Christo e la Land Art

a cura di Martina Bonetti

L’arte democratica che si fonde con la natura

Un capitolo si chiude, un mito ci lascia. È scomparso domenica 31 maggio Christo Vladimirov Javacheff, undici anni dopo la sua fedele compagna Jeanne-Claude, ironicamente nata il suo stesso giorno. Una coppia che ha fatto la storia, rivoluzionaria e coinvolgente tanto nell’aspetto delle opere che ha creato, quanto nel messaggio che ha voluto veicolare con esse.

Christo nasce in Bulgaria e manifesta fin da bambino una forte predisposizione all’arte, disegnando e dipingendo già dall’età di sei anni, ma anche allo scontro con l’autorità: per tutta la sua carriera avrà un rapporto burrascoso con le istituzioni, che difficilmente gli consentirà di esprimersi come vorrebbe. Parigi, dunque, con il suo clima di avanguardie, è la meta scelta dell’artista dopo Praga e Vienna, costretto a cambiare continuamente aria per potersi sentire libero. Appena approdato in Francia avvia uno studio di ritratti su commissione, ed è così che conosce la sua compagna di vita: Jeanne-Claude Denat de Guillebon è figlia di una delle sue modelle. Fatalmente innamorati, i due danno vita alla loro straordinaria collaborazione grazie alle prime istallazioni site-specific che hanno già un gusto di provocazione e denuncia, come i barili d’olio posti a bloccare Rue Visconti nel 1962 in segno di protesta al muro di Berlino.

Quasi immediatamente Christo sviluppa l’idea di impacchettare oggetti (i famosi “objets emballé”), cominciando con bottiglie, lattine e biciclette fino ad arrivare a interi palazzi, e conferendo così un’impronta estremamente personale e identitaria al lavoro – un marchio di fabbrica che non ha mai abbandonato. Ciò che si trova dietro questa operazione è l’intento di esaltare un elemento senza necessità di osservarlo, nascondendolo al contrario dietro metri di tessuto e lasciandone visibili solo le forme. Mostrare celando, sottolineare cancellando, un’affermazione ottenuta tramite la sua stessa negazione. Impacchettano il Reichstag a Berlino, Vittorio Emanuele in piazza del Duomo a Milano, il Pont Neuf di Parigi e decine di altri simboli iconici nella città di tutto il mondo, sconvolgendo e facendo riflettere i cittadini sull’aspetto totalmente nuovo dei luoghi a cui erano abituati da sempre.

L’operato della coppia diventa sempre più celebre e si guadagna un posto d’onore all’interno della corrente della Land Art, che spopola a fine anni ’60 in America. Si tratta di un momento storico il cui contesto sociale, infatti, risente ancora della sfiducia postbellica nei confronti del sistema e si caratterizza per una grande volontà di cambiamento, una rivoluzione su grande scala. Il sistema dell’arte non fa eccezione. Gli artisti vogliono creare senza sottostare ai meccanismi delle gallerie e dei musei, desiderano rompere i confini e soprattutto interagire direttamente con il territorio, per ribellarsi alla concezione di opera d’arte chiusa in spazi espositivi tenuti sotto controllo dalle istituzioni.

Michael Heizer, Walter De Maria, Richard Long e James Turrell sono solo alcuni dei nomi protagonisti di questa protesta, in prima linea per la democratizzazione dell’arte e per il suo inserimento nelle dinamiche di vita quotidiana senza elitarismi (Christo autofinanziava le proprie opere con la vendita dei relativi bozzetti e si serviva di materiali riciclabili per “impacchettarle”). Si espande quindi a macchia d’olio una nuova concezione di arte, totalmente opposta a quella figurativa della pop-art e del modernismo in generale, che scuote l’intero sistema e lancia un più che mai attuale messaggio d’amore tra l’uomo e il pianeta nel quale vive.

La Land Art di Christo e Jeanne Claude ha avuto e sempre avrà, nel suo ricordo, lo spirito di un’interazione con la natura privo di sfruttamento e di violenza, di un’opera nata per essere fruita da chiunque lo desideri.

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