Da Dostoevskij ad Amélie Poulain: fenomenologia del complesso di Myskin

È difficile risalire a quando tutto ebbe inizio. Sarà stata la scena cult di American Beauty, quel rotolare di busta (non biodegradabile) per un’adolescenziale Desolation Row in Super 8. “Era una di quelle giornate in cui tra un minuto nevica. E c’è elettricità nell’aria. Puoi quasi sentirla… mi segui? E questa busta era lì; danzava, con me.” A nulla valsero le intenzioni dissacratorie della salvifica parodia dei Griffin: un universo di bellezza si dispiegava, maestoso come l’ego di chi guarda e vago come il citazionismo ai tempi dell’internètt. Fu quello il giorno in cui supplenti di italiano, assessori al turismo e televenditori di quadri si strinsero commossi attorno a un’evidenza: avevano vinto.

La parola “bellezza” tirata in ballo con fare estatico e gran dispendio di trepidazione, assolutamente a cazzo di cane, come nelle comunioni ben riuscite si dimostrava in grado di sedare gli animi e le coscienze: valeva per atmosfere e sistematico azzeramento delle aspettative un sorbetto al limone bene assestato, tra la distribuzione delle bomboniere e l’apparizione della torta. Venne poi la pubblicità: fino a tutti i Novanta l’unica in grado di sposare immagine e messaggio generando ricchezza e distorsione del senso.

“La bellezza salverà il mondo” : la frase pronunciata dal principe Myskin ne L’idiota di Dostoevskij serve improvvisamente a vendere più automobili scintillanti, accende un sogno al diesel e fabbrica un desiderio, di quelli solidi, come solo il capitalismo sa fare. E sdogana anche un concetto, assolutamente falsato, che dagli apericena con sottofondo chill out alle lezioni di acroyoga rimbalza un po’ ovunque, trovandosi a infestare non di rado la cattiva critica e a incombere sul giornalismo culturale scadente. Il concetto è che la bellezza in questione sia apprezzabile da tutti, da chiunque condivisibile e accessibile a ognuno al solo riempirsene la bocca, senza il minimo sforzo di coglierne il senso originario.

Il principe Myskin, all’inizio de L’idiota, ci viene presentato come uno scappato di casa. Uno senza un soldo, reduce da un sanatorio in Svizzera e afflitto da un misterioso male di origine nervosa. Cala a Pietroburgo vantando un titolo nobiliare e si insedia in casa Epancin rivendicando una lontana parentela. In breve diventa una specie di giullare picchiatello per le sorelle Epancina e per la madre, la generalessa. Nel peggiore dei casi un approfittatore, nel migliore un idiota. Poi scopriremo –a leggerlo, il libro- che Myskin è un puro di quelli irrimediabili, “un uomo assolutamente buono” come scrive in una lettera lo stesso Dostoevskij, nell’illustrare le proprie intenzioni a monte del romanzo. Uno tanto innocente e ostinato, il principe, da dispensare candore e idealismo a chi imperterrito lo percula e addirittura prova a infamarlo. Così sfigato da dichiararsi a Nastàs’ja Filìppovna – donna dal temperamento tragico, bruciasoldi oltraggiata insanabilmente nell’orgoglio- praticamente al primo incontro. Da confessarle da subito il turbamento provato alla vista del suo ritratto, il riconoscimento dello sguardo: l’Amor.

Con l’avanzare della lettura si rivela un idiota dalla luminosa intelligenza, priva di malizia, e dalla sconfinata empatia: in una parola, Myskin è disarmante. Fa coriandoli del cuore dell’onesta Aglaja Epancina e prosegue il suo carnevale tragico dietro le perversioni di Rogozin e la follia di Nastasja. Pur possedendo tutti i numeri per la salvezza, infatti, il principe sceglie la dannazione. Non la sceglie direttamente, è conseguenza dell’inseguire la bellezza . La frase “La bellezza salverà il mondo” non viene mai pronunciata dal principe, nel testo è Ippolìt che gli si rivolge malevolo e canzonatorio: “E’ vero, principe, che lei una volta ha detto che la bellezza salverà il mondo?”.

È invece vero che la bellezza prende a configurarsi, per Myskin, come un valore controverso sin dalla descrizione della natura svizzera nel primo dialogo in casa Epancin:

Giungemmo a Lucerna e mi condussero sul lago in barca. Comprendevo la sua bellezza, ma, nello stesso tempo, mi sentivo molto oppresso… Provo sempre un senso di pena e di inquietudine, quando contemplo per la prima volta un simile quadro della natura: ne sento la bellezza ma mi riempie di angoscia”.

