Bruciare tutto di Walter Siti: quando l’osceno è politico

a cura di Alice De Gregoris

Bruciare tutto, ultimo romanzo di Walter Siti, è un libro effettivamente o-sceno, nel vero senso del termine (se si decide di accettare questa etimologia e tralasciarne altre): ob-scenus, fuori dalla scena, dal palco, col significato di offesa al senso comune di decenza. Lo è grazie alla capacità, tipica di Siti, di scartare i luoghi comuni, le ideologie e i moralismi tramite il coraggio di mettere sul palcoscenico tutto ciò da cui il senso comune volta lo sguardo disgustato. E in questa sua esigenza di analisi dello sporco personale e sociale, torna a fare della letteratura una forma di politica, un’arma contro l’assuefazione alla mediocrità. Per questo, anche nel caso di Bruciare tutto, l’ob-scenus è innanzitutto politico.

L’intero romanzo è, infatti, una forzatura intelligente delle strutture mentali del lettore che, per contrasto, vengono problematizzate nuovamente: Dio non è solo caritas ma anche lotta, il pedofilo non è solo mostruosità ma anche sofferenza e umanità, la violenza non è solo minaccia, ma richiamo a un vitalismo ormai sopito. Potremmo dire che Siti non fa altro che sottoporci all’inevitabilità di una violenza continua, sia nella sua strategia narrativa, che nei contenuti. Ciò che lo scrittore pone sul palcoscenico, oltre alla lotta personale del personaggio contro la propria pedofilia, è l’inerzia di una società che, alla ricerca della soddisfazione comoda, del moralismo di superficie e del consumismo, ha tentato ingenuamente di epurarsi da ogni forma di violenza (sia nella morale cattolica “a pronta digeribilità”, che nel mondo laico), e nel farlo ha prodotto altri mostri latenti: i tabù, il paternalismo distaccato (dell’informazione pornografica) e un’aggressività interna alla società, privata, a fondo perduto e difficilmente riconoscibile.

E non a caso, proprio nel recupero di un rapporto con l’Assoluto, ormai by-passato da gran parte della cultura dominante, Siti cerca di rintracciare le criticità di tale atteggiamento. Recupera e in un certo senso riabilita la violenza, imponendola come tema, lo fa inserendola nell’ambiente che più ha cercato di allontanarla (la religione cattolica) e analizza tramite questo filtro il suo ruolo nella società. Questo è il vero tema scandalistico del libro. Ancora una volta, dopo aver ormai largamente superato l’autofiction, lo scrittore riesce a descrivere un dramma tutto personale, ma perfettamente integrato in un discorso di più ampio spettro.

Ma partiamo dall’inizio. «La conoscenza del bene e del male è dunque separazione da Dio» (Bonhoeffer), «Chi trascura la legge limitata della parola interumana per la parola di Dio è un perverso» (Lacan). Le due citazioni con cui si apre il romanzo hanno il pregio di svelare, a una seconda lettura, la struttura ossea dell’intero libro: un’analisi spietata e tragica (perché priva di risposte) del rapporto tra Dio e Morale, e tra uomo e Assoluto. E lo fa come se la prima fosse la premessa dell’altra, più grande, domanda. Se Dio e la morale sono due realtà separate (perché Dio, per Don Leo, è una realtà senza scampo), quale condotta adottare? Chi è il perverso?

 

La citazione di Lacan sembra non solo anticipare lo studio che Siti porta avanti della perversione, ma sembra anche sottolineare, ancora una volta, quale è stata la reale colpa di Don Leo, almeno nella vicenda con Andrea, quasi in risposta alle critiche che successivamente hanno contornato l’uscita di questo libro. Con un intelligente ribaltamento di prospettiva, non è la pedofilia tenuta a bada da Don Leo a trovarsi sul banco degli imputati, ma la sua fuga, la sua incapacità di gestire il “linguaggio interumano” in nome di una morale superiore o della sua salvezza eterna. Il problema è che Don Leo dimentica la premessa esplicitata già dalla prima citazione: Dio e la morale non sono la stessa cosa, anzi spesso divergono («Morale e religione non coincidono, bisogna obbedire a Dio e non alle opinioni condivise»). Preso atto di ciò, l’errore è presto fatto, l’incertezza che coinvolge l’orientamento della sua condotta si alimenta nel dubbio limitante.

