vedere i concerti dei grandi nomi in Italia sembra automatico doversi accontentare di un servizio pessimo, ma mi piacerebbe che qualcuno facesse un sondaggio a campione tra le persone che vanno a questo tipo di eventi e sapere qual è il pensiero comune. Non credo che sia solo la nostra bolla che si lamenta delle cattive esperienze. L’approccio aziendale ai concerti non garantisce la soddisfazione del pubblico, ma aspira soltanto a più pubblico possibile.

La vostra esperienza da organizzatori parte, invece, dall’assunto opposto. Siete una realtà piccola, ma molto radicata sul territorio, cosa credi che possa soddisfare il pubblico a cui vi rivolgete? E soprattutto come fate ancora a mantenere il biglietto gratuito chiamando artisti di punta del panorama musicale?

Il nostro festival nasce con l’idea di fare qualcosa per il posto in cui viviamo e che amiamo. Di base c’è un legame con il territorio e una squadra di persone affiatate che “lavorano” anche senza le competenze dei professionisti, ma con vitalità e passione. Al centro dell’esperienza c’è il pubblico. Questa edizione è particolare perché arriva dopo l’anno in cui abbiamo avuto l’ospite più pop della nostra storia: Dargen D’Amico. Di conseguenza ci siamo ritrovati una portata di persone maggiore rispetto al passato e allo stesso tempo siamo andati verso una direzione che non era la nostra. Abbiamo deciso di fare un passo laterale riprendendo l’approccio delle prime edizioni in cui volevamo scoprire e scommettere. Nel tempo l’identità si costruisce sulle scelte più coraggiose e non su quelle più scontate. Oggi sappiamo che le persone che vengono dalle grandi città vogliono fare l’esperienza che solo la provincia può dare. Un festival come il nostro nasce in provincia e in provincia resta.

Dargen D’Amico – Foto di Marta Castaldo

Quali sono le maggiori novità della settima edizione di Bleech Festival?

Quest’anno il percorso inizia fuori dal festival. Da fruitori di eventi musicali abbiamo cominciato a notare che la dimensione in cui ci trovavamo stava diventando fuori portata. L’estremo successo che ha avuto negli ultimi anni la scena indie ha portato a un punto di insostenibilità economica per quanto riguarda la richiesta degli artisti. Oggi per noi è incoerente andare in quella direzione. Per questo motivo la prima novità è in ambito artistico: ci siamo spinti verso la musica elettronica, anche perché siamo cresciuti e sono evoluti i nostri gusti musicali insieme a quelli del nostro pubblico. Quindi quest’anno preparatevi a ballare più del solito. Venerdì 1 settembre avremo i Ninos du Brasil, mentre sabato 2 ci sarà il dj e producer Populous. Giovedì 31 agosto avremo, invece, i primi ospiti internazionale del festival: i KOKOKO!. Quello che hanno in comune questi nomi è che sono tutte scommesse.

Siamo in una città in cui l’affluenza di studenti stranieri negli ultimi anni sta aumentando molto e il nostro festival è dedicato anche a loro, mentre a livello di fruizione un clubbing culturalmente ricco sta tornando in voga e sarà sempre più rilevante in futuro. Le persone hanno bisogno di essere intrattenute e spesso si balla anche per dimenticare i tempi duri che stiamo attraversando. Credo che il clubbing stia vivendo una stagione florida. Se il cantautorato non sarà capace di restare contemporaneo e di interpretare la realtà che ci circonda, il rischio è che perda un po’ il passo.

Le altre novità riguardano, invece, il ritorno del mercatino con una nuova area market, più laboratori per adulti e bambini e una masterclass di degustazione di vino che ci porta nella direzione del boutique festival, piccolo, ma collettivo. Oggi abbiamo una maggiore consapevolezza dei limiti che vogliamo superare e quali sono i confini dentro i quali vogliamo giocare.

Tra i nomi di punta di quest’anno spicca anche una band straniera, i KOKOKO!, perché dopo anni di promozione della musica italiana vi siete aperti alla musica internazionale e perché la scelta è ricaduta proprio su di loro?

