Canta ancora, ragazza, Jacqueline Roy

Dopo la prima pubblicazione in Gran Bretagna, nel 2000, “Canta ancora, ragazza” di Jacqueline Roy è scivolato veloce nell’underground editoriale senza che gli fosse data la giusta risonanza, del resto all’epoca era più facile ignorare le opere di autrici nere. Nel 2021 la scrittrice Bernardine Evaristo, Booker Prize 2019, ha tenuto a battesimo la collana Black Britain da lei curata per la Penguin Random House e l’opera di Roy ha ritrovato il suo spazio. Sono questi i primi passi ufficiali per una letteratura britannica più inclusiva e il conseguente recupero di opere dal grande valore storico e sociale. Nel 2022, “Canta ancora, ragazza” arriva nelle librerie italiane per Giulio Perrone Editore, nella traduzione di Marta Olivi.

È una questione di inclusività: è arrivato il momento di ascoltare le voci nere della letteratura britannica e ampliare il discorso letterario su storie emarginate. E proprio l’emarginazione è uno dei concetti chiave del romanzo di Roy: la vicenda di due donne nere, Gloria e Merle, e della loro esperienza nel reparto psichiatrico di un ospedale inglese negli anni novanta. Quello di Roy, allora, è affresco di un’emarginazione moltiplicata su più livelli: parliamo di donne nere di origini caraibiche con diagnosi di malattia mentale, confinate in un luogo formalmente votato al loro benessere, ma che di fatto le relega ai margini della società. Gloria è una donna di mezza età, una vita alle spalle che riemerge dai nastri registrati per i medici in cerca di una diagnosi più precisa; vive male la realtà del reparto, a volte prova a fuggire con poca convinzione, e si sente osservata e giudicata.

Non fanno altro che provocarci. Poi, quando scoppiamo, usano le nostre reazioni per giustificare tutto il pregiudizio che si portano dentro.

Così Gloria mostra fin dalle prime pagine del suo monologo tutti gli strati di pregiudizio che le soffocano l’esistenza. Non solo è una donna nera, ma canta e parla a voce alta; il canto è l’unica cosa che la fa sentire viva, ma non è compatibile con l’idea di normalità che permea il sistema sanitario britannico di allora (e forse anche di oggi). Pretendono che Gloria si mimetizzi con la normalità bianca, ma è una battaglia impossibile in partenza. Gloria ha una sua logica lucidissima, a tratti infantile, a tratti dolente, infestata da un dolore acuto che la corrompe fino a quando non rimane in lei solo un’ottusa solitudine. Si scoprirà a metà romanzo il trauma originario di questa donna vitale, che andrà ad aggiungersi a quello infantile: Gloria ha lasciato la Giamaica in cerca di una vita migliore. Suo padre, infatti, abbandona a la terra natia dopo la perdita della moglie e di un’altra figlia, e decide così di credere ai proclami del governo britannico che nel secondo dopoguerra promosse l’immigrazione dalle colonie verso la «madrepatria» alla ricerca di forza lavoro. Si tratta della cosiddetta Windrush Generation. Una pratica, questa della ricerca di manodopera nelle colonie, che poi si risolse in un precario equilibrio sociale, nell’emarginazione della suddetta forza lavoro e un colpo di scena finale degno della peggiore politica, quando nel 2012 Theresa May rese impossibile per molte persone di quella generazione rimanere in Gran Bretagna nonostante cinquant’anni di lavoro e una vita nuova.

Foto di Alessia Ragno

Gloria, si diceva, è chiassosa e genera pensieri complessi nel suo rimuginare continuo represso dalla cura farmacologica attribuitale in reparto. Il suo monologo registrato viene riprodotto alla perfezione dalla scrittura di Roy. Si aggiungeranno altri pregiudizi e su di lei si abbatterà la violenza, nemmeno tanto implicita, di un sistema impreparato a capire, interpretare, guarire.

Merle, invece, è più giovane, arriva in condizioni mentali precarie nella stanza di Gloria ed è vittima di terrori notturni e traumi. I suoi ricordi sono affidati al coro di voci che battibeccano nella sua testa e che Roy rende con un alternarsi di font in un dialogo frammentario e un vorticare incontrollato di ricordi. Nella storia personale di Merle c’è altra violenza, quella di un compagno più grande di lei, espressione di un intero sistema patriarcale che la opprime. La più forte delle voci nella testa di Merle è, ovviamente, giudicante: la offende, mistifica la realtà e non tace quasi mai, tranne che in pochi frangenti.

Entrambe le donne provano, in tempi diversi, il bisogno tragico e straziante di tornare nelle proprie case, ma nessuno le aiuta e la pratica del reparto è ignorare, soffocare e zittire. Ripetono loro che potranno tornare alla loro vita indipendente quando staranno meglio, ma Gloria e Merle staranno mai meglio in quel sistema?

È la sera il momento peggiore. il tempo tra la cena e l’ora di andare a dormire non passa mai. È l’ora in cui inizi a rimuginare sulle cose che non puoi cambiare.

È Gloria a dirlo, ma non ci sono dubbi dubbi che tutte le persone consapevoli in quel reparto la pensino come lei.

La violenza patriarcale e oppressiva del sistema ci prova fino in fondo a spegnere il barlume di speranza nel finale di “Canta ancora, ragazza”, e ci riesce quasi con una Merle che pure vive un crescendo di consapevolezza di capitolo in capitolo; ma sarà Gloria, che Merle chiama «Orisha, l’angelo africano della luce», a resistere ancora e ancora, per sé stessa e anche per Merle, contro i farmaci, la repressione, il silenzio e canterà ancora una volta, nella sua casa, andando incontro a un futuro incerto e baro che proverà di nuovo a piegarla.


Approfondimenti

Jacqueline Roy conversa sulla sua Dual Heritage

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