Carnage di Nick Cave e Warren Ellis

We won’t get to anywhere, darling / anytime this year”, quest’anno non andremo da nessuna parte – canta Nick Cave in Albuquerque spezzandoci il fianco con la realtà, “unless you take mе there, darling”, e qui parte l’altro regno, quello del fantastico. Cave sembra sussurrarci che a Albuquerque possiamo ancora andarci, ad Amsterdam e a passeggio lungo i laghi d’Africa, possiamo fare qualunque cosa – basta immaginarlo. Se qualche anno fa Nick Cave era a bordo della sua auto a guidare verso Ginevra come cantava coi Bad Seeds in Higgs Boson Blues, adesso che non si può andare da nessuna parte come una volta, non resta che quella cosa ultima e disturbante: l’immaginazione, quella che può guidarci ancora a Ginevra in auto, o persino nel disperatissimo regno dei cieli, fatto di preghiere laiche e altre diavolerie blues. E improvvisamente – grazie a una semplice operazione di magia – è possibile l’impossibile, un viaggio, un colpo alla schiena, i laghi d’Africa. Come un novello Keats, Nick Cave si invola per le vie impervie e necessarie della fantasia, toccando la terra e le sue fiamme.

Con il nuovo album Carnage Nick Cave e Warren Ellis ci portano dappertutto, e lo fanno con un disco di scuro splendore, orfano dei Bad Seeds, uscito in versione digitale, dove pure il digitale è un sogno invisibile di bit che aspetta solamente di rendersi fisico (l’uscita del disco inciso su cd e vinile è prevista per il 28 di maggio). Carnage inizia con un’invocazione impetuosa. Hand of God è una cavalcata tetra e ululante (in certi momenti c’è un lupo a cantare), che ci fa toccare subito con mano quella brutale bellezza di cui ha parlato lo stesso Cave a proposito del disco. Abbacinato, spiriturale, minimalista, assassino e sperimentale, Carnage prosegue come un coltello avvelenato di misticismo. Old Time ci riporta a una vecchia vena da assalitore di Cave, con Warren Ellis che si diverte a mescolare suoni allucinati e paranoici. La title-track Carnage è disperata e trascina con le sue atmosfere di nebbia e pioggia, dove l’unico senso dell’orientamento a cui afferrarsi diventa un bagliore d’amore. Il pezzo sfuma verso un finale da sconfitto ululato sulle note di un piano fantasma.

E subito parte come una bordata White Elephant, che è una sommossa al sole, il cuore della carneficina. Una prima parte violenta, dove si agitano le urla di un manifestante che prende a calci una statua, e tra visioni di una Venere di Botticelli con il pene, e donne che vengono dal mare per fare male, e allusioni al soffocamento omicida di George Floyd, sembra di perdersi dentro un condensato scuro di violenza; ma proprio mentre siamo trascinati dentro la realtà e i suoi terremoti, proprio mentre Nick Cave sembra essere tornato a fare il narratore di storie feroci, eccolo che svolta e se ne va per la via spirituale, e con un eccesso di entusiasmo invoca insieme a un coro gospel il ritorno al regno dei cieli – e chissà se quello che vuole dirci è che non conta nemmeno più la realtà, perché per tutti sta arrivando un momento di ascensione, quella gioia lacerante di ritorno a un indefinito regno, o forse quello che sta cantando è solamente un’allucinata caduta del cielo sulla terra, un futuro a cui Nick Cave si abbandona come un mistico visionario. In ogni caso White Elephant è musicalmente un pezzo a due tronchi, a due corpi, a due fiati: l’assassinio sperimentale di Ellis e Cave, che se ne sta blandamente al centro del disco, poco prima di quel miraggio di Albuquerque. E ogni terra sembra una terra lontana.

