A Città del Messico con Bolaño e Alessandro Raveggi

« Forse Città del Messico è a tratti la città letteraria perfetta, la città al bordo del caos, che sa contenere il nostro caos naturale interiore, come direbbe Calvino. La metropoli perfetta, quella che sta sprofondando nel suo fango, ma che anche resiste nelle sue differenze e ci fa resistere. » – Alessandro Raveggi

Da poche settimane nelle librerie italiane trovate “A Città del Messico con Bolaño”, un racconto per mappe e stazioni scritto da Alessandro Raveggi, scrittore, studioso, ricercatore di parole, che ha vissuto tanti anni nella capitale messicana. Pubblicato da Giulio Perrone Editore in una bella edizione di colore rosso, il libro di Raveggi è un viaggio per le strade irrequiete di Città del Messico, tra ricordi sommersi e incontri visionari con Roberto Bolaño. Leggere le pagine di “A Città del Messico con Bolano” è come aprire un vaso di pandora messicano dal quale emergono storie a dismisura: è la terra dove William S. Burroughs ha sparato a sua moglie e Jack Kerouac ha scritto i suoi blues per Mexico City; la terra delle pittrici messicane, la terra sterminata raccontata da giovani e audaci narratori e narratrici; è il Messico della gioventù sbandata e poetica dei Detective Selvaggi. Il libro di Raveggi è un atlante sentimentale e narrativo sulla Città del Messico; alla fine della lettura ammiriamo tutte le contraddizioni di una megalopoli oscura e incantratrice.

Abbiamo raggiunto Alessandro Raveggi per un’intervista, per farci raccontare un po’ della sua Città del Messico e del suo nuovo libro da poco pubblicato.


A Città del Messico con Bolaño è un affascinante racconto per mappe e stazioni di quella che chiami “la città letteraria perfetta”. Hai vissuto tu stesso tanti anni a Città del Messico, e tanti scrittori hanno sentito questo richiamo messicano, da Bolaño a Kerouac, ma in cosa è così letteraria Città del Messico?

Città del Messico è letteraria perché è sfuggente, ogni volta devi tracciare una mappa differente per capirla. Letteraria perché ti fa capire che per scrivere c’è bisogno di qualcosa di ignoto davanti, che la realtà ti sfugge di mano. In qualche modo Città del Messico è anche uno stimolo per inventarti come scrittore e per inventare un linguaggio. È una città molto variopinta anche dal punto di vista linguistico, ci sono tante lingue e comunità al suo interno, da quelle più incomprensibili come quella dei “maggiordomi” – in Messico c’è ancora questa figura della servitù di casa che è stata raccontata anche in Roma di Cuaron –, la comunità della lingua indigena; poi ovviamente c’è l’inglese della dominazione americana molto presente a Città del Messico, che per certi versi è una città molto americanizzata; poi c’è il francese, perché Città del Messico è una città profondamente legata anche a Parigi, e ovviamente lo spagnolo, lo spagnolo chilango, lo slang messicano.

Per uno scrittore Città del Messico è una sfida, sia dal punto di vista della capacità di raccontarla che del come raccontarla, con che voce e con che lingua. È una sfida specialmente per uno scrittore che viene da Firenze, una città completamente differente – per quanto labirintica a suo modo. Mi sono scontrato spesso con queste due città che mi abitano, e questo binomio è stato molto interessante. E infatti nel libro c’è anche Firenze, l’ultimo capitolo parla di una porta spazio-temporale tra Città del Messico e Firenze.

A Firenze c’è questa contemplazione di bellezza ovunque, Città del Messico in cosa ti ha dato delle sensazioni differenti.

Sì, assolutamente sono differenti – a Città del Messico fai i conti meno con il turismo e con una mercificazione della realtà, e di più con l’entropia e la fine dei tempi. Città del Messico è una città apocalittica. Io ho avuto l’esperienza di una pandemia mai partita, che è quella della suina nel 2009, e poi ho avuto l’esperienza di cosa significa la mancanza dell’acqua perché dove vivevo ogni fine settimana tagliavano l’acqua. C’è tutta una serie di cose che puoi imparare a Città del Messico, e che possono servire nel futuro, non solo per i messicani ma per l’umanità.

Nel libro parli anche delle cantinas messicane, i bar dove si ritrovano gli scrittori in Messico. Com’è andare in queste cantinas, e hai mai trovato posti del genere in Italia?

