Broken Social Scene – Hug of Thunder

C’è stato un periodo in cui, dall’altra parte dell’oceano, i grattacieli diventavano macerie nell’arco di mezza giornata e internet iniziava ad affermarsi come un modo nuovo ed estremamente efficace per tentare di veicolare la propria musica verso un pubblico più vasto anche se eri notoriamente “fuori dal giro”. Ai tempi il giro in questione non comprendeva Toronto e il Canada in generale e parlare di una scena indie più a nord di Chicago suonava ridicolo quasi quanto pensare a una skyline di Manhattan senza torri gemelle. I Broken Social Scene furono uno dei primi gruppi ad approfittare di quell’online boom dell’indie-rock post-mySpace e il file sharing impazzito dell’epoca finì per sbatterci in faccia il loro sound variegato, combattivo e romantico più rapidamente di quello che forse avrebbe fatto un contratto — mai firmato — con una major.

Qualcuno ha scritto “their ambitious, cross-genre sound was bound together by an irrepressibly romantic spirit, embodying the noise and angst of a generation coming of age under the worst American president of a then-teenager’s lifetime.

Ecco, non credo sia un caso (o comunque mi piace pensare che non lo sia) se la band canadese torna sulle scene — a sette anni dall’ultima fatica discografica e dopo una lunga pausa che in molti avevano temuto facesse rima con “scioglimento” — proprio oggi, dove per “oggi” intendo questo preciso momento storico, quando la situazione internazionale è quella che è e negli USA è salito alla ribalta l’unico personaggio in grado di farci rimpiangere il buon vecchio George W. Bush, giusto per ricordare a chi lo aveva definito “il peggior presidente degli Stati Uniti”, che al peggio non c’è mai fine. Amen.

Collettivo formato da più di dieci membri (dodici? quindici? ho perso il conto — diciannove, credo, al netto di tutto il via-vai degli ultimi anni — approfitto della parentesi per dare il benvenuto a Ariel Engle, l’ennesima new-entry, la cui voce però si è subito adattata in maniera così naturale al suono dei compagni da farla sembrare parte della band da sempre, facendomi così, forse, sbagliare il calcolo — chiedo venia, nel caso) che in termini di avvicendamenti di formazione assomiglia più a una comune degli anni Settanta che a una effettiva rock-band, i Broken Social Scene erano (sono) innanzitutto un gruppo affiatato di amici. Amici che negli anni hanno portato avanti con passione e perseveranza i loro lavori solisti e/o paralleli — Metric, Stars, Feist, Do Make Say Think, The Dears and so on — fino ad arrivare singolarmente anche a un discreto successo, almeno agli occhi della critica di settore, elevando così il progetto di partenza al bizzarro status di “supergruppo al contrario”.

Fatta questa premessa, non è quindi difficile concordare su un dato di fatto: con una line-up così costantemente in rotazione e la proposta musicale variegata e difficilmente catalogabile a cui ci hanno da sempre abituati, la verità è che non sai mai cosa bolle in pentola quando sta per uscire un nuovo album di Kevin Drew e soci. Almeno teoricamente, intendo. Sì, perché — e penso di poter dire sia il caso di questo ultimo lavoro — tanta imprevedibilità a prescindere, può risultare alla lunga prevedibile. Non che la cosa sia necessariamente un difetto: ci sono momenti in cui prendersi un attimo per respirare (“certain times in our lives come to take up more space than others”, cantano nella title-track), facendo quello che sappiamo meglio fare lasciando in un angolo l’ansia di stupire ad ogni costo, è la soluzione migliore per rimettere insieme i pezzi e tirare le fila di un discorso che sembrava interrotto, o quantomeno impacciato. Ecco quindi che Hug of Thunder finisce — senza particolare imbarazzo — per essere esattamente il disco che ti aspetteresti dai Broken Social Scene dopo averne perso le tracce per così lungo tempo. Alterna episodi serrati e magniloquenti (che testimoniano ancora una volta come anche i cugini belli e famosi — ai più noti come Arcade Fire — debbano loro non poco) alle loro classiche perle di pop orchestrato, senza farsi mancare ritornelli irresistibilmente singalong, ma  passando spesso attraverso confessioni più intime in forma di piccole ballad oblique che risultano comunque, as usual, tutt’altro che anemiche.

