Il ritorno di Bonnie Nadzam: anteprima di Lions

Da dopodomani sarà in libreria il nuovo romanzo di Bonnie Nadzam. Lions, tradotto da Leonardo Taiuti, è il secondo titolo pubblicato da Edizioni Black Coffee, casa editrice che vede in Sara Reggiani e Leonardo Taiuti i fautori di una nuova realtà editoriale all’insegna della letteratura nordamericana.

Bonnie Nadzam ritorna nelle nostre librerie e lo fa con Lions, un romanzo diverso dal suo esordio che narra le sorti di una città che non ce l’ha fatta nella spietata lotta per la propria affermazione geografica ed economica. Se in Lamb al centro c’era la sconfitta di un uomo e della sua vita popolata di sfumature e parole di troppo, in questo nuovo romanzo invece ci sono le storie di due diciassettenni che vivono quella che è la provincia del Colorado lontano dalle grosse rivincite finanziarie che hanno contraddistinto l’intero paese sotto il segno del fordismo – per citarne alcuni esempi.

A riportare la scrittrice in libreria è la Black Coffee di Sara Reggiani e Leonardo Taiuti. Dapprima una collana all’interno della fiorentina Edizioni Clichy, adesso una vera e propria casa editrice che ha in programma un viaggio che va dritto per le cinque pubblicazione annuali. Il primo titolo è stato Il corpo che vuoi di Alexandra Kleeman, tradotto magistralmente da Sara Reggiani. Tra le loro intenzioni c’è quella di portare all’attenzione di tutti i lettori le opere di scrittori e scrittrici emergenti, gettando lo sguardo su quello che è lo stato attuale della scrittura al femminile che sta influenzando le regole di un certo modo di fare letteratura negli Stati Uniti. Ci sarà anche spazio per i racconti, ma maggiori informazioni si avranno nei prossimi mesi.

Di seguito vi lasciamo un estratto di Lions, ringraziando l’editore per averci concesso questa piccola esclusiva.

Qui il sito di Edizioni Black Coffee, dove oltre ai titoli disponibili trovate una serie di articoli selezionati dal magazine The Believer e tradotti da Sara Reggiani e Leonardo Taiuti.

introduzione a cura di Michele Nenna


BONNIE NAZDAM – LIONS

Se avete mai amato davvero qualcuno, saprete che c’è un fantasma in ogni cosa. Visto la prima volta, lo vedete ovunque. Vi osserva dall’immobilità di una sedia. Dal vecchio trattore Massey-Harris del ’52, rosso lucido un tempo e diventato ormai rosa, rugginoso, con i fari rotti. Cieco.
Immaginate gli altopiani in tarda primavera. Verdi distese ondeggianti di grano duro sul terreno piatto, sterminato. Lo zuccherificio abbandonato, con le sue migliaia di mattoni rossi circondate da una recinzione in cui si impigliano i rotolacampo. Più giù, lungo la statale, la luna che sorge come un uovo da dietro il silo vuoto, arrugginito lungo le saldature. A nord e ovest, la città scarsamente popolata. I rettangoli dorati di qualche finestra illuminata che galleggiano sulla pianura.
L’avevano chiamata Lions, un nome figlio di un’inventiva sfrenata e di irragionevoli speranze. Ma erano rimasti delusi. Di leoni non se ne erano mai visti. Anche ora c’è solo questa terra, una cotenna di polvere ed erba lucente. Il vento la sferza senza sosta, soffia sull’artemisia e sugli edifici deserti e sulle case segnate dal tempo, svuotando quelle che non sono già sgombre. Piatta come lo scantinato dell’inferno e vuota come il cielo sconfinato che la sovrasta. L’orizzonte descrive una curva netta, sottile, come tornita da un artigiano esperto.
Nulla resta nascosto.
Eppure…

