Come stavamo ieri, ovvero come sopravvivere all’italianità in un concerto all’estero

Che popolo di santi, poeti e navigatori son gli italiani! E di conquistatori! Anche se di tali conquiste non restano ad oggi segni effettivi e tangibili, ma quello rientra nel nostro modo di non riuscire mai a organizzarci (mettiamo da parte la pizza, la pasta e la mafia per evidenti motivi). Si è diffusa negli ultimi anni la consuetudine, per molte band italiane, di organizzare mini tour all’estero, insomma l’Europa è ormai casa nostra e sarà pure un po’ complice quella storia della fuga dei cervelli, il fatto che i giovani italiani abbandonano il Belpaese e vanno a cercare fortuna altrove: vuoi per studio, vuoi per lavoro… Qualcuno dirà vabbè che c’entra coi gruppi? Cioè i gruppi italiani suonano all’estero per farsi conoscere, perché sono bravi e allora li chiamano, perché vorrebbero esportare la nuova musica italiana… e niente, magari sulla carta è così, si usano i tour all’estero come date di riscaldamento per la tournée italiana o come decompressione dopo un lungo tour, e poi fa fico pubblicizzare l’evento sui social quando non suoni nel tuo paese, ma non sempre funziona così.

Quando si vive all’estero facilmente può venirti la voglia di ascoltare qualcosa nella tua lingua, un concerto che ti riavvicini a quelle che erano le tue abitudini italiane. Quando capita a me, mi armo di fiducia, mi convinco e mi lancio. Mi sale la curiosità, voglio capire come viene il live di una band di casa nostra qui in Francia, a Parigi: chissà il pubblico come la prenderà, chissà se apprezzerà gli stessi brani che hanno reso grande la band nel nostro paese, poi mi avvicino al locale e i miei pensieri si fanno più piccoli, si ridimensionano… chissà se ci saranno francesi… arrivo alla porta e inizio a sperare che ce ne siano almeno un paio… perché insomma ai concerti delle band italiane che giocano fuori casa ci vanno soprattutto gli italiani all’estero, no, non sono quelli che fanno gli applausi quando atterra l’aereo, quella è un’altra storia.

Ma prendiamo un gruppo a caso, per esempio i Marlene Kuntz. Già le vedo le vostre facce giudiziose che si storcono: « saranno anni che non fanno un disco decente e tu ancora te li vai a vede’! », e allora io rispondo sì vabbé ma allora la sinistra italiana? Sono anni che votiamo a sinistra con la speranza che si cambi qualcosa, che magari si approvino le unioni civili… e niente va, torniamo ai Marlene che è comunque meglio.

Ve li ricordate gli anni ’90? C’era una certa rigidità selettiva, bisognava schierarsi: o stavi con gli Afterhours o stavi coi Marlene Kuntz. Tutti andavamo ai concerti di entrambi, però dovevi scegliere: meglio le sottigliezze lessicali di Godano o le scatarrate di Manuel? Meglio i Sonic Youth o i Nirvana? Vabbè messa così suona scorretta, lo so, non me ne vogliate. Fatto sta che lo confesso: c’è stato un periodo della mia vita in cui ero dalla parte dei Marlene, un po’ forse me ne pento ma a pensarci bene nemmeno tanto. Stasera sono pronto a passare sul vuoto musicale prodotto dalla band di Cuneo con i loro ultimi due dischi, stasera scendo in pista, rispolvero i vecchi brani, mi compiaccio di ricordare a memoria tutti i primi tre album e, per non sentirmi vecchio fino in fondo, ascolto anche il nuovo disco, che in fondo non è poi così malvagio con le chitarre vecchio stile e un po’ di sano e genuino rock’n’roll.

Afterhours @Michela Sellitto

Ora, i Marlene Kuntz in Italia appartengono a quel segmento di band che qualche anno fa riempiva i palazzetti, oggi riesce facilmente a riempire un club, ma qui a Parigi deve accontentarsi di una specie di locale da party Erasmus. Non me ne voglia L’alimentation générale, il locale è carino, però secondo me i nostri ragazzi sono abituati a qualcosa di meglio. Entro e provo ad abituarmi al brusco cambio di lingua, il pubblico è una selezione perfetta di tutti gli italiani che hai già incontrato ad altri live qui a Parigi, te lo ricordi il tizio che stava al reading di Clementi dieci mesi fa? Sì lui, ecc ecc. Vado al bancone a prendere una birra e mi chiedo se il barista si sente invaso come gli italiani ai tempi di Napoleone. Mi immergo nella folla, resto in silenzio e sono invaso dai discorsi… la tizia dietro parla di quanto la sua ricerca di lavoro sia cambiata da quando su Linkedin ha scritto che vive a Parigi, di quanto la sua occupazione attuale non sia qualificata per lei, ecc… qualche fila più in là si parla di post dottorati in materie umanistiche molto complesse, mentre un gruppetto sparuto ironizza sulla depressione che porta Alberto dei Verdena a scrivere brani allucinati. A volte penso che per la maggior parte dei giovani che hanno lasciato il paese qualche anno fa, l’Italia sia ancora quella di allora, con la stessa musica, le feste di piazza del paese, le elezioni comunali, che tutto sia rimasto immutabile. E chissà, magari è effettivamente così.

