Città Sommersa: nel solco di una narrativa urbana

“Il ragazzo corre nella città di pietra”

La città. Un ragazzo che poi diverrà uomo. Un’immagine precisa al centro della narrazione. Precisa e suggestiva: una delle tante che Marta Barone riesce a tessere in Città Sommersa ogni volta che avviluppa i suoi personaggi reali con le arterie di asfalto e cemento armato della città. Città Sommersa è un libro uscito nel 2020 e rappresenta l’esordio di Barone nella letteratura per adulti, dopo una serie di testi per l’infanzia. Un esordio che ha riscontrato subito grande successo e un consenso unanime tanto da essere nella dozzina del Premio Strega e aver vinto la classifica di qualità di febbraio 2020 de L’indiscreto. Non è un romanzo, Città Sommersa, ma un mémoire, genere che ultimamente sta sfornando letture di livello nel panorama italiano. E Barone si muove con mirabile scioltezza in questi lidi, spaziando per quasi trecento pagine tra la saggistica, il giornalismo d’inchiesta e la fiction più pura condotta spesso con maestria, nonostante qualche inciampo formale sovrastato però da una forza contenutistica notevole.

Il tutto si sviluppa partendo da uno dei più grandi tòpoi della storia della letteratura: la ricerca del padre. Un padre assente a sprazzi, trasformista, a cui lei non perdona nulla in uno di quei tipici rapporti genitori-figli che sembrano essere costellati di incomprensioni e di nessuna voglia di scavalcare reciprocamente i macigni che generano distanze. Alla morte del padre, però, tutto cambia. La narratrice, Marta Barone, inizierà a indagare nel passato di quel LB – così viene chiamato nel libro per assecondare una sua trasfigurazione a personaggio narrato – accusato negli anni ‘80 di far parte del gruppo armato di estrema sinistra Prima Linea.

Muovendosi tra archivi, testimonianze dirette, indagini, Barone riscostruirà la storia del padre che da un piccolo paese pugliese è approdato prima nella capitale, Roma, dove una coscienza politica iniziava a essere sempre più preponderante, per poi spostarsi a Torino, vero e proprio teatro delle vicende che verranno narrate nel libro. Ed è proprio la città a condividere con LB il ruolo di protagonista della storia: Roma, palcoscenico del giovane LB; Milano, e la narratrice flâneur; e poi Torino, la città sommersa che Barone comincerà a guardare con occhi nuovi ogni volta che un pezzo del puzzle che compone l’arco dell’esistenza paterna, andrà al suo giusto posto. I luoghi che lei ha sempre conosciuto, visitato, prendono una luce inedita e fatti che sembravano lontani diventano così vicini che non c’è neanche bisogno di guardarsi indietro per avvertire la loro presenza. C’è la meravigliosa Piazza Vittorio, luogo simbolo di Torino, che di colpo diventa il teatro, come in una storia di fantasmi, dei disordini del 1° ottobre 1977 che culminarono con la morte di Roberto Crescenzio, a causa di molotov lanciate dentro il bar Angelo Azzurro, ritenuto erroneamente un ritrovo della destra cittadina.

La città percorsa da Barone è la stessa che ha vissuto anni di rivolta, violenza, lotta, sperequazioni sociali e che la narratrice arriva a sentire sempre più vicina, circostanziando la figura del padre all’interno di quegli eventi. Da queste riflessioni si può ascrivere il lavoro di Marta Barone alla grande scuola letteraria che ha fatto della città un elemento narrativo predominante. La Torino degli anni ’70, consente di focalizzarsi su una condizione operaia non troppo dissimile da quella in grado di alimentare, un secolo prima, la narrativa di scrittori come Dickens o il pensiero di Marx e Engels. Più il conflitto in città è aspro e più la letteratura riesce a cibarsi di quella materia. Ed è proprio dal conflitto, come ogni manuale di scrittura può insegnare, che nasce la narrazione – in questo caso, la narrazione urbana.

Nel diciannovesimo secolo si inizia a familiarizzare col concetto di città come male. Un male fisico, da estirpare e curare, riconducibile a una visione organicistica del tessuto urbano – perfettamente descritta da Matilde Serao ne Il Ventre di Napoli – o un male più ideologico, sociale, derivante dal concetto di città come teatro da cui sgorga la diseguaglianza sociale. Un male così dirompente da essere in grado di portare al tracollo dell’intero Occidente, come evidenziato da Nietzsche in Così parlò Zarathustra, dove l’uomo piccolo vive la città, oramai schiacciato dalla quotidiana fatica e incapace di ribellarsi a questa situazione, mentre l’uomo grande è obbligato a chinarsi per accedere alle abitazioni in cui la sua controparte più minuta alloggia.