I KOKOKO! sono un collettivo di musica elettronica che arriva da lontano, precisamente dal Congo. Per qualche mese sono stati una pulce nell’orecchio che abbiamo considerato una pazzia. Quando, però, abbiamo dovuto definire i nomi degli special guest ci siamo resi conti che tutte le nostre scelte erano nomi che stavano andando fuori portata e in molti casi erano già gli headliner di almeno altri dieci festival in Italia. Il punto della questione è che abbiamo voluto differenziarci. Da qui il claim “Welcome to the Village” che compare sulla locandina e di “usciamo insieme a riveder le stelle”: per noi è stato come scappare da una caverna dove eravamo stati imprigionati contro la nostra volontà e tornare a vedere finalmente il cielo che guardavamo quando abbiamo immaginato questo festival. Quindi l’idea che avevamo archiviato mesi prima è diventata la chicca di questa edizione. Abbiamo la prima band internazionale della storia di Bleech Festival che è anche un’esclusiva italiana.

Parliamo degli altri artisti che si esibiranno. Chi sono i giovani che saliranno sul palco e cosa ci dobbiamo aspettare da loro?

Uno dei nomi a cui sono più affezionato è Gregorio Sanchez, che sarà uno di quegli artisti di cui sentiremo parlare parecchio. Gli European Vampire, invece, li vedremo non tanto in Italia, ma in Europa dove hanno già cominciato a farsi conoscere, per esempio al Primavera Sound a giugno scorso. Poi c’è Orlando che è un autore pazzesco con una voce spaziale. Lo abbiamo conosciuto a una serata Spaghetti Unplugged a Milano quest’inverno, lo abbiamo seguito e lo abbiamo visto crescere di volta in volta. Per i festaioli c’è l’after party del sabato con Mille Punti, Euro Nettuno e Carlo Alberto che sarà una mina perché è curato dalla nuova etichetta di Bruno Bellissimo, POLYAMORE.

E le certezze che vi hanno fatto apprezzare dal pubblico? Bleech = …

Non vorrei dirlo ad alta voce, ma spesso Bleech è stato = pioggia, ma anche Bleech = fuochi d’artificio (fatti da ignoti nella terza edizione in città alle tre di notte). La lista continua con Bleech = quelli di Dargen, della cantina di vino e del monastero che è stata l’edizione ahimè martoriata dal maltempo. 

Corte Faggiola è ormai casa per il Bleech. Cosa vi ha spinto a rimanere lì per la seconda edizione? Prova a descrivere l’atmosfera di questo posto a qualcuno che non la conosce.

Il primo aspetto e più importante è che ci è stata posta la sfida di far rivivere quel posto. Era un luogo abbandonato se non fosse per l’Osteria dei fratelli Pavesi che è lì da tanti anni. Ci siamo chiesti come riqualificare un posto che non è sui colli, che è ancora in campagna e che è a pochi passi dalla città e da un paese molto industriale. Ci è piaciuto capovolgere le carte in tavola e infatti adesso Corte Faggiola vive anche quando non c’è il Bleech. In seconda battuta c’è stata una grandissima disponibilità da parte dell’amministrazione locale, il Comune di Podenzano. Abbiamo ricevuto un’accoglienza che non abbiamo mai trovato altrove, in primis dal sindaco, ma anche dai tecnici che sono sempre molto disponibili. Sentire il supporto umano oltre a quello economico per noi è fondamentale e loro ci riescono. La Faggiola custodisce cent’anni di storia della nostra provincia, dava impiego a tante persone perché era una corte agricola dove si lavorava la terra. Le persone lo percepiscono come luogo di incontro e il villaggio di Bleech va proprio in quella direzione. Un posto vissuto dove trovare i segni del passato è la casa ideale del nostro festival. 

Corte La Faggiola – Foto di Benedetta Cutolo

Che cosa speri che si porteranno a casa le persone che parteciperanno alla rassegna?

Da una parte spero che succeda quello che è accaduto gli anni scorsi. Da una parte ci piacerebbe anticipare una moda e lanciare gli artisti di domani e dall’altra sarebbe bello che il nostro pubblico evolvesse e si fidasse delle nostre scelte. Questa è un’edizione in cui la curiosità porta meraviglia. Il paradigma è cambiato, non si viene per il nome sulla line-up, ma per il festival. Spero che il pubblico si lascerà sorprendere che è il grande obiettivo di qualsiasi organizzatore di eventi.

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