Book Pride e la pluralità multiforme e trascinante del desiderio | Intervista a Giorgio Vasta

Dal 15 al 17 marzo si svolgerà presso la Fabbrica del Vapore di Milano la quinta edizione di Book Pride, Fiera Nazionale dell’editoria indipendente; per il secondo anno sotto la direzione dello scrittore Giorgio Vasta. Un cambio di spazi necessario per una fiera in crescita: quest’anno infatti la manifestazione porterà a Milano 200 editori, che hanno lavorato e dialogato con l’organizzazione affinché gli eventi offerti (in totale 250) fossero quanto più possibile coerenti con il tema scelto: Ogni Desiderio.

Abbiamo raggiunto telefonicamente Giorgio Vasta per saperne qualcosa in più e ne è nata un’interessante e densa conversazione ricca di riflessioni, spunti letterari, consigli – sul desiderio e non solo.

Illustrazione di Nicola Magrin

Il tema della nuova edizione di Book Pride è Ogni desiderio: come e perché è stato scelto?

In un certo senso possiamo legarlo a quello che è stato il tema dell’anno scorso, Tutti i viventi, dove ragionavamo sul vivente sia a partire dalla prospettiva della biologia, quindi tutti gli organismi e i corpi che in qualche modo sono coinvolti in un ciclo vitale, ma anche tutto ciò che l’immaginazione narrativa rende vivente. Quello che quest’anno ci siamo domandati è: qual è il denominatore comune? cos’è che trasversalmente riguarda tutti i viventi? E ci siamo resi conto che l’esperienza del desiderare—che può prendere ovviamente anche nomi diversi—è probabilmente uno dei denominatori comuni. Abbiamo preferito non usare l’articolo determinativo il per indicare il desiderio perché avevamo l’impressione che lo tenesse troppo sotto controllo; abbiamo invece scelto l’aggettivo indefinito ogni che invece introduce subito alla molteplicità del desiderio stesso. Ed è anche il modo in cui vorremmo, nei tre giorni della fiera. che il desiderio fosse pensato, come qualcosa di plurale, contraddittorio, conflittuale. I desideri possono essere autentici e reciprocamente in conflitto; possono essere in conflitto con la logica, con il diritto, con la morale. Sono tutte situazioni che peraltro alla letteratura piacciono molto.

In che modo la letteratura—sia come scrittura e poi come lettura—è connessa al desiderio?

Mi verrebbe da dire quasi biologicamente: leggi una storia a partire dal desiderio continuamente rinnovato di vedere cosa accadrà, cosa accadrà da un punto di vista drammaturgico, cosa accadrà a livello del linguaggio; e la scrivi – mi verrebbe da dire – per la stessa ragione: vuoi sapere, raccontando, come va a finire, come prendono forma le cose. Per provare a dare un’interpretazione tra letteratura e desiderio all’interno di Book Pride, abbiamo costruito un percorso—che si chiama Professori di Desiderio—in cui abbiamo chiesto a dodici scrittori di tenere una lezione sul desiderio di un personaggio letterario. Quindi di parlare di un libro, non in generale, ma partendo da questa specifica prospettiva: che cosa desidera Mrs. Dalloway, che cosa desidera Antigone, che cosa l’agrimensore K. ne Il Castello di Kafka, cosa desiderano i personaggi bambini nelle favole dei Fratelli Grimm.

All’interno di questa sezione, Professori di Desiderio, i personaggi sono scelti dagli scrittori che terranno le lezioni o sono stati proposti?

Sono stati scelti dagli autori. In un unico caso, quello di Antonio Moresco e Tiziano scarpa, che parleranno del desiderio di Don Chisciotte e Sancho Panza, c’è stata una proposta diretta partendo dal sapere che Antonio Moresco da tempo sta lavorando sul Don Chisciotte, quindi immaginavo potesse avere un interesse specifico a ragionare su quel romanzo.

Negli ultimi giorni, quando si parla di desiderio, mi viene in mente la tragica e recente scomparsa dei due alpinisti in Pakistan, due persone che hanno fatto di un desiderio di ricerca e di bellezza, quindi tendenzialmente positivo, un’ossessione autodistruttiva. Questo tipo di passione cieca è ancora desiderio? E, soprattutto, crede che anche sul desiderio si debba operare una forma di controllo?