 

Lavender Fields inizia invece come una colonna sonora caduta in basso da un celeste incubo sci-fi, e non sorprende che si risolva nella trascendente evocazione e nel canto dell’ossessionante “kingdom of the sky”. La fame di assoluto di Nick Cave è alla continua ricerca di risposte assolute, sin dagli inizi più irruenti e punk Cave è agitato da domande, e ce le butta in faccia sotto forma di storielle omicide e sedie incandescenti della misericordia. Carnage sembra un disco più pacificato di Ghosteen, dove Cave era preso d’assalto dai mostri della morte e dell’assenza, e questa mancanza lacerava l’anima lasciandoci sopra un doloroso marchio a fuoco. Un pezzo come Lavender Fields dà l’idea che Nick Cave quelle risposte le abbia più o meno trovate, o per lo meno ci sia affidato per mettersi al riparo dalla tempesta. Ma Carnage non è il disco della quiete, è ancora selvaggio e sbandato come una ricaduta sulla terra, una voragine infettata da nostalgie di assoluto e frammenti di realtà.

Messi in sospeso per un attimo i Bad Seeds, la ricerca in solitaria insieme a Warren Ellis dà respiro a suoni soffusi e sintetici tinteggiati da un romanticismo elettronico, che accompagnano la vocalità di Cave all’invocazione di questo regno indefinito – che non è un paradiso o un inferno, ma solamente una regione spirituale più o meno interiore. Probabilmente consapevole che tutto sia solo un’operazione di magia e una bella allucinazione. Così pure l’apparizione della luna come “una ragazza con il sole negli occhi” di Shattered Ground è una magia con cui improvvisamente il poeta scende a camminare sulla terra, su quel nostro pianeta che – anche se sempre devastato – è ancora pieno di bellissime cose come la visione della luna dal basso, come il canto di arrivederci di un innamorato. Lì da un terreno in frantumi dove ci si schianta in un’atmosfera ovattata che si carnifica dentro suoni sintetici e nostalgici . Allora cosa resta sulla terra, questa terra sconquassata? Un paio di scarpe per ballare come Fred Astaire, come nell’ultima ballata al piano che commiata tutto il disco, dove l’uomo al balcone guarda il sole del mattino – lo stesso uomo al balcone che poco prima stava leggendo Flannery O’Connor e ora si mette ad ammirare la bella luce del giorno. Perché è così che va, “what doesn’t kill you just makes you crazier”, e l’ululato alla luna è sempre pazzo e demente.

Nell’ultimo anno l’anima scura di Nick Cave si è perduta nelle grandi contraddizioni dell’essere umano allo sbando. All’inizio di questa esperienza che stiamo vivendo – la pandemia – Cave ci aveva invitato a riflettere e prenderci una pausa, fatto intendere che non avrebbe ceduto al concerto in streaming. Qualche mese dopo si è seduto al piano nel vuoto sonoro di Alexandra Palace, e ci ha regalato uno dei più memorabili concerti in assenza di sempre, un concerto che anche se non abbiamo visto di sicuro abbiamo ascoltato nel senso pieno della parola, una lunga suonata in solitaria che è diventata un disco – Idiot Prayer – che ripercorre la sua carriera con le sue stagioni felici e infelici, raccoglie alcune delle sue canzoni più belle, e sembra davvero una preghiera intima che illumina la notte, l’ululata straziante di un pastore solitario che si lascia accompagnare solo da un pianoforte e dalle sue ossessioni. Nick Cave è davvero uno di quei musicisti che non sa starsene alla larga dalla musica, e così è arrivato pure il poco sorprendente annuncio di un nuovo disco, e quando è tornato con in braccio un nuovo album per la sua gente, l’istinto lo ha messo subito in ascolto come per riflesso. Dentro Carnage di Nick Cave e Warren Ellis c’è il suono di un inverno sperimentale, ci sono i lupi affamati e un visionario che si mette le scarpette da ballo e guarda la luna dalla terra, e a distanza la canta. E allora il regno dei cieli può pure aspettare, perché prima c’è una terra da cantare – con tutto il suo scuro splendore di sole e pioggia.

È sempre un piacere perdersi nei suoni corrosivi di questi due fuoriclasse, che in queste giornate abbiamo ritrovato come presenze chiaroscure pure nel primo estratto del nuovo album di Marianne Faithfull: Warren Ellis a fare un po’ tutto, Nick Cave al piano, testo di Lord Byron. L’infezione sonora è servita, e quando Marianne parte nel reading di Byron siamo sbattuti all’altro mondo. La musica a volte fa questo effetto, ti sbatte all’altro mondo – Nick Cave e Warren Ellis sanno farlo benissimo. Carnage – questo schianto di brutale bellezza – lo sa fare benissimo.


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