Il prete non asseconda i desideri ingenuamente sessuali del bambino in nome della morale, ma questo ha ripercussioni tragiche, interpretate come esplicitazione della volontà contrariata di Dio. Queste conseguenze drammatiche si insinuano nello spazio vergine lasciato da una serie di problematiche che Don Leo, implicitamente o no, più volte individua: vista la mancata convergenza tra Dio e morale, quale dei due è necessario seguire? Il rispetto della morale corrisponde automaticamente alla realizzazione della volontà dell’Assoluto? E soprattutto, la volontà di Dio coincide col bene del singolo? Ovviamente l’auto-analisi del personaggio si muoverà su questo campo metafisico di indagine del male, che lo indurrà ad affermare:

«Perdonami, dovevo accettare di fare l’amore con te, qualunque prezzo mi fosse costato; l’ossessione avvicina a Dio mentre la morale ce ne allontana […] Ho rifiutato la strada della mia dannazione, che era la più sincera»

Lo scrittore, invece, funge da controcanto, da voce laica distaccata che a più riprese (anche tramite i pensieri del protagonista) individua la reale colpa “umana” di Don Leo, denudata da incertezze metafisiche:

«Il modo peggiore per cedere al desiderio è di averne paura; e quindi abbandonare la postazione, tagliarsi i ponti alle spalle»

Questa colpa consiste non tanto nella pedofilia (dal momento che il prete non consuma nessun atto sessuale col bambino), ma nell’abbandono, nella mancanza di empatia, in una parola: nella separazione. Lo stesso Siti sembra anticipare questa conclusione di sfuggita, nel bel mezzo del romanzo, parlando del rapporto tra Don Leo e Massimo:

«Leo non comprese che il vero peccato non era l’innamoramento ma l’abbandono. La disperazione lontano da Dio sarebbe stata la strada più corta; la purificazione faticosa e la rieducazione di entrambi (di Massimo e sua) alla presenza di Dio sarebbe stata la strada più giusta»

 

«La pratique du bien est une liaison, la pratique du mal une déliaison. La séparation est l’ autre nom du mal» afferma Houllebecq ne Les Particules Élémentaires. Dio è unità, il Diavolo è molteplicità, fa eco Siti in Bruciare tutto. Ma anche Dio viene presentato, capovolgendo la definizione faustiana del diavolo, come colui che costantemente impone la separazione, la lotta, la rivoluzione, ma che costantemente lo fa in nome di un bene superiore difficilmente identificabile. Separazione da sé, dal proprio demone, che però comporta anche una inevitabile, umana, seppur sbagliata, separazione dal mondo esterno. Per dirla con le parole di Fermo: «Se hai intenzione di amare gli altri come adesso ami te stesso, gli altri non saranno contenti…». Può un uomo dotato di grande intelligenza, rinnegare totalmente se stesso e amare gli altri allo stesso tempo? La prova a cui il Dio di Don Leo ci sottopone, è umanamente sostenibile? Dio, quindi, prende le fattezze di un’ossessione muta, una croce piuttosto che una salvezza. La croce del protagonista, in altre parole, è una lotta che si muove seguendo due assi, l’uno orizzontale (tra Don Leo, la realtà e la sua perversione) e l’altro verticale (tra il prete e l’Assoluto).

L’antagonista della lotta orizzontale è, fondamentalmente, il senso di sproporzione tra il suo bisogno di assolutezza, di adesione radicale agli imperativi cristiani e la propria piccolezza umana. Sotto questo punto di vista il personaggio è una continua tensione al gesto eclatante, alla salvezza suprema, ma osteggiata dalla sua ossessione privata (i pensieri sono la radice viziosa inestirpabile di Don Leo). Alla fine del romanzo viene svelata la doppia inadeguatezza di del protagonista, di cui l’intero libro è intessuto: la sua incapacità di essere innocuo si manifesta sia in adesione alla morale cristiana «a pronta digeribilità», sia aderendo alla propria personale religione, nella quale il confine tra bene e male, tra serenità e ciò che deve essere fatto, è una strada lastricata di piccoli e grandi sacrifici che tutto negano e tutto combattono in nome dell’umiliazione e della speranza cristiane. Entrambi i fallimenti, seppur lentamente preparati nel corso della narrazione, sono definitivamente svelati dalla coda narrativa, in cui tutti i nodi vengono al pettine: la morale cristiana dominante (quella che Don Leo ha a lungo combattuto) paradossalmente si impone nel momento clou dell’intero libro, nel momento delle avances di Andrea, le quali vengono brutalmente respinte dal prete in una sorta di istinto difensivo non ragionato e in preda al panico.

