Bruno Bavota e Joseph Martone | Musiche da Napoli al mondo

Bruno Bavota – Apartment Songs, Volume One

Era il 6 aprile di quest’anno, giro di boa di un isolamento durissimo per ogni spirito libero, in seguito, naturalmente, alle misure di prevenzione dalla diffusione del Covid-19 che avrebbero stravolto – quando non travolto – completamente le nostre vite. Quel pomeriggio mi arrivò un link per il preascolto di un album, un EP particolare, del pianista napoletano Bruno Bavota. Classe 1984, Bavota si è ritrovato nel giro di una decina di anni – dall’esordio de Il Pozzo d’Amor (2010) passando per la consacrazione tre anni più tardi di The Secret of the Sea – catapultato verso un successo costruito con estrema onestà – e ottenuto prima sul suolo europeo che su quello natio – che l’ha portato, ben presto, a essere riconosciuto come uno dei nomi di spicco della scena modern classical. Nello stesso anno, il 2013, Bavota ha avuto l’onore di esibirsi a Londra alla Royal Albert Hall, primo di una serie di eventi dal vivo che lo avrebbero portato a girare l’intero continente.

Di Bavota, lo ammetto, conoscevo appena If only my heart were wide like the sea, il brano per piano e chitarra tratto proprio da The Secret of the Sea che faceva da colonna sonora a una scena bellissima di Young Pope con Sister Mary che aspetta il ritorno di Lenny, come quando era solo un bambino. Prima di ascoltare Apartment Songs la mia attenzione si era rivolta a Out of the Blue, suo disco del 2016, attratto com’ero stato dalla suggestiva copertina che giocava – partendo dal blu del titolo – a far emergere colori che amo come il viola, il rosso, il bordeaux. Un motivo apparentemente futile eppure arbitrario come i tanti altri capaci di inchiodare uno sguardo. Lo ammetto, sono e resto scettico rispetto al genere, ho divorato per troppi anni musicassette, cd e vinili di musica classica per approfondire la sua variante modern. Mi sono avvicinato a nomi ormai affermati del genere, ma sempre con una punta di sospetto.

Apartment Songs (uscito il 5 giugno per 1631 Recordings) mi è, invece, piombato addosso in un momento in cui ascoltavo ore e ore di musica al giorno come non mi capitava dai tempi del liceo. L’isolamento si protraeva insieme ai tanti pensieri che affollavano la mente. Sul piatto o dalle casse del pc venivo inondato soprattutto di techno e jazz che, con i loro ritmi, riuscivano a occuparmi con prepotenza la testa. Ed è stato così – quasi per caso – che tra l’energia pulsante di Boris Brejcha e il lirismo sacro e tormentato di John Coltrane hanno fatto capolino questi sette brani capaci di restituire, in appena diciassette minuti, tutte le sfumature di un’anima in trappola.

Apartment Songs è stato registrato proprio nell’appartamento di Bavota, in piena emergenza da pandemia, con l’ausilio di due microfoni a diaframma piccolo e una buona scheda audio. È lui stesso a raccontarmi come questa “sia stata una quarantena che ho vissuto in modo strano. Con le prime settimane caratterizzate da un’assoluta pigrizia e una seconda fase fatta di sveglie presto al mattino e una ritrovata voglia di scrivere al pianoforte”.

I brani di Apartment Songs sono a tratti di una malinconia devastante, quasi insostenibile (la poesia dolcissima di Song #2, la nostalgia di Song #3). Quel ripetersi di poche attente note, quel lasciare spazio ai silenzi tra le stesse, tra i testi, tra i pensieri, sembra farsi metafora di quel ripetersi costante dei gesti della quotidianità dentro quei tanti giorni così uguali a se stessi. È uno specchio riflesso che rimanda la sensazione di un bambino costretto in casa mentre fuori, di là dai vetri, infuria una tempesta di acqua e di vento, provando, invano, a scorgere qualcosa di nitido che può, invece, soltanto immaginare oltre la foschia, dietro le nuvole dense di acqua e umido.

La musica di Bruno Bavota è musica di una semplicità disarmante. Legata, come si diceva alla ripetizione quasi minimalista di grappoli di note o di accordi, è davvero un tramite con cui il musicista partenopeo riesce a liberarsi o a convivere con l’ampio spettro della sua emotività. Il suo essere così lontano dall’idea di musica a programma fa sì che l’ascoltatore possa dialogare, prima ancora che con le intenzioni dell’autore, con le ragioni segrete della propria sensibilità. Un atlante delle cose semplici, senza quell’urgenza che a tanti appartiene – a me per primo, come in una nemesi – a complicare le cose. E che quasi ci accompagna per mano, in queste canzoni dall’appartamento, attraverso un viaggio segreto tra i dispiaceri del passato e le promesse – sempre così difficili da raggiungere – di un futuro sereno.

Riflettevo sul titolo, sulla parola Apartment, sulla sua etimologia come anche sul termine inglese “apart”; come se in qualche modo questo isolamento fosse (come già pensavo quel pomeriggio) o fosse stato (come maggiormente mi convinco oggi) un modo di dividerci, di disgregarci fisicamente l’uno dall’altro. Ecco allora che Apartment Songs è la trasposizione musicale perfetta di quell’atmosfera, quasi che queste canzoni raccontassero meglio di tante parole la separazione cui siamo stati costretti tra un dentro e fuori, nei limiti di un semplice appartamento ma anche tra la parte estroversa e introversa di noi stessi, vincolati come siamo stati a dover attraversare una membrana, una porta, qualcosa che ci rendeva o ci rende tuttora inaccessibili persino a noi stessi.

