Club to Club 2018 | Oltre i confini

Non sveliamo certo nulla di nuovo affermando che, ormai da diverse edizioni, Club To Club non è più un festival prettamente elettronico: quell’etichetta è stata lasciata cadere ormai qualche anno fa, a favore di un ampliamento degli orizzonti musicali, il cui concept è racchiuso a perfezione nell’autodefinizione di “Festival internazionale di avanguardia e pop”.  Se già due anni fa, infatti, mescolare al beat da dancefloor il rock sperimentale degli Swans o il folk del supergruppo Junun + Jonny Greenwood era stato un delizioso azzardo, come scordarci invece del sax di Kamasi Washington di dodici mesi fa? Ecco, se possibile, il 2018 ha aperto squarci ancora più profondi su quella tela elettronica un tempo così lineare ed ora tanto piacevolmente corrotta, imprimendo a fuoco sulla texture una raccolta di artisti e generi multiformi.

L’eterogeneità e il cambio di ritmo continuo di una line-up (anzi, delle tante line-up) che ha animato la maratona musicale lunga quattro giorni, hanno smascherato il sottile inganno celato dietro il tema del “la luce al buio”, ispirato da quel magnifico set della passata stagione a opera di Nicolas Jaar, in cui l’artista cileno aveva suonato un edit de L’ombra della luce di Battiato. L’errata convinzione che la bicromìa di bianco e nero –colori su cui era stata giocata l’intera campagna pubblicitaria – potesse rispecchiarsi in una piatta varietà dal punto di vista dell’offerta artistica, ha presto lasciato il posto a larghi sorrisi: quella appena conclusasi è stata infatti l’edizione di Club To Club con più anime musicali e più sfumature di sempre. Il dichiarato obiettivo di voler accendere di vita una serie di spazi vuoti fino a poche ore prima, è stato ampiamente realizzato, con il doppio merito di aver vinto sfide anche al di fuori della propria comfort-zone, come il riuscito Block Party al Balon di Porta Palazzo.

Sin dalle prime battute techno, pop, rock, addirittura R&B si sono alternati con una fluidità inaspettata, creando cocktail musicali in grado di dissetare tanto il raver inarrestabile, quanto il nerd ricercatore da SoundCloud, l’appassionato di vinili e la coppietta alla ricerca di atmosfere trasognate.  Così alla serata di apertura alle OGR è stato tremendamente suggestivo osservare la mutazione di un palco che ha visto dapprima l’elettronica oscura dei già noti Gang of Ducks contrapporsi al romantico downtempo di Tirzah (nickname che non a caso significa “mia delizia” in ebraico), seguiti a ruota dalla techno zarro-arabeggiante di Palm Wine e dalla dance minimal e ricercata del fuoriclasse inglese Call Super. Colori e suoni per pubblico di ogni gusto: giovedì, insomma,  chiarisce subito che il bianco unito al nero fa tutt’altro che grigio.

Di grigio, anzi di plumbeo, c’è forse solo il cielo che accompagna minaccioso il festival per tutta la sua durata ma che –fortunatamente-, salvo qualche scroscio improvviso e qualche corsa verso macchine e mezzi vari, alla fine lo risparmierà.  Quella che sembra una semplice constatazione meteorologica, in realtà non lo è affatto: nato appunto come un’organizzazione di eventi distribuiti capillarmente in tutta la città, Club To Club, nonostante le dimensioni dilatatesi anno dopo anno fino a raggiungere proporzioni ormai colossali (sono diverse decine di migliaia le presenze), conserva orgogliosamente questo suo spirito itinerante. E’, da questo punto di vista, un festival a doppia anima, divisa tra esigenze di spazio e (ri)scoperta di luoghi cittadini. E per l’appunto, prima di recarsi al Lingotto, per la prima delle due serate cult, c’è il tempo di stazionare un paio d’ore al AC Hotel per la diretta di Radio Raheem e per una serie di talk e di interviste, all’interno del rodato Absolut Symposium, gestite come di consueto da Max Dax e Carlo Pastore in una sorta di dietro le quinte.

Ma giunge l’ora di capire se le linee guida intraviste la serata inaugurale possano realmente essere quelle ipotizzate e, non appena entrati nell’enorme padiglione, ne abbiamo immediata conferma: il trittico iniziale è composto dall’elettronica variegata di Elena Colombi, il punk rock degli Iceage e una sorta di hip-pop parlato dell’artista nigeriano Obongjayar. Mai Club to Club aveva osato sconfinare in “terre tanto lontane” ma l’amalgama che ne fuoriesce è di impatto sorprendentemente riuscito. Come non bastasse, a seguire, in un tripudio di pubblico adorante, è la voce divina di Victoria Legrand a guidarci attraverso un’orgia di dream-pop colorato, mentre i Beach House alternano a pezzi di 7 (l’ultimo lavoro) alcune perle di Bloom e Depression Cherry. Quattro artisti, quattro generi: è definitivamente un Club to Club inedito.  La seconda parte della serata sposa ritmi più ballabili, con da un lato David August e Jamie XX che sfoderano la loro elettronica incalzante e dall’altro il travolgente set di Skee Mask, una delle sorprese (ma non così tanto) assolute, che fa letteralmente impazzire il pubblico del Crack Stage. Il finale è a quote rosa, in un crescendo inarrestabile di beat sempre più violenti con Peggy Gou e Josey Rebelle in prima battuta e la techno di Avalon Emerson a completare l’opera.