Il modo va a scatafascio — la news non può certo considerarsi breaking — e i Broken Social Scene non offrono soluzioni (mai hanno tentato di farlo, probabilmente — nonostante i nostri ricordi vorrebbero farci credere il contrario), quanto piuttosto piccoli trucchi per sopravvivere a questa nuova era senza perdere la voglia di lottare. Al riguardo, Hug of Thunder ci dice chiaro e tondo che le connessioni tra le persone e una sorta di empatia selettiva sono quello che ci aiuterà a superare la tempesta, e ammetto che dà un certo conforto vedere questo album per quello che appare, ovvero una bella scusa, da parte di un po’ di vecchi compagni di merende — apprezzatissimi, in questo senso, i ritorni di Leslie Feist e Emily Haines back on board — per ritrovarsi e fare serenamente il punto della situazione, senza perdere l’occasione di mettere insieme dodici pezzi solidi e di qualità, che certo non re-inventano la ruota, ma suonano e sanguinano in maniera abbastanza credibile, almeno quando basta per giustificare — prima che a chi ascolta, a loro stessi — questo continuo orbitare gli uni attorno agli altri, come una sorta di dipendenza da cui ci si allontana ricorsivamente, senza però mai (volere) riuscire a uscirne.

Protest Song, Stay Happy, Victim Lover, Gonna Get Better, Please Take Me with You: la tracklist di Hug of Thunder potrebbe essere stata creata con un ipotetico generatore automatico di titoli dei Broken Social Scene, il cui semplice algoritmo — per ovvi motivi — è costruito attorno a un loop in cui a mordersi la coda è quell’ottimismo di altri tempi che riesce a vedere sempre e comunque il germe della rivoluzione dentro le piccole cose. E pure a livello musicale, basta essere anche solo un mezzo fan della band per non stupirsi più di troppo di quello che il disco propone. Il problema — e, in questo senso, la loro fortuna — è che il prodotto che tentano di venderci, ovvero una manciata di inni — a volte gridati, a volte sussurrati, spesso sfacciati, sempre sinceri — alla potenza trascendente e inarrestabile della classica ricetta figlia di troppi fiori amore / amicizia / sesso / rock’n’roll (più qualche droga a insaporire il tutto), negli ultimi anni è andato scomparendo dagli scaffali dei nostri negozi di dischi, come un pacchetto di Cinnamon in mezzo a un panorama indie internazionale fatto di boeri e liquirizie Goleador. Ecco perché il ritorno della formazione canadese è — se non vogliamo definirlo addirittura tempestivo — almeno indubbiamente gradito, come una bolla di aria fresca — che non vedi l’ora di far scoppiare toccandola con un dito — in mezzo a una cappa di smog, durante un corteo di protesta a tema climate change.

Quindici anni fa questi ragazzi cantavano Anthems for a Seventeen-Year-Old Girl. Oggi quella diciassettenne di anni ne ha trenta suonati, e quella piccola ninna-nanna lo-fi forse la usa per addormentare sua figlia, mentre, seduta su una panchina a due passi dalla riva dell’Ontario, fa oscillare il passeggino godendosi il tiepido sole di una tarda primavera canadese, con il cielo limpido e la neve sciolta da poco. Mica male, messa così. Eppure la situazione, là fuori, sull’altra sponda del lago e oltre, non è che sia migliorata. Anzi. Però, dopotutto, per quanto il mondo sia dichiaratamente senza speranza, della sua fine annunciata per ora non c’è traccia e — al contrario, invece — è rimasto un sacco di lavoro da fare per assicurarsi che le cose vadano davvero meglio, piuttosto che soltanto meno peggio. Questo, principalmente, è il motivo per cui abbiamo ancora bisogno dei Broken Social Scene e di questo album in particolare, perché ci serve come il pane qualcuno che ci ricordi che è il caso di rimettersi a correre, non necessariamente indicandoci una direzione. L’importante è che decida di correrci accanto, continuando a sussurrarci nelle orecchie, come un mantra: se proprio ci devono prendere, che almeno ci prendano vivi.

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