È altresì vero che quando Aglaja gli chiede civettuola di descrivere la sua bellezza, Myskin risponde: “È difficile giudicare la bellezza; non mi ci sono ancora preparato. La bellezza è un enigma”. E ancora, di Nastasja osserva: “Un viso straordinario! (…) È un viso altero, molto altero, ma non so se sia buona. Ah, se fosse anche buona! Sarebbe la salvezza!”.

Firenze, targa allo scrittore russo

 

Nel cortocircuito bene-bellezza de L’idiota, Dostoevskij inizia a delineare quanto affronterà più compiutamente ne I fratelli Karamazov:

La bellezza è una cosa tremenda e orribile. Non riesco a sopportare che un uomo dal cuore nobile e dall’ingegno elevato cominci con l’ideale della Madonna per finire con quello di Sodoma. Ma la cosa più terribile è che, portando nel suo cuore l’ideale di Sodoma, non rifiuti nemmeno quello della Madonna… Il cuore trova bellezza perfino nella vergogna, nell’ideale di Sodoma che è quello della maggior parte degli uomini“.

E ancora:

“La Bellezza ha in se stessa una potenza salvatrice, oppure anche la Bellezza, divenuta ambigua, ha bisogno di essere salvata e protetta?”.

La bellezza è sempre, pericolosamente prossima alla perdizione. Con molto più mistero che in de Sade, il vecchio Fedor inchioda il principe alla sua bontà, lasciandolo affondare come un marinaio fedele fino al più tremendo e insostenibile finale. Inimmaginabile. Lungi dal pretendere di sezionare l’Idiota in un superfluo e non autorizzato scritto critico, tale precisazione è funzionale al semplice scopo di ribadire che la bellezza, in senso dostoevskijano, dovrebbe far tremare i polsi, turbare, ammutolire o quanto meno abbandonare l’aria ottusamente soddisfatta e ottimista che accompagna chi generalmente cita il principe Myskin senza aver letto il romanzo. L’obiettivo di questo articolo, infatti, ben più presuntuoso e pacatamente delirante, sarebbe arginare il gusto per la “bellezza” come suggestione evanescente e per la cultura-cartonato che la nutre. Rendersi aspirina per la febbre di scemità e i sintomi di un’epidemia di autostima a buon mercato che si manifesta nei luoghi più inaspettati con toni complici ed elitari da vernissage permanente. E dato che non può esservi cura se non a partire dal riconoscimento della malattia: canonizzare una buona volta il complesso di Myskin, ponendolo al pari del bovarismo tra gli atteggiamenti psicologici disfunzionali suggeriti dalla letteratura.

L’elogio del Candide, per qualche bizzarro motivo una delle (poche e omologate) derive di un mondo che per lo più ci vuole “smart” come telefoni e mini-automobili (e non il contrario), fa ingiustamente del principe il corrispettivo maschile della “tendenza Amélie Poulain”: quasi un ventennio, ormai, di glorioso autismo e frangette a cornice. Eppure. Quello che andrebbe spiegato una volta per tutte alle ragazze fieramente ingenue, a quelle che sprofondano la mano nel sacco di legumi e si voltano vispe al cinema per spiare l’espressione degli spettatori, quelle che sciamano felici di buona azione in buona azione. Quello che andrebbe spiegato loro una volta per tutte, è che l’ingenuità, come la bellezza, è pericolosa. E, crimine ben più imperdonabile: alla lunga, annoia. Bisognerebbe prenderle, abbracciarle, guardarle dritto negli occhi e dir loro che la frangetta, così corta, non salverà il mondo e non è nemmeno bella. Quanto ai Myskin, metterli di fronte alle Amélie e chiedere: è davvero questo che volete? La verità a tutti i costi non piace, il candore nemmeno, le ragazze sceglieranno sempre gli Stavrogin. A trovarne. E poi piangere tutti insieme, ma preferibilmente ridere.

La più grande tragedia a conti fatti è che non di protagonisti di Dostoevskij è pieno il mondo, ma dei suoi personaggi secondari, dai tormenti triviali e dall’animo ordinariamente meschino. Pavidi e incolori se tutto va bene. Oppure squallidi, persi in vizi miserrimi o vittime di ostentate virtù: falsi a se stessi e al mondo, ipocriti per sfangarla, malvagi regolarmente e con profitto.

Il più grande spirito russo, miracolo cerebrale di elettricità a grandi sbalzi, tra fughe e fiches, esecuzioni scampate, contratti capestri, amori impetuosi e altri disastri ci ha raccontato una volta e per sempre il mondo, e si può scommettere che nessun novello Myskin ne turberebbe l’ego di scrittore, giacché molto prima e infinitamente meglio di Donatella (Rettore): Dostoevskij non c’è