In breve il prete ghettizza le esigenze sostanzialmente affettive del bambino nel campo del rifiuto incondizionato, silenzioso e prepotente, in una parola: del tabù. Piuttosto che spiegare ad Andrea il perché del suo rifiuto, il perché degli impulsi del bambino, Don Leo per un solo attimo abbandona la lotta, segue la levigata strada della semplicità e si fa uomo dalla moralità ad alta digeribilità, fatalmente. È lecito pensare che la colpa non risieda nella pedofilia, ma nell’incomprensione e incomunicabilità, dapprima linguistica e poi emotiva, di una società moralistica e sorda, pacificatrice e aggressiva allo stesso tempo, di cui sono un lampante esempio i «genitori come armi» di Andrea, incapaci di arrendersi a un silenzio rispettoso anche davanti la salma del figlio.

 

Una società che quindi non parla, che relega la comunicazione o al sussurro moralistico della stupida rassicurazione o all’urlo dell’aggressività repressa, e che in questa sproporzione di frequenze può creare un tragico cortocircuito. Il fallimento della morale personale del protagonista, condotta sul sentiero più tortuoso del dolore e della lotta contro se stessi, è invece rivelato dalla disfatta dei diversi fedeli che gravitavano attorno al prete in cerca di una linea di condotta. Tuttavia la fine catastrofica di queste vite, non è solo dovuta al “Dio della lotta” a cui Don Leo le indirizza, ma anche alla mancanza di amore e empatia, da parte di Don Leo, nei confronti dei suoi “discepoli”. È una sorta di Gesù distorto, al contrario: non sacrifica se stesso per amore del prossimo, sacrifica se stesso e quindi non riesce ad amare il prossimo.

Questa ulteriore inadeguatezza nella gestione del singolo porta con sé, come meccanismo compensatorio, la ricerca di salvezza della massa, dapprima con il campo profughi, e poi con un quantomeno progettato viaggio in Siria. Il dramma di Don Leo, come detto precedentemente, non risiede solamente nella sua pedofilia, o meglio: è generato dalla pedofilia. Ossessione che gli impedisce di amarsi, lo porta sul campo della lotta, ma allo stesso tempo lo conduce a una scissione incolmabile col mondo, dovuta allo scontro tra un io imponente e contorto, e una società orizzontale e anestetizzata. Cerca, quindi, di porre rimedio attraverso la propria radicalizzazione, che è allo stesso tempo causa di un sentimento fastidio per i compromessi “degli altri” o di consigli avventati (poiché i fedeli sono impreparati a gestire le conseguenze del sacrificio e della rivoluzione). Poi, il radicale cambiamento al seguito della morte di Andrea, la volontà, ormai vana, di abbracciare il proprio inferno, data l’impossibilità di liberarsene:

«L’ossessione ci avvicina a Dio mentre la morale ce ne allontana. Ho rifiutato la strada della dannazione, che era la più sincera»

Ancora una volta la sua condotta è alimentata da quell’io imponente votato all’autodistruzione e alla ricerca di verità, dapprima nel sacrificio di sé e poi nella perdizione, poiché «anche sentirsi inferiori a tutti è peccato d’orgoglio». Il paradosso che sovrasta la figura di Don Leo consiste nella presenza di una personalità troppo ingombrante per far spazio al mondo e a Dio, una personalità che esattamente per questo cerca di mortificarsi, ma che anche nella mortificazione trova il modo di riaffermare se stessa e perpetrare la scissione.

