Bob Moses – Battle Lines

Come degli Alberto Angela musicali, i Bob Moses hanno fatto dell’elettronica divulgativa il loro punto di forza. Tra melodie affascinanti e pop d’autore, il duo canadese composto da Tom Howie e Jimmy Vallance ha cercato di far passare quasi sottotraccia una componente elettronica di capitale importanza per la loro musica, capace di essere accettata a livello inconscio anche da coloro che, di primo impatto, non si sono mai detti fan del genere. Il loro mix di rock di basso profilo e di intermezzi elettronici degni della migliore scuola berlinese ha trasformato i due ragazzi di Vancouver in una sorta di stargate capace di portare fino alle nostre orecchie una sorta di cantautorato elettronico, se così si può dire (un po’ come ha fatto Cosmo da noi).

Compagni sin dai tempi della scuola, il duo ha conquistato con un solo album, Days Gone By, l’affetto e la fiducia di una fetta di ascoltatori che da tempo aspettavano un mashup credibile tra fasi diverse della storia musicale e la curiosità di chi, da sempre legato alla teoria della musica fatta con gli “strumenti veri”, trovava una sorta di sussidiario musicale che permetteva loro di accedere a un mondo inesplorato. Nel loro primo album uno stile musicale dalla facile etichetta “indie” serviva a farci sculettare mentre si ascoltava l’eterea voce di Howie che ci narrava il fascino dietro la routine e rendeva degna di essere ascoltata la più normale delle normalità. Se, però, Days Gone By rimaneva imbrigliato nelle maglie dell’esperimento, del tentativo immaturo di far qualcosa di nuovo, mostrando più di un attrito tra musica e cantato, tra analogico e digitale (seppur al netto della bella idea che si celava dietro il progetto), con il secondo album la band punta a dimostrare di essere maturata e di aver imparato a fondere con maggiore abilità i generi e le parti che compongono i loro brani.

Battle Lines è il nome del secondo album che arriva dopo tre anni dal debutto, a riprova proprio dello studio approfondito e del lavoro intenso portato avanti dai due ragazzi. La risposta alle prime difficoltà incontrate dal gruppo risiede nel tentativo di gettarsi appunto tra le linee nemiche in maniera più agguerrita, lasciandosi dietro quel mood nostalgico e sospeso che aveva caratterizzato le tracce del primo album, tra piccoli mondi e spiriti cupi, per lanciarsi nella sfera del rock à la Noel Gallagher, strafottente e accattivante. La summa perfetta del nuovo corso dei Bob Moses emerge già dalla traccia di apertura, Heaven Only Knows, in cui l’inno al sacrificio è cantato nello stile dell’ex Oasis su una base musicale che lascia andare ben presto pianoforte e drum machine e delega all’elettronica spinta il compito di riempire i bridge. Il passaggio di consegne musicali sembra molto più naturale rispetto al primo album e, cosa più importante, pare essere diventato un gioco per i Bob Moses che si spingono fino a far dialogare cori a cappella e ritmi deep house.

Il difetto della soluzione trovata dai vecchi compagni di scuola sta nell’essersi rivolti a uno stile musicale che ha imperato in maniera così potente da essere saturo, a livello di variazioni e interpretazioni. Il limite si mostra in tutta la sua evidenza già nella title track che decide di mettere in secondo piano la parte elettronica, assestandosi sul piano di un brit-rock che ha il difetto di suonare come già sentito mille altre volte. A nulla vale il bell’assolo che segue la struttura standard della canzone rock a rialzare le sorti di una musica che avremmo potuto ascoltare da tante altre band con una maggiore consapevolezza e che, forse, è troppo giovane per essere riportata in auge da una sorta di desiderio di revival.

Le sorti sembrano cambiare quando il duo prova a tornare sui suoi passi e decide di sperimentare con il pop in salsa vintage che, come ci hanno insegnato gli MGMT, ben si amalgama a delle pennellate elettroniche. Anche in Back Down e Selling My Simpathy, i pezzi più radiofonici dell’album, la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di già sentito è forte: come nel caso di Battle Lines, questo non comporta in alcun modo un cattivo giudizio sulla traccia che in realtà suona bene, ma appare un po’ troppo vittima di quell’usato garantito che non ci saremmo aspettati dai Bob Moses, che sembravano spingere in una direzione diversa con il primo disco.

In Eye for an Eye torna a quella voglia di sperimentare (che era emersa nell’album di debutto e che ci aveva tanto fatto ben sperare) attraverso un’interessante commistione di generi che porta l’elettro-pop canadese a interfacciarsi con ritmi arabeggianti creati dalla sei corde, ed esotici prodotti dall’hang che gioca un ruolo predominante nei primi secondi della traccia. Un desiderio di stravolgere le regole del gioco che emerge anche da The Only Thing We Know che, ipnotico e in gran parte strumentale, crea un’atmosfera labirintica in cui è facile perdersi in uno stato catatonico da cui ci sveglia solo il fischio metallico che emerge dalle viscere della canzone. La stessa idea musicale sembra riaffiorare da Enough To Believe, forse il brano più interessante di Battle Lines, in cui la breve parte cantata è seguita da un lunghissimo e affascinante outro instrumental. Il grande problema dei due migliori pezzi dell’album è che ci troviamo a nostro agio nell’ascolto solo nelle tracce che danno meno spazio alla parte cantata e, ancora peggio, solo nelle parti lasciate all’elettronica di Vallance.

Tutta quella disomogeneità che la band rivelava all’interno dei singoli pezzi dell’album di debutto sembra essersi trasferita all’esterno dei brani, approdando a livello di concept dell’album. I brani si susseguono in maniera frammentata, senza un vero fil rouge musicale che renda possibile lo scorrere naturale delle tracce. Il risultato è un disco che dimostra come la musica del duo debba ancora maturare per trovare una sua dimensione e non dover procedere con vari tentativi per proporre il proprio stile. L’impressione generale è che i Bob Moses debbano trovare il modo di fondere in maniera efficace la musica e l’afflato cantautorale appellandosi a uno stile che possa essere riconosciuto come totalmente loro e che, allo stesso tempo, sia capace di legarsi con i loro interessanti spunti di matrice elettro-pop. L’idea di mixare i generi e trovare una quadratura del cerchio necessita di un gran lavoro che speriamo i Bob Moses non vogliano abbandonare. Se la meta è questa, ben vengano i tentativi come Battle Lines.

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