Da queste tematiche la narrativa ha attinto a piene mani: l’operaio è la vittima della città post Rivoluzione Industriale. Quell’operaio oramai impossibilitato a sentirsi a casa, che vive in una situazione precaria, senza appigli. Tutti temi che emergevano nella letteratura ottocentesca e che trovano nuova linfa nel lavoro fatto da Barone. Questa volta ci sono gli anni ‘70. Torino. La fabbrica e le periferie costruite ad hoc per gli operai, alla cui disperazione veniva assegnato un punteggio determinante per la possibilità di poter ottenere un alloggio. E così nasceva “una nuova città fantasma di abitanti non-abitanti che l’altra città (…) aveva incamerato per decenni senza mai chiedersi, se non troppo tardi, dove avrebbe potuto metterli, dove avrebbero potuto condurre un’esistenza che non fosse già sepoltura in vita”.


In un contesto del genere, la conseguenza è una sola: il ribollire di ideologie che possano portare a una sovversione della situazione con un forte rischio di deriva violenta. E qui si può attingere all’altra grande declinazione della città in ambito letterario nel XIX Secolo: la città come culla dell’ideologia, di cui il maestro indiscusso fu Dostoevskij. In Russia, dove la servitù della gleba venne abolita tardivamente rispetto al resto dell’Occidente, Fëdor Dostoevskij scriveva testi fondamentali per la letteratura della città, come Delitto e Castigo e I Demoni.

In Delitto e Castigo c’è San Pietroburgo, già sviscerata in termini di narrazioni urbane da Le Notti Bianche. Ma questa volta, la capitale russa dell’epoca, serve come catalizzatore dei pensieri di Rashkolnikov, il protagonista, che aveva ucciso per poi giustificare il suo delitto come funzionale al perseguimento di un bene superiore – una visione non troppo dissimile da quella degli assassinii politici degli anni ’70. La città svolge un ruolo fondamentale nel processo cognitivo che porta il protagonista a elaborare la gravità delle azioni commesse. Lo sfondo urbano diventa una sorta di think tank, dove Rashkolnikov riesce a essere colpito da epifanie funzionali a somatizzare gli eventi accaduti. Il personaggio diventa quasi un filosofo peripatetico, con il suo passeggiare, l’errare per le strade di San Pietroburgo, senza mai smettere di dialogare con se stesso.

Ne I Demoni, invece, la città diventa la culla dell’ideologia malvagia pronta a riversarsi sulle campagne con la sua ondata di violenza. Dostoevskij, deluso dall’ideologia socialista, crea dei personaggi spregevoli – Stavrogin e i suoi tre adepti – che, partendo da una realtà rurale, diventano cittadini del mondo, viaggiano, conoscono e assaporano le metropoli da cui traggono idee e insegnamenti, e il proposito di sovvertire l’ordine costituito mediante azioni violente che sconvolgeranno la quotidianità del paesino d’origine, governato da un potere centrale molto forte, dove la moralità e la spiritualità sono i principali motori dei cittadini e tutto viene visto in modo reazionario e stantio. Una cornice del genere non può essere tollerata dai giovani “demoni”, ormai diventati dei veri e proprio cospiratori che, attraverso attentati e gesti violenti, hanno l’obiettivo di rovesciare tutte le forme di autorità, sia politiche sia religiose. I loro dialoghi si basano su correnti filosofiche, portate all’esasperazione, apprese nelle varie nazioni visitate. In un vortice di suicidi, omicidi, attentati falliti, amori e tradimenti, tutto fallirà inevitabilmente. Il potere russo non verrà rovesciato e il nichilismo agnostico non prenderà il sopravvento sulle forti credenze religiose radicate sul territorio russo. Secondo Leonid P. Grossman, Dostoevskij avrebbe creato ritratti di estrema asprezza, nell’intento di denigrare eminenti figure politiche rivoluzionarie come Petrasevskij, Spesnev e Bakunin.

In queste opere emerge quell’aspetto tipico della narrativa dostoevskiana per cui non sono i protagonisti ad essere calati in un ambiente, ma è l’ambiente che si viene a creare dove i protagonisti dialogano o compiono le loro azioni. Sfumatura che accomuna ulteriormente l’opera di Barone a questa grande tradizione letteraria: “(…) come se la città appartenesse loro per discendenza, come se la città, addirittura, fosse scaturita da loro, fosse una loro diretta emanazione; e come se, nel momento in cui entrambi saranno scomparsi, anche la città, in qualche modo, dovesse smettere di esistere”, scrive Marta Barone immaginandosi l’impatto che la città potesse avere sui suoi genitori, appena giunti lì, da “estranei”.

Con Città Sommersa Barone dimostra come la letteratura urbana sia un genere che continua a non esaurire le proprie potenzialità e che, giocoforza, acquista potenza narrativa quando associata a conflitti di enorme portata per la città, che siano gli omicidi che costellano la Santa Teresa di Bolaño in 2666, il degrado peccaminoso della Sin City di Frank Miller, oppure la violenza degli anni di piombo e la lotta armata, linfa della nostra storia e motore della città narrata da Marta Barone in un libro che si candida di diritto a diventare un nuovo tassello che declina questa grande tradizione letteraria.

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