Si passa ora alla lotta verticale: la rivolta del protagonista contro l’Assoluto. Don Leo è un essere diviso che tende all’assolutezza, all’unità, ma la cui scissione è imposta da Dio stesso. Essa è dovuta al fatto che «Dio è rivoluzione», ma allo stesso tempo portatore di una promessa di unità che stenta ad arrivare. E il prete è il varco di dubbio che si apre tra la realtà e la promessa. Quando l’adesione alla propria ossessione comporta un peccato, e l’adesione alla morale comporta una morte, chi è Don Leo se non lo spazio, l’allegoria in cui si insinuano una serie di domande fondamentali: perché Dio mi ha fatto così? Qual è la sua volontà? «Se Dio esiste, io chi sono?» E anche se questa divisone fosse imprescindibile, come fare per renderla innocua? Abbandonarsi al proprio inferno è peccato, aderire alla volontà di Dio è doloroso per chi lo circonda. In sostanza, se l’Assoluto non è fonte di bene, ma solo richiesta di sacrificio, può l’uomo munito della morale cristiana del bene sopportare tutto questo? Don Leo, essendo dubbio, ferita aperta, è anche continua oscillazione tra l’approccio blasfemo e aggressivo contro Dio, e quello pienamente sottomesso. In questa molteplicità si diramano tutte le complicazioni del rapporto tra un Don Leo-Caino e un Don Leo-Abramo. Sono personaggi più volte nominati, direttamente e indirettamente, nel romanzo. La duplicità di questa natura si esplicita nella complessa psicologia del personaggio, per il quale l’atto caritatevole e la negazione della propria natura sono allo stesso tempo sacrificio (Abramo) e nascondimento(Caino). La figura di Caino, ad esempio, appare ben chiara quando, in preda ai sensi di colpa, Don Leo pensa:

«Il senso di colpa, ibernato durante l’era delle scoperte, risorse avvolto in bende insanguinate- ‘che ne hai fatto di tuo fratello?’. Quel che era nato come canto di unione con Dio diventò da Dio la separazione più grande (ma Dio non si lasciò licenziare); il desiderio, consapevole di sé, si impadronì dell’anima e la costrinse a nascondersi»

 

Don Leo sacrifica suo fratello, per ben due volte in senso opposto: dapprima in nome della propria esigenza di scoprire (nel caso di Massimo, primo e unico bambino con cui ha avuto un rapporto sessuale) e poi in nome del bisogno di scappare (nel caso di Andrea). Anche il suo rapporto con Dio richiama la figura di Caino. Dio è uno sguardo onnisciente e costante, panottico, capace di sondare e comunicare con i pensieri perversi del protagonista. L’onnipresenza disturbante di Dio, che nella sua mente si manifesta sottoforma di brusio, ricorda a tratti l’occhio infuocato del Dio del poema Conscience di Victor Hugo e richiama alla memoria il conseguente grido di Caino: «Cet oeil me regarde toujours!». Vista la sua duplice natura, peccatrice e devota, il protagonista cerca allo stesso tempo di nascondere e di espiare la viziosità dei suoi pensieri tramite atti di estrema generosità, allo stesso modo in cui il Caino di Hugo pian piano si costruisce attorno fortezze per sfuggire all’occhio dell’Assoluto. Caino alla fine decide di farsi sotterrare, ma «L’oeil était dans la tombe et regardait Caïn». Il Dio di Don Leo invece, al momento del suicidio, «Non era in quel fuoco».

Un padre onnipresente ma estremamente silenzioso, quindi, che spinge al sacrificio ma poi si assenta. Significativa anche una delle frasi finali: «Dio se puoi allontana da me questo calice», che rappresenta una versione corretta rispetto al già citato dal prete «Se vuoi, allontana da me questo calice…ma solo se vuoi». Ancora una volta Don Leo non si sottomette a Dio, ma lo sfida. Ed è esattamente il sacrificio di sé il punto di contatto che ci svela l’altra faccia del prete, il suo essere un Abramo metaforico. Ma anche qui, la sua natura è incompleta. Così come il Don Leo-Caino assume i tratti di un martire, allo stesso modo il Don Leo-Abramo assume caratteri più “umani” e sfocati. È un Abramo a cui Dio non ha garantito la salvezza del figlio, e che deve caricarsi sulle spalle il fardello di essere indirettamente un assassino. Don Leo domanda, con insistenza, e Dio resta muto.

Appare evidente ormai quanto sia complesso il quadro intessuto dallo scrittore, nei confronti del quale questi tentativi di interpretazione non possono che restare, appunto, tentativi. L’apertura alla molteplicità di significati, all’incertezza, l’assenza di una morale definitiva, la vastità di temi toccati e problematizzati, lasciano il lettore con la fronte corrugata, in cerca di quella parola definitiva che tanto ci piace, da cui Siti ci ha strattonato via con forza. Ancora una volta, Siti rovista nelle storture personali, gonfiate fino al parossismo, per poter istituire un legame, per parlare contemporaneamente al singolo e alla società, a patto che si accettino le regole del gioco: la stortura non è un fine, ma un mezzo per un’analisi più estesa, e in quanto tale non colpevole, ma accusatrice.

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