No, diciamo che pensare di tranquillizzarlo, di educarlo, è particolarmente rischioso. E’ rischioso concepire o dare forma a un desiderio che non corra rischi, anche se mi rendo conto che questi poi possono essere drammatici come nell’esempio che hai portato. Ecco, se uno volesse distinguere, è come se ci fossero due modi nei quali il desiderio può essere definito: come passione o come ossessione. Nel caso della passione, c’è un soggetto desiderante che in qualche modo mantiene il controllo, di sé, di quello che gli sta intorno e indirizza il proprio desiderio verso i propri obiettivi—questo è affascinante e letterariamente fertile. L’ossessione invece è il desiderio in cui il soggetto è subordinato dal desiderio stesso, dominato dal desiderio, come se non avesse più la possibilità di obiettare a ciò che sta desiderando. Achab di Moby Dick non è un personaggio appassionato, è un personaggio ossessivo, tanto da risultare agli occhi di chi lo legge tanto attraente quanto inquietante – e anche il desiderio declinato come ossessione è straordinariamente fertile ed è qualcosa che la letteratura ha sempre cercato. Humbert Humbert, nel romanzo di Nabokov, probabilmente vorrebbe anche sottrarsi alla sua ossessione per Lolita, ma non c’è modo: non è possibile venire a patti ed educare un desiderio che è continua insubordinazione. In questo senso, nel rendermi conto che ci sono situazioni terribili che possono venire a crearsi, ugualmente preferisco che il desiderio non venga recintato.

Mi trovo molto d’accordo con questa linea di pensiero e non mi sento di condannare del tutto il loro azzardo. Probabilmente meglio il troppo desiderio che non la negazione dello stesso – una circostanza che mi sento di riscontrare un po’ nella contemporaneità in cui viviamo.

Il rapporto tra il desiderio e il contemporaneo è sempre più interessante poiché sempre più ambiguo. Una cosa che ci siamo domandati, cominciando a ragionare su questo tema, è: quando ognuno di noi, da solo o in un luogo pubblico, sta chino sullo schermo del proprio smartphone, cosa sta succedendo? Cosa sta succedendo al desiderio? Sono momenti di refrattarietà, di distanza e di negazione del desiderio—che poi è la lettura moralistica di questi comportamenti, soprattutto quando poi riguardano i giovani, gli adolescenti e se ne parla sempre come se riguardasse qualcun altro e non tutte le persone—oppure quello che sta accadendo ha in un modo molto particolare, inedito, a che fare col desiderio? Quando qualcuno aggrotta la fronte o sorride guardando lo schermo del cellulare, scrivendo, leggendo, che cosa succede? Può darsi che, nel contemporaneo, desiderio e indifferenza, invece di essere agli antipodi come si pensa, possano trovarsi a risuonare insieme ed essere la stessa cosa. Io personalmente non ho una risposta precisa a questa domanda, ma una disponibilità a pensare che desiderio e indifferenza possano compenetrarsi, quello sì—perché mi sembra che sempre più spesso accada una cosa del genere.

Sempre parlando di giovani, mi viene in mente il libro di una scrittrice che sarà presente a Book Pride: Cecilia Ghidotti e il suo Il pieno di felicità. La generazione di Ghidotti—che è anche un po’ la mia—quanto ancora può permettersi di desiderare?

Quello è un incontro che mi interessa molto, perché il dialogo tra Ghidotti e l’autore di Confessioni di un NEET  si concentra su quello che potrebbe essere un’altra maniera in cui il desiderio contemporaneo si esprime. Una specie di desiderio che ha accettato di indebolirsi e di non potersi concretizzare, quasi un desiderio indistinguibile dal velleitarismo—non perché ci sia qualcosa di sbagliato nella generazione di Cecilia Ghidotti, in quella di chi ha 20-30 anni in questo momento, ma perché è come se si fosse assorbita l’idea che il desiderio è inconseguente. Puoi desiderare quanto vuoi, ma tanto le cose o accadono agli altri o non accadono più. Non c’è da raccomandare a qualcuno di continuare a desiderare—perché appunto il desiderio non è una raccomandazione. A un certo punto c’è e riesce a diventare dominante; non c’è atmosfera generazionale che tenga: desidererai per ottenere o per dissolvere ciò che desideri. Perché – come dicevamo prima – ci sono desideri che sono così: cupio dissolvi.