Dennis Hopper

Si dice che, dando a quel luogo il nome di un sogno dal quale si rifiutavano di svegliarsi, gli abitanti di Lions avessero gettato una maledizione su se stessi, oltre che sulla città, una maledizione che infine si era concretizzata l’estate in cui un uomo con il suo cane e gli abiti scuri gonfiati dal vento era entrato in città, camminando nel fosso lungo la strada, venuto Dio solo sapeva da dove.
Doveva essere giunto da nord, dicevano.
Aveva fatto il giro a piedi sulle colline, poi aveva seguito la statale ed era arrivato come se venisse da est.
Non voleva che si sapesse da dove veniva, dicevano. O cosa faceva.
Si dice che quella sera, quando Chuck Garcia, lo sceriffo della contea, gli chiese chi fosse, quell’uomo non fu in grado di dargli una risposta. Niente nome, niente documenti, solo una scrollata di spalle. Si dice che fosse smunto, con il viso stranamente adombrato, e che anche se dai capelli grigi e le spalle curve immaginarono che avesse cinquanta, cinquantacinque anni, sul volto non avesse neppure una ruga, né ci fosse una luce in quegli occhi, che erano neri come semi.
Si dice che quando fece tappa dagli Walker, John Walker praticamente si accasciò morto nel punto in cui si trovava e Georgianna, l’adorata moglie da trentacinque anni, in quel momento quasi evaporò dalla cucina sul retro della casa, tanto divenne distante e apatica. Si dice che Gordon, il figlio, rimasto solo a raccogliere i cocci e portare avanti il lavoro del padre, fosse spacciato.
Leigh Ransom, che all’inizio di quell’estate apparentemente perfetta aveva diciassette anni, se lo sentiva che sarebbe accaduto. Era molto intima con gli Walker, e naturalmente era a conoscenza dei dettagli della morte improvvisa del nonno di Gordon, avvenuta alcuni anni addietro, e immaginava che qualcosa di simile sarebbe accaduto anche a John. Ogni cosa seguiva un corso prestabilito, specialmente a Lions. Specialmente se c’erano di mezzo gli Walker. Perciò, quando quella sera vide i lampeggianti silenziosi dell’ambulanza dalla finestra di camera sua, sapeva già chi erano venuti a prendere. Immaginava come sarebbe andata. Immaginava ogni cosa: le pervinche sbiadite sulla camicia da notte di cotone di Georgianna mentre John si svegliava accanto a lei in preda alla nausea e ai sudori freddi; la luce acquosa della luna nella stanza, l’ombra delle finestre stampata di traverso sul pavimento di assi; la mano di John Walker, fredda e bagnata, che all’improvviso stringeva la coscia di Georgianna sotto le lenzuola; lui che barcollava, mettendo più volte un piede in fallo, e i due insieme che, come danzando, scendevano la stretta scalinata fino alla porta d’ingresso, dove lui crollava a terra in maglietta e mutande, i jeans drappeggiati sul braccio di lei.
E se qualcuno quella sera gliel’avesse chiesto, Leigh avrebbe saputo descrivere nei minimi particolari tutto ciò che sarebbe accaduto a Gordon nei giorni a seguire. Il mattino successivo, nella clinica di Burnsville, l’infermiera avrebbe intrecciato le dita sul ventre ampio, le punte delle scarpe da tennis bianche leggermente separate, un ordinato caschetto di capelli grigi, gli occhi azzurri spenti e iniettati di sangue. Fuori dalle finestre, una rondine violetta si sarebbe posata pigolando su uno degli alberi del giardino. Dentro, ticchettio di computer e apparecchiature mediche, voci sommesse nei dintorni dell’ambulatorio. Lo squittio di scarpe di sicurezza con la suola di gomma sul pavimento lucido.

Dennis Hopper, l’americano

Gordon sarebbe stato lì in piedi all’ingresso della clinica, ad attendere con un sacchetto bianco di cibo da asporto preso al diner di Lions, mentre il pavimento si inclinava e la porta della stanza di suo padre si riduceva a un minuscolo rettangolo, come se all’improvviso fosse stata tirata lontano, a una distanza incommensurabile.
«Dovreste dirgli addio» avrebbe detto l’infermiera in tono piatto, rivolta a lui e Georgianna. «Mi dispiace tanto. È improbabile che riprenda conoscenza».
Ma quando più tardi Gordon si fosse trovato solo con lui, sarebbe accaduto proprio quello. Suo padre avrebbe emesso prima un mugolio sordo, poi si sarebbe schiarito la voce mentre apriva gli occhi. Avrebbe parlato lentamente, interrotto da lunghi silenzi tra un ciclo e l’altro del respiratore. Il liquido chiaro della flebo che scintillava nella luce grigia. L’elettrocardiografo con i suoi bip a intervalli regolari.
«Scrivi» avrebbe detto John Walker recitando poi le istruzioni a memoria mentre Gordon prendeva nota sul retro di uno scontrino del Gas & Grocer che aveva nel portafogli, e descrivendo il compito che stava chiedendo al figlio di eseguire. Dopo avrebbe fatto una pausa, guardando il pioppo fuori dalla finestra. «Puoi dire di no, Gordon, ma è stato il lavoro della mia vita. E, in un modo o nell’altro, sarà anche il tuo».
Era un vero specialista nel suo mestiere, uno che aveva messo su un laboratorio di saldatura senza eguali e trascorreva dieci ore al giorno in officina, uno che era in grado di saldare meglio degli ingegneri della Hobart e della Lincoln Electric che lavoravano nella regione, ed era famoso in tutto il Colorado orientale per la sua abilità e la sua precisione. Eppure chiamava lavoro della sua vita recarsi fuori città per consegnare a qualcuno su a nord del cibo in scatola, coperte, candele, pile e legna da ardere.

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