Il live inizia, Godano sale sul palco… uhm no aspetta… non c’è il palco, vabbè chiamiamolo comunque così, le chitarre graffiano come ai vecchi tempi, parte La città dormitorio, l’apertura con un brano nuovo ci sta, ma proprio mentre ti rilassi e te la stai un po’ godendo eccolo che arriva, accanto a te… l’uomo che vuole passare davanti a tutti i costi, anche se non c’è spazio lui se ne sta piantato lì e manifesta l’intenzione di andare avanti, perché si sente più fan di te, allora lo guardi e pensi ma dove credi di andare? sentendoti un po’ Max Collini. Dopo Fecondità parte L’odio Migliore, in più di dieci live dei Marlene credo di non averla mai ascoltata dal vivo, fico! Cantano tutti e questo è bello, il locale è pieno e c’è una bella atmosfera, Cara è la fine gasa ulteriormente i nostalgici, anche troppo, perché appena finisce si fa sentire immancabile l’urlo Sonicaaaa e penso che anche se sono a migliaia di km da casa le dinamiche non sono per nulla cambiate, sorrido e guardo avanti.

Parte ora una digressione musicale, i Marlene Kuntz non sono mai stati bravi a concepire le scalette, non sono mai stato pienamente soddisfatto, non riescono ad autocelebrarsi come fanno gli Afterhours, non gli piace gongolarsi nel vedere il pubblico incantato a cantare i loro successi, oppure semplicemente fanno concerti troppo brevi, che non danno il tempo di pescare da tutto il loro percorso artistico, ma assecondano soltanto i loro umori del momento, che ovviamente prediligono i nuovi lavori, per carità è una scelta e come tale proviamo a rispettarla.

Il concerto mescola brani nuovi a brani vecchi, ma a mio parere ripesca troppo dai territori più oscuri della band, da album come Ricoveri Virtuali e Sexy Solitudini e Nella tua luce, quasi tutti cantano in modo moderato, non me lo aspettavo, ma è nelle cose vecchie che ci si sente più a proprio agio, su A fior di pelle e la detestabile La canzone che scrivo per te (con la classica tizia che ti urla il testo nelle orecchie e ti chiedi perché è sempre dietro di te). Bisogna spezzare una lancia a favore dei Marlene e dire che i nuovi brani, sebbene suonino un po’ come delle “imitazioni” di loro successi ben più affermati, dal vivo hanno una loro forza e mantengono soprattutto la sincerità di un suono che per troppo tempo era stato abbandonato dai nostri: solo corde e batteria, come dovrebbe essere il rock, tutto tensione e sudore.

Ed è che trovo piacevole ascoltare brani come NarrazioneNiente di nuovo, Sulla strada dei ricordi, l’energica La Noia e l’instant classic Leda.

Ma torniamo alle cose futili, alla sociologia da concerto, mi guardo attorno e scorgo qualcuno vestito come se fossimo nei Novanta, mi fa sorridere questo ambiente, nonostante mi piaccia, non riesco ad essere completamente a mio agio. È un po’ come se entrando nel locale stasera avessi ritrovato il mio paesino di provincia, dove ci si conosce tutti, anche se non ci si è mai parlati, c’è un’atmosfera di confidenzialità strana e non puoi non voler bene a prescindere al tuo vicino quando nel bis parte Nuotando nell’aria e ti ritrovi a cantare. Vi ricordate gli studenti che nell’ultima fila di un autobus cantano Azzurro? Sì lo so, di solito all’ultima fila dei bus delle gite scolastiche si faceva ben altro, però in quel momento, quando partiva una canzone ci si sentiva uniti, ci si sentiva insieme, era quell’effetto generazionale, tipo Festa dell’Unità. È cosi che ci si sente, ogni tanto ce lo scordiamo, devo ammettere che per una volta non è affatto male.

Sì lo so che c’è una parte di voi che si sta facendo ancora quella domanda, però niente, mi spiace deludervi, ma alla fine Sonica non l’hanno fatta e nessuno si è offeso, non esistono più le prese di posizione politiche di un tempo, è finito il tempo di schierarsi, c’è crisi. In compenso mi sono goduto un’ottima Ape Regina senza nemmeno averla richiesta. Tutto arriva a chi se ne sta in silenzio.

Sulla strada del ritorno mi sento contento, quasi sollevato. Se ci penso poteva andarmi peggio, potevo essere più giovane. È stato meglio avere avuto sedici anni quando i Marlene facevano uscire Ho Ucciso Paranoia, così oggi, a trentatré anni, posso ricordare di quanto mi piaceva cantare robe tipo questa:  « Quanto fa male lavorare al male che compare / a causa dei miei vuoti d’anima / Sento l’inutilità obbligata delle scuse solite / il mio costume, la tua rabbia su di me. »

Poteva andarmi davvero peggio, potevo ritrovarmi a trent’anni a ricordare i tempi in cui cantavo cose tipo “ho fatto una svastica in centro a Bologna ma era solo per litigare” e allora sì, a pensarci bene, non sarebbe stato lo stesso.

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