Ritornando agli aspetti pratici della fiera, Book Pride quest’anno avrà una nuova sede: quali saranno le altre novità rispetto al passato e invece gli elementi di continuità?

L’elemento di continuità è quello al quale si è fatto riferimento prima: un tema che non sia decorativo, che non venga introdotto in sede di comunicazione e poi fatto sparire operativamente mentre si costruisce il programma, ma che sia proprio l’architrave, l’elemento di regia attraverso cui si organizza un intero programma. L’altro elemento continuità—direttamente collegato a quanto ho appena detto—è dialogare con tutte le case editrici iscritte alla fiera, perché, se il tema vuole essere conduttore, devi parlare e condividerlo con tutti quelli che sono i tuoi interlocutori. Noi, già dall’anno scorso, abbiamo chiarito che non volevamo fare una fiera in cui riceviamo contenuti dalle case editrici per collocarli all’interno di un contenitore generico. Vogliamo parlare con ogni singolo editore, ragionare sulle loro uscite, sul loro catalogo per capire quale può essere l’incontro più coerente rispetto al tema, e allo stesso tempo più utile per loro.
La discontinuità riguarda lo spazio: ci siamo spostati da BASE a Fabbrica del Vapore avendo a disposizione una maggiore superficie e tra padiglioni. Due sono interamente dedicati all’esposizione, quindi ospitano le case editrici, e uno interamente destinato di quartiere. E una specie di quartiere, di agorà; uno spazio all’aperto che attraversi per spostarti da un padiglione all’altro—che quindi fa da raccordo fisico ma anche in qualche modo tematico. Specialmente in una manifestazione come Book Pride dove l’ingresso è gratuito, sia allo spazio espositivo e agli incontri, non c’è qualcuno che segue gli incontri e non va a guardare i libri o, viceversa, si muove nello spazio espositivo e non ascolta gli incontri. C’è una continuità naturale, ed è quella che questa morfologia nuova vuole favorire: un movimento continuo in questo spazio.

Come ci si sente, da scrittore, a ricoprire ormai da due anni il ruolo di direttore creativo di una fiera dell’editoria indipendente?

Io mi sono accorto che affronto questo lavoro grosso modo nello stesso modo in cui posso affrontare una pagina, quindi nevroticamente, ossessivamente, con l’ardire di tenere non tutto ma il più possibile sotto controllo – non nel senso di irrigidirlo, giudicarlo, ma averne consapevolezza sapendo che tanto strutturalmente c’è sempre qualcosa che non riuscirai a tenere a bada. Tutto sommato ci sono variabili telepatiche che si sfilano dal tuo tentativo di controllarle—al momento è deprimente, però nel complesso è una cosa giusta. E’ chiaro che mentre scrivi tutto quello che compare sulla pagina dipende solo da te, mentre nell’organizzazione di una fiera hai centinaia di interlocutori con cui ti confronti. Alla fine di una giornata di scrittura, hai cercato di far fare alle frasi più o meno quello che hai desiderato che facessero; alla fine di una giornata di organizzazione della fiera—dato che le persone non sono frasi e hanno tutte una loro autonomia che non dipende da me—sarai riuscito a fare un decimo di quello che più o meno ottieni nella scrittura. E non è detto che sia una cosa negativa, anzi.
Dopo mesi e mesi di organizzazione di una fiera, pensi al rapporto con una pagina come a una sorta di oasi: sto aspettando di passare delle giornate in cui le uniche variabili dipendano da me. Però ci sono un sacco di cose impreviste e sorprendenti che vengono dal contatto con tutti questi interlocutori—che sono gli editori, i gruppi di lavoro, i partner di questa manifestazione. Quindi sì, c’è una continuità tra la scrittura e l’organizzazione, ma ripeto: è di ordine nevrotico – me ne sono reso conto nel giro di poco.

Book Pride è una fiera dell’editoria indipendente. Che ruolo ha o può avere l’editoria indipendente nel panorama editoriale italiano?