Noi in Italia abbiamo la tradizione dei caffè letterari, le cantinas non sono dei caffè letterari. Nelle cantinas gli scrittori si ritrovano per bere o parlare, non per fare presentazioni. Sono dei luoghi autentici in cui lo scrittore si spoglia e diventa un po’ il Joyce della Trieste dell’epoca. Non parliamo di postriboli ma poco ci manca. Esiste anche a Città del Messico il concetto di caffè letterario, ma le cantinas non sono librerie-caffè, sono vere cantine dove trovi gli scrittori di tutta l’America Latina, anche perché Città del Messico è un po’ la capitale del mondo editoriale latino-americano. E mi ha colpito ritrovare scrittori latino-americani che io leggevo e amavo, seduti al mio fianco a bersi una tequila o un mescal o a mangiare un piatto di tacos.

È quello che racconta anche Bolaño, le cantinas che si trovano in tutta la città. Lui raccontava questo mondo dal punto di vista dello studente giovane e in bolletta, parlava di cantinas molto sfornite. Questi luoghi ti fanno capire l’autenticità dei mondi letterari in Messico, che nel nostro caso sono più salottieri. A Città del Messico il mondo del libro è molto vivo, ci sono tanti festival, ma è tutto fatto dal basso, senza artifici, senza un’idea di missione. Non c’è l’idea della libreria indipendente, di qualcosa che sopravvive a un deserto che gli sta attorno. Si respira ovunque questo rispetto per i libri e per la cultura che non si vede più dalle nostre parti. Per noi è qualcosa di più acquisito, non è più una conquista, la cultura qui è qualcosa di scontato, e i libri vengono un po’ sminuiti nel loro valore.

Alessandro Raveggi

« I libri che più mi hanno segnato sono quelli in cui sono rimasto dentro, e in cui sempre rimarrò. Un capolavoro è per me una prigione nella quale è bello essere prigionieri (..) » – Alessandro Raveggi

In un momento del libro incontri il fantasma di Roberto Bolaño perduto a Città del Messico: ha inscenato la sua morte ed è fuggito nelle terre della sua gioventù.

Quando vai a Città del Messico sei portato a credere che tu stia vivendo un po’ la vita di Bolaño. Ero andato a Città del Messico ed ero affascinato dall’idea di incontrare i personaggi di cui racconta Roberto Bolaño, il personaggio di sé stesso che crea lui e che è diventato poi anche un po’ un mito. Ero a Città del Messico ed era un periodo di fuga, un periodo finale del mio momento romantico e del mio amore per la città, e mi sono trovato davanti una persona che mi ricordava molto Roberto Bolaño. Tutti i giorni prendeva lo stesso autobus infernale che mi portava fuori dal cuore della città verso i suoi limiti e le sue zone oscure, che sono quelle che si affacciano allo Estado del Messico che è un luogo di estrema violenza e di femminicidi. In qualche modo con quell’autobus uscivo dalla zona di comfort della megalopoli, dalle sue zone di pace, di indipendenza e modernità, e incontravo questa persona tutte le mattine e ho cominciato a vedere in lui una sorta di Roberto Bolaño postumo – postumo perché aveva sfidato la morte e si era rifugiato a Città del Messico come un suo stesso personaggio, per tracciare i limiti in cui la città si espande. Città del Messico è in continua espansione, è una città che continuamente mangia spazio, all’intero e all’esterno. Bolaño stesso racconta questo aspetto nei suoi libri, e alla fine questa espansione risulta quasi una corteccia che ti protegge da un Male che anche nei libri di Bolaño si trova fuori dalla città, nel deserto messicano, perché è lì che la violenza è assoluta. Quindi mi piaceva l’idea di rivedere un Bolaño a Città del Messico.