 

Fotografie di Alessia Naccarato

 

Il sabato è la serata più attesa con Club to Club che si (e ci) fa il regalo per la sua maggiore età: le quasi due ore dell’ospite più atteso, Aphex Twin. Tanta è l’adrenalina per un evento che è stato pubblicizzato all’inverosimile (e sul quale l’organizzazione ha investito come mai in precedenza) che quasi ci si dimentica che prima abbiamo la possibilità di assistere ad altri due show, per completare il nostro infinito puzzle di generi musicali: Yves Tumor, in apertura, col suo indefinibile e sensuale sperimentalismo, a cavallo fra una future r&b e una EDM decostruita, e, poco dopo, l’ancor più ibrido Blood Orange, che spazia senza alcuna difficoltà dal hip-hop, al funk, alle ballads più emotive. Ancora, Leon Vynehall (vecchia conoscenza del Jazz Refound di qualche mese fa) e la sua house, il nostrano –sempre graditissimo- Bienoise, e l’enigmatico Serpentwithfeet contribuiscono a popolare l’anticamera che prelude al salone delle feste, quel Main Stage dove ormai tutto il pubblico fluisce.

Spettrale, Aphex Twin si materializza all’improvviso dietro l’enorme consolle, che troneggia su un palco che sembra un’astronave e, senza preavviso, comincia a sparare una raffica di sonorità distorte. E’ un gioco a rincorrersi, il suo: non appena l’orecchio dell’ascoltatore inizia ad abituarsi e crede di aver compreso il disegno sonoro che l’artista britannico vuole proporre, lui scarta di lato, fuggendo su una traccia del tutto inaspettata. Beat fuori tempo e acid sono il leitmotiv di uno spettacolo a base di frastuono sonoro e melodie stridenti, il tutto eseguito a volumi che il capannone del Lingotto stenta a gestire, evidenziando qualche problema soprattutto sui bassi. L’altra metà dell’operato dell’enigmatico genio si concretizza nella parte visual: da una parte un trionfo di laser a costruire piste immaginifiche sulle teste degli astanti, e dall’altra schermi a profusione con immagini manipolate in diretta. Non riusciamo a far a meno di pensare alla favola dei fratelli Grimm, mentre scorrono in diretta decine di facce distorte, con i lineamenti forzati nel diabolico ghigno del pifferaio magico che li sta incantando. Le quasi due ore di uno spettacolo senza pausa e realmente difficile da processare e da digerire, paiono essere l’annuncio di un imminente Apocalisse.

Il resto è in discesa, con le bombe di hyper-dub lanciate dall’ospite segreto aka Kode9 a far tremare i muri e a ridestare i superstiti delle ore precedenti, e il finale con l’”affecionado” Vessel  e la sua Red Sex. Che i synth di Silvia Kastel e i vinili di Courtesy paghino la contemporaneità con il piatto forte della serata, è solo un forzato inconveniente che non sminuisce la loro bravura.

La domenica Club To Club vuol farti ancora ballare, anche se le forze sono agli sgoccioli. Ti chiama, ti cerca fin dal mattino con l’Unusual Breakfast alla Nuvola Lavazza, e ti circuisce con l’attrattiva del Club Palazzo a Borgo Dora, per l’occasione travestitosi da mercatino del vinile. Ed è proprio il centro multietnico per eccellenza di Torino – Porta Palazzo, appunto – a rappresentare la vittoria più grande per l’organizzazione, in un momento di integrazione non solo fra le persone, quanto fra il festival e la città stessa, che lo abbraccia benevola. Fra birre comprate dai cinesi, kebab al volo per rifocillarsi un minimo e facce stanche ma sorridenti, va in scena l’ottimo “Diggin’ in the Carts” con Yuko Koshiro e Motohiro Kawashima a far saltare tutti sulle sigle da videogiochi giapponesi.  Rimane, infine, la Reggia di Venaria, come cornice in pompa magna  al giusto epilogo di una quattro giorni senza respiro, sulle note di Mana, Primitive Art e DJ Nigga Fox.

Intrattenimento, sperimentazione, dialogo, ma soprattutto una ricerca musicale senza paura, al punto da essere ormai in grado di smarcarsi da qualsivoglia etichetta manieristica e di genere, hanno confermato l’edizione 2018 di Club To Club a livelli di eccellenza. Il sostantivo Festival pare quasi riduttivo di fronte alla maturità con cui il pubblico viene guidato attraverso la scoperta di percorsi nuovi, sonori in primis, ma non solo. Un’esperienza culturale –lo preferiamo come termine- capace veramente di portare la luce ad illuminare luoghi e persone, mostrandone colori e sfumature prima celati dal buio.

 

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