Come Daesh usa la musica per la sua propaganda

Nel giugno del 2014 Daesh conquista Mosul, seconda città dell’Iraq per estensione. In un documentario della BBC si cerca di indagare come si viva a Mosul dopo l’arrivo dei miliziani, con testimonianze ovviamente anonime degli abitanti a proposito delle ”leggi del Califfato”. ”La punizione minima sono le frustate, che viene applicata anche per cose come fumare una sigaretta”, racconta qualcuno. Mosul diventa presto uno degli esperimenti del teatro della propaganda e della comunicazione messo in piedi da Daesh e dalle sue ferree regole: per le adultere donne è prevista la lapidazione, i maschi adulteri (o omosessuali) sono buttati giù dai tetti degli edifici. Anche l’Università di Mosul passa sotto il controllo di Daesh, e i cambiamenti sul nuovo corso arrivano a poco a poco. All’inizio si prepara solo il terreno: maschi e femmine non possono partecipare assieme alle lezioni; poi si interviene sui programmi scolastici: sono vietate le facoltà di Diritto, Scienze Politiche, Belle Arti, Archeologia, Educazione Fisica, Filosofia e Scienze Alberghiere, e ancora la narrativa e il teatro in lingua inglese e francese. Ben presto l’istruzione in salsa Daesh si diffonde alle zone tra Siria e Iraq sotto il controllo del Califfato: al bando passano la musica, le arti, la filosofia e qualsiasi altra educazione religiosa diversa da quella della fede sunnita.

Dovremmo fare i conti con il fatto che Daesh non è uno stato, anche perché il concetto di stato nell’Islam non esiste: parliamo di nazione. Tuttavia Daesh si comporta come un sistema di governo, che fornisce servizi ai propri cittadini, e gestisce cultura, informazione e sicurezza, con dei regolamenti e divieti per la popolazione civile sotto il suo controllo. Anche la musica va controllata da contaminazioni, come dimostra quello che è successo in Libia lo scorso febbraio. Sassofoni, bonghi, batterie e tamburi, sono stati dati alle fiamme a Derna perché strumenti non conformi al concetto di Sharia dei miliziani. Non era la prima volta che accadeva una cosa del genere. L’obiettivo di Daesh è duplice: controllo e propaganda.

La musica diventa uno strumento di propaganda potentissimo, e ritrova vigore nell’utilizzo dei nasheed, canti a cappella di stampo jihadista che utilizzano la retorica dei testi di combattimento. Anche nella conquista di Mosul molto hanno fatto questi nasheed di ispirazione jihadista, che trainavano i combattenti al ritmo di grida come ”Maliki, i tuoi giorni sono contati”. Risale al 2013 il lancio di quella che potremmo chiamare l’etichetta discografica Daesh, la Ajnad Media Foundation, che si occupa proprio della diffusione dei nasheed. Come ha scritto Anwar al-Awlaqi, ”un buon nasheed può raggiungere un audience molto più grande di quella di una lettura o un libro”, di fondamentale importanza per il jihad, e occasione per poeti e cantanti di liberare la fantasia, una sorta di rap in versione jihadista. I nasheed di questo filone nascono alla fine dei ’70 per diffondere i messaggi dei fondamentalisti in Egitto e Siria, registrati su cassette raggiungono un grande pubblico. Oggi è tutto molto più semplice, la musica si diffonde velocemente e senza bisogno di cassette e cd. La macchina di propaganda di Daesh usa internet come meglio non potrebbe fare. Un classico nasheed in questo senso è il pezzo My Umma, Dawn Has Appeared: al contrario di chi usa accompagnare i nasheed con strumenti e tamburi, lo stile Daesh è scarno, e prevede solo il canto a cappella.

La macchina della propaganda mediatica Daesh ha recentemente perduto uno dei suoi esponenti, si tratta del rapper tedesco Deso Dogg, ucciso vicino a Raqqa dalla coalizione occidentale in Siria lo scorso ottobre. Il rapper era il fondatore della casa di produzione dei video di propaganda di Abu Bakr al-Baghdadi, e inoltre era stato incaricato da Daesh di tradurre il messaggio del Califfato in lingua tedesca. Una vera e propria macchina della guerra che incrocia vari linguaggi, visual e musica, quella di Isis/Daesh. E intanto il resto della scena musicale in queste zone non se la passa benissimo, e non perché il mainstream Daesh abbia dominato la scena sull’underground, ma proprio perché l’underground è costretto ad andare in fuga.

I Khebez Dawle sono stati costretti a emigrare dalla natia Siria per rifugiarsi prima in Libano, e poi nel resto dell’Europa. Il recente messaggio dei cinque musicisti siriani è quello di esportare il rock come messaggio di speranza per i rifugiati che sono stati costretti ad abbandonare le loro terre. Non resta che ascoltare il loro album perché la musica resti viva nelle orecchie e vinca la controcultura.

Da una parte ci sono i nasheed, canti a capella di ispirazione jihadista utilizzati dalla macchina di propaganda Daesh per fare proselitismo. Dall’altra la storia di una band rock come i Khebez Dawle, emigranti siriani e rifugiati che portano in giro la loro musica in Europa.

 

Foto copertina: thierry ehrmann Flickr

Exit mobile version