Ho vissuto in anni anche difficili a Città del Messico, di forte violenza, di narcotraffico, e di tanto in tanto questa violenza zampillava anche all’interno della città, nelle storie degli studenti e dei femminicidi, e in un momento di grande distacco che avevo nei confronti della città, vedevo questo traghettatore, una sorta di Virgilio, qualcuno che mi indicava un modo per interpretare la città. E chiaramente nella mia visione era Roberto Bolaño. Quindi sì, la visione è un omaggio a Bolaño, che per quanto sia stato lontano da Città del Messico, pare sia sempre rimasto a Città del Messico. Il suo spirito, i suoi libri, sono pieni di Città del Messico, che è un luogo di gioventù, ma di una gioventù costantemente assediata. Con quei prototipi ed esempi di Male che lui racconta nei suoi libri. Anche se sono libri scritti fuori dal Città del Messico c’è sempre Città del Messico. I Detective Selvaggi è l’apoteosi in questo senso, il romanzo perfetto sul Distrito Federal, il DF.

È bello ritrovare il DF dei Detective Selvaggi nel libro e in questo tuo omaggio allo spirito di Bolaño.

Nel 2002 per me Città del Messico era il Distrito Federal, quel luogo mitico che poi ho scoperto essere un luogo reale. Tra l’altro nel mio libro c’è anche un controcanto a Bolaño, nel senso che racconto parti di città che Bolaño non ha raccontato, un Messico urbano o contemporaneo, anche nell’arte.

Parlando di arte messicana, mi ha colpito quello che scrivi di Frida Khalo (cfr. che in Messico “è un po’ l’equivalente messicano di Pinocchio riletto da Walt Disney”). Diciamo che lei ruba la scena ma poi c’è tutto un mondo da scoprire nell’arte messicana, tu fai i nomi di tante artiste surrealiste.

A Città del Messico Frida Khalo viene smerciata ovunque, è una città dove al mercato ci sono i ciondoli di Frida Khalo, è ovvio che non ti viene l’amore per lei, e poi cominci a scoprire che ci sono anche gemme più segrete e interessanti come Leonora Carrington e Remedios Varo, e leggi le scrittrici messicane. Io credo che per molti anni Frida Khalo sia stata anche la punta dell’iceberg del machismo nella cultura messicana, l’immagine di una donna che soffre in un marketing a conduzione maschile. Diciamo che mi dava fastidio quell’aspetto, anche nei confronti del movimento femminista messicano che è molto vivo, e da un punto di vista artistico.

A un certo punto nella Mappa degli Studenti fai l’elenco dei nomi degli studenti assassinati nel massacro di Tlateloclo, e in altre mattanze della storia messicana, un elenco che può ricordare la parte dei delitti di 2666 di Bolaño, e quello che fa Daša Drndić in Trieste quando butta giù i nomi degli ebrei italiani assassinati dal nazifascismo. Stavi cercando questo tipo di effetto?, un effetto che mette i brividi sfogliando i nomi.

Esatto, è un omaggio a Daša Drndić, altra scrittrice che mi fa impazzire insieme a tanti autori postumi o che ci hanno già lasciato, come Bolaño o David Foster Wallace. In Daša Drndić è proprio quell’esempio di documento che mi interessa, anti-retorico, perché la lista è di per sé anti-retorica, e anti-testimoniale, perché potresti leggere quella lista anche come pura assonanza, una sorta di gioco di parole. I nomi messicani a volte si ripetono – Sanchez, Torres. Così era pure in Trieste quando nella lunga lista di Daša Drndić i cognomi sono simili e cambia solo il nome; i cognomi si ripetono, i nomi cambiano e l’elenco diventa quasi una sorta di poema surreale. Oltre a quest’effetto mi piace che questi nomi siano spesso associati a dei monumenti. I monumenti sono qualcosa di patriottico, e questi nomi da un lato negano il concetto di patria, e dall’altro lo enfatizzano nella loro dimensione di una patria che uccide e sequestra studenti e giovani, negando un Messico futuro stesso.

Visione di Città del Messico, Alexis Tostado, unsplash

« Città del Messico ha quattordici milioni di abitanti. Non rivedrò mai più i realvisceralisti. E non tornerò nemmeno in facoltà o al seminario di Álamo. » Roberto Bolaño, I Detective Selvaggi – I Parte, Messicani perduti in Messico

Ti sei mai sentito perduto a Città del Messico? Disorientato dalla sua grandezza, o anche da una sensazione?