L’editoria indipendente ha già un ruolo, nel senso che determina dei processi di ordine culturale; interloquisce con i lettori, lo fa attraverso i cataloghi delle case editrici indipendenti e attraverso l’interpretazione che le librerie indipendenti danno di quei cataloghi, promuovendoli. E’ una situazione che può nettamente migliorare e irrobustirsi—questo secondo me accade nel momento in cui aumentano i lettori che sono in qualche modo autori delle proprie scelte, consapevoli di entrare in una libreria indipendente e non di catena. Senza ovviamente nessuna demonizzazione nei confronti delle librerie di catena, però è chiaro che la libreria indipendente, se lavora in un certo modo, proporrà al bancone o a scaffale una scelta di libri che non è quella che governa l’impostazione di una vetrina Feltrinelli, o la proposta che su Amazon o IBS puoi ricevere dopo avere scelto un libro. Potrebbe interessarti anche—dove è un algoritmo, sempre più raffinato ma comunque un algoritmo, a suggerirti delle alternative. Dentro una libreria indipendente c’è qualcuno che si incarica di proporti degli accostamenti tra altri titoli. Se aumenta il numero di lettori, autori delle proprie letture, il dialogo in questione diventa più capillare, più raffinato, sempre più reciproco. E’ quello che uno spera accada in una fiera con queste caratteristiche: una fiera non piccola ma nemmeno elefantiaca, in cui il lettore andando in giro per gli stand incontra gli editori, parla con loro, ascolta il racconto di com’è fatta quella casa editrice, che cosa propone. E viceversa, ogni lettore può raccontare agli editori cosa gli interessa. Questa misura, tra il non essere piccolissimi e il non essere enormi, è secondo me un punto di forza, di agilità.

A proposito di case editrici indipendenti, ci consiglia delle nuove uscite che considera meritevoli e magari poco conosciute?

C’è un libro che ho letto da poco—lo ha pubblicato Nottetempo, una casa editrice che dal principio partecipa a Book Pride. Si intitola Mrs. Caliban; l’autrice, Rachel Ingalls, è morta qualche giorno fa e sarebbe anche un’occasione per ricordarla
Mrs. Caliban è un libro sorprendente—andrebbe considerato un romanzo (sono circa 140-150 pagine) ma ha in realtà il ritmo e il respiro di una novella. Racconta una storia che può subito farci venire in mente La forma dell’acqua di Guillermo Del Toro, vale a dire un amore interspecie. Una donna che ritrova in casa un uomo rana—sul quale sono stati condotti esperimenti ed è riuscito a scappare dal laboratorio—e in una maniera disorientante—che credo poi abbia a che fare con una particolarissima grazia del libro stesso—ci racconta di avventure e allo stesso tempo di quotidiano che questa coppia viene a comporre. Segnalerei quindi questa storia, perché proviene da un editore indipendente, perché l’autrice è appena scomparsa e perché appunto non è nota come altri autori e vale la pena menzionarla per fare aumentare un po’ la sua riconoscibilità. E poi perché reputo molto affascinante questa aspetto dell’amore interspecie, penso alle sirene, le ninfe e così via.

Giorgio Vasta

Per chiudere, una domanda un po’ più personale su Vasta scrittore: ho visto recentemente un suo racconto all’interno di un’antologia sul risentimento, ha altri progetti nel lungo o breve termine?

Nel breve termine, due libri che in teoria dovrei riuscire a chiudere nel 2019. Uno è direttamente legato a un libro di qualche anno fa che si intitola Absolutely Nothing ed è quasi una specie di ribaltamento di prospettiva: lì si raccontavano, viaggiando tra gli Stati Uniti, i deserti americani; con lo stesso fotografo con cui ho viaggiato negli Stati Uniti siamo stati a Palermo e quest’altro libro dovrebbe intitolarsi Absolutely Everything. Quindi passare dal nulla, dalla rarefazione nordamericana, all’eccesso e agli estremi palermitani. L’altro libro è un saggio, ma in realtà avrà una forma narrativa: ha a che fare col tempo sprecato, col tempo perso. Con quel tempo perduto—già nell’espressione di Proust, il tempo perduto che ha una sua nobiltà—e quello sprecato—che invece consideriamo imperdonabile. Ho pensato di scriverne un libro avendo già da qualche anno la sensazione che quel tempo sia in realtà una sorta di strano e paradossale patrimonio.

 

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