Apartment Songs, prima ancora che un disco, è una sorta di suggestione, colonna sonora di piccoli tableaux quotidiani, di serate al tramonto, di certe improvvise solitudini. Che nei momenti migliori richiama alcune cose della ECM come del Max Richter degli esordi. Sembra quasi la sonorizzazione di un corto francese in bianco e nero che però trova qua e là sparute radure di colore, di azzurri, di qualcosa che assomiglia a una speranza, a una via d’uscita. Come in Apartment Song #4 (che molto deve a Yann Tiersen) che fa pensare a una corsa, a una fuga, in uno spazio strettissimo in mezzo ai palazzi ma con il cielo in alto e la ricerca di qualcosa che dia respiro, una piazza, un lungomare, un orizzonte. O nella successiva #5, dolcissima ballata che, dominata da rumori di fondo, restituisce – immediato – tutto il calore di una registrazione casalinga.

Apartment Songs sarà seguito da un secondo volume con cui andrà a comporre un vinile in uscita nel 2021. Mentre a luglio sarà la volta di un progetto parallelo e speculare – Apartment Loops – in uscita a luglio, dove Bavota si destreggia con l’altra sua passione, quella dell’elettronica e dei campionamenti, in attesa di tornare a esibirsi dal vivo con i prossimi concerti previsti tra l’estate e l’autunno in Polonia, Germania, Paesi Bassi e Repubblica Ceca.

Joseph Martone – Honey Birds

Joseph Martone condivide con Bavota l’appartenenza al 41° parallelo che, nella sua storia personale, ha significato una vita oscillante come un pendolo tra Napoli e New York. Ma soprattutto – pur nella reciproca distanza musicale – un’attitudine molto classica alla musica, fatta di tradizioni più che di strappi, di posti caldi e luoghi dell’anima ben riconoscibili. L’universo sonoro di Joseph Martone – qui al suo primo disco solista dopo più di dieci anni con i Travelling Souls – è punteggiato di stelle luminosissime, quelle della grande tradizione americana tra blues e folk: da Bob Dylan (Oh goodness me) al discepolo Springsteen (Trust, Declared War), dalla ruvidezza calda di una voce che lo avvicina al maestro Tom Waits (Same old same old), dall’Iggy Pop delle ultime produzioni (Working on me) fino a certe ombre nel solco di un Nick Cave d’annata (The Deal) e, ancora, a certe profondità dell’ultimo Cohen (Firefly). Il tutto immerso dentro a un’atmosfera che fa molto Calexico con echi morriconiani (ancora The Deal).

Nomi da far tremare i polsi, punti di riferimento irraggiungibili, maestri di una lezione che, però, Martone sembra aver completamente fatto sua, proponendo in questo lavoro brani cuciti perfettamente per vestire le sue qualità di cantautore e interprete.

Accompagnato nelle otto tracce dagli amici musicisti di sempre – Taylor Kirk e Ned Crowther – Martone, cresciuto nell’Upstate New York, ha registrato il disco fra Napoli e Montréal – con Richard Reed Perry degli Arcade Fire – per poi procedere con la masterizzazione affidata alle sapienti mani di Harris Newman (Vic Chesnutt, Carla Bozulich, Thee Silver Mt. Zion.) In questo ponte tra l’America del Nord e Napoli trovano posto anche collaborazioni con musicisti della scena “partenopea” come Francesco Forni e Ilaria Graziano e Jonathan Maurano, batterista degli EPO. Ma anche quelle con i musicisti inglesi Pat Dam Smyth e Sam Beer.

Honey Birds (pubblicato il 22 marzo da Freakhouse Records) è un disco che accompagna l’ascoltatore in un viaggio da fermo, con un bicchiere di bourbon invecchiato tra le mani. Nel suo essere derivativo non appare mai una copia, perché lampante è la vocazione autentica di Martone, come chiarissimo è il suo stare con naturalezza dentro quel suono, quell’atmosfera, quel luogo immaginario che nei decenni ha saputo costruirsi la musica americana. Disco che suona benissimo, non privo di una certa notevole freschezza, Honey Birds colpisce anche e soprattutto per i racconti diretti che guardano, ancora una volta, al passato, all’infanzia, all’adolescenza, alle proprie ombre per trovare il proprio posto nel presente.

In trenta minuti sembra quasi di assistere a un live al Double R Diner di Twin Peaks; e del resto Martone da anni gestisce un locale a Vitulazio, entroterra casertano, il Mr. Rolly’s che rappresenta una delle realtà dal vivo migliori dell’intera offerta campana. Pur non rinunciando in molti arrangiamenti e nella ricchezza dei suoni a una certa solarità, Honey Birds è un disco – ed è uno dei suoi meriti maggiori – dominato da coloriture più cupe, più scure che ne fanno un lavoro a tratti decisamente noir e di grande suggestione e inquietudine.

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