Come diceva qualcuno, bisogna saper perdersi. Non è facile perdersi perché si può anche rimanere a bocca aperta in mezzo a una piazza. Perdersi però vuol dire anche trovare, ci si perde perché si prova ad andare in un luogo, si prova a muoversi. Mi sono sentito perduto quando sentivo il bisogno di tornare a casa, la mia dimensione di ubiquità che ho sempre preservato era un senso di perdita, ma ho scoperto che perdermi a Città del Messico mi ha fatto apprezzare anche tante cose. Ho capito meglio anche Firenze. Posso dire che oggi vivo con questo senso di ubiquità per cui da un lato mi sveglio la mattina alle 8 a Firenze e dall’altro sto ancora dormendo a Città del Messico.

E ti manca Città del Messico?

Mi manca il mio essere là. Mi manca questa rivoluzione che può succedere a ognuno che va, viaggia, vive in un luogo, anche con una nostalgia di casa e in un tempo diverso. E la sensazione ne esce fuori raddoppiata, perché hai le memorie, le sensazioni, quello che vuol dire il passare delle stagioni qui in Italia e in questa zona di mondo, o là in America, che è un altro continente e ha le sue stagioni. Mi manca questa sensazione di sdoppiamento, e nei miei prossimi lavori mi interrogo molto sul concetto di casa e radice. Poi chiaramente vado spesso a Città del Messico, non è da molto che ci sono stato, qualche mese fa sono tornato dopo la pandemia quindi con un senso anche raddoppiato della distanza, e ogni volta è una conquista, una scoperta e un godimento, ma anche una voglia di tornare a casa, in questo nostro continente. In qualche modo rivivo sempre quello che ho vissuto in quei quattro o cinque anni.

Nel libro c’è anche una dedica a Ilide Carmignani, traduttrice e voce italiana di Roberto Bolaño.

Io e Ilide Carmignani ci sentiamo spesso. Le dico sempre che non leggo quasi mai i suoi libri perché leggo in spagnolo, però io credo che lei sia riuscita a rendere la voce di Roberto Bolaño in italiano più di altre traduttrici e traduttori. Ilide è un po’ l’ambasciatrice di Roberto Bolaño, e per me è molto importante avere una figura come lei qui. Ogni tanto parliamo del suo incontro con Bolaño e così mi dà modo di colmare la lacuna di non averlo mai incontrato. Lui venne in Italia nel 2003 e dopo poco morì a Barcellona. Insomma per me Ilide Carmignani è importantissima e volevo omaggiarla. Ha fatto un lavoro incredibile anche nel tradurre le poesie di Bolaño, in Italia mancava la traduzione dei Cani Romantici, che magari non sono le migliori poesie dell’America Latina, ma anticipano l’intensità dei romanzi di Bolaño, sono una sorta di taccuini anticipatori della sua opera.

Raveggi a Città del Messico

Scriverai il tuo romanzo messicano come racconti nel libro?

Guardo ai miei romanzi precedenti ed entrambi raccontano Città del Messico. Ma quello che mi piacerebbe raccontare è la vita di alcuni italiani a Città del Messico, di come questa città sia una centrifuga che cambia il destino e l’attraversa. Per me Città del Messico è anche una città di destino, nel senso spagnolo dove destino vuol dire destinazione, e nel senso di fato, di qualcosa che ti attrae a sé e non puoi respingere. Questo per me è stato il Messico, per pura buona sorte mi sono trovato in Messico. Ero sicuramente affascinato dai poeti messicani, ma nella mia idea di vita non era prevista quella di trasferirmi in Messico o diventare mezzo messicano.

Città del Messico per me è diventata così una sorta di divinità da rispettare. Penso sia lo stesso per ogni viaggiatore che va là, finisce per provare questa sensazione di rispetto per la città che ha una sua potenza molto forte rispetto ad altre città che si apparecchiano davanti ai viaggiatori come dei salottini. Penso a Parigi, non quella di Baudelaire, ma alla Parigi del viaggiatore contemporaneo. Città del Messico trovo sia una città da rispettare maggiormente, una divinità che da un lato è bella e dall’altro mostruosa, che ti attrae e che ti segna. Ogni volta che ho una scelta da fare mi giro alle spalle, guardo Città del Messico e dico, posso o non posso?

Quindi è una divinità che ancora oggi ti orienta?

Sì, ed è strano perché sono una persona abbastanza razionale e priva di fatalismi. Ma dopo Città del Messico sono più fatalista. Questo libro è una sorta di omaggio in cui guardo negli occhi la città e le dico, “io vado avanti e vediamo cosa ne pensi”.

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