Il realismo “soggettivo” di Christopher Nolan in Dunkirk

Dunkirk è senza dubbio il film che ha ricevuto responsi così opposti e controversi, da lasciare una certa confusione. Cristopher Nolan è riuscito senz’altro a lasciarci un dubbio, forse perché ci ha portato fuori dal nostro vivere quotidiano per immergerci all’interno di uno degli scenari più terribili del secolo passato. Forse ancora perché al contrario, ci ha lasciati distanti, come davanti ad un documentario poco coinvolgente ma, tecnicamente, fatto con i controfiocchi.

Credo piuttosto che un film come quello girato da Nolan sia senza dubbio un progetto sperimentale, e che invece di guardare avanti, si prospetta verso il passato, ricreando un senso di realismo cinematografico ancora diverso, ancora nuovo, ma il quale obiettivo resta comunque quello di mettere in scena frammenti di vita il più reale possibile. L’utilizzo, o per meglio dire, il non utilizzo di apparecchi che molti decenni fa diedero la svolta al mondo della cinematografia, come il green screen, dice molto su questo. Eppure le diverse critiche ricevute non contemplano tanto il modo in cui il film sia stato girato, ma piuttosto cosa il regista ha voluto trasportare su pellicola.

Come dicevamo prima c’è del realismo, ma come tutti ben sappiamo, la concezione di realismo è sempre molto soggettiva. Nolan crea il racconto del suo realismo, quello della Gran Britannia, quello del suo popolo e della sua nazione. Ha girato un film che dà vita a una delle pagine della storia recente e nel suo intento è stato impeccabile. Ha costruito una sorta di puzzle, accostando i giorni di vita sull’isola di Dunkerque di tutti coloro che ne sono stati coinvolti. Seguiamo quindi il giovane soldato britannico abbandonato insieme ad altri 300.000 caschetti verdi sulla spiaggia, le battaglie aeree in cui si scontrano i piloti dell’Air Force contro la nemica forza nazista, seguiamo in parte la preoccupazione dei comandanti della British Navy, e soprattutto ciò che rende questa pagina della nostra storia così toccante, attraversiamo la Manica insieme ad un trio di civili che con la loro modesta imbarcazione vanno, insieme a tanti altri, a recuperare i giovani ragazzi dalla spiaggia.

Nolan ci regala le sue belle inquadrature celandoci sempre il nemico, non mostrandolo mai, parlandone piuttosto, facendoci in alcuni casi avvertire la tensione in un prossimo attacco che arriverà chissà da quale direzione, chissà come, e che distruggerà chissà quante altre vite o speranze di fuga. Tutto questo, durante lo scorrere degli eventi sulla scena ci tocca leggermente, di traverso, ci lascia sulla pelle quella sensazione claustrofobica che diede luogo al celebre “miracolo di Dunkerque”. Ci fa sentire fuori dalla scena, fuori dal tempo della narrazione, evita le commozioni e lo strazio spesso dovuto al caso, lo prosciuga di qualsiasi tipo di sentimentalismo, e ci lascia ciò che ne rimane: la ruvida asprezza della guerra.

Nolan ci suddivide il ventaglio di realtà in tre diverse fasce temporali. Queste tre storie diverse — che rappresentano la vita sul molo, la vita nel mare e quella nell’aria — vengono poi mischiate nella sceneggiatura facendo attenzione ad alternare i momenti più frenetici a quelli più calmi. Unica costante è l’importanza del tempo all’interno del film. Parlando del tempo è inevitabile parlare della musica che sembra essere l’unica costante protagonista nel film. Zimmer ha composto la musica di tutto il film partendo sempre dal ticchettio irritante di un vecchio orologio da taschino, mischiando i suoi suoni con i rumori delle onde sulla spiaggia, delle bombe sul molo e gli scontri aerei che si consumavano nell’aria. Questa miscela ben studiata dal regista prima e splendidamente composta da Zimmer dopo conferisce al film una sorta di omogeneità, organica e pura. I dialoghi, ridotti all’osso, vengono comodamente sostituiti dalle note coinvolgenti del compositore tedesco.

Ma nel ventaglio di realtà dipinte da Nolan, non troviamo altre nazionalità. Non vediamo l’esercito alleato francese che nonostante stia vivendo lo stesso disagio sembra quasi trascurato da quello britannico. Non abbiamo retroscene che ci lasciano spiare nelle camere dei potenti, non ci resta che ciò che il popolo britannico, nelle sue larghe sfere, sta vivendo. Così innovativo nelle scelte di regia ma allo stesso tempo così settorializzato in un contesto sociale come quello di una guerra che è arrivata a coinvolgere tutto il mondo. Questo ci lascia spiazzati, le scelte originali di riprodurre un avvenimento storico che taluni hanno trovato individualistico e che probabilmente un po’ lo è.

E se invece, quello che ci diverte chiamare ‘individualismo’ fosse soltanto l’egocentrismo di cui ci nutriamo ogni giorno?! Siamo ormai abituati a vedere nel cinema bellico un scenario distorto dalla realtà, una guerra di buoni contro cattivi, di vittime contro carnefici, una distinzione che ci dovrebbe stare sempre un po’ stretta. L’unica differenza è appunto che Nolan non ci dà uno spettro universale della questione, ma una prospettiva a senso unico. Mostrandoci esclusivamente il popolo inglese evita la distinzione tra bene e male facendoci vedere piuttosto la brutalità che ognuno assume e i sotterfugi che ognuno inventa per riuscire a salvare la propria pelle. In fondo è questo salvare la propria pelle, dal piccolo del soldato, dell’aviatore, dal giovane recuperato in mare dai civili che non vuole tornare sull’isola per salvare i suoi compagni. Tutto ruota su questa bestialità umana che in casi come quelli di una guerra senza speranze e senza compassione sovrasta ogni situazione circostante. Non saprei dire se si tratti di un capolavoro, come tanti lo hanno osannato, ma sicuramente questo, come tanti altri film, hanno assicurato a Nolan un posto d’onore tra le pagine della storia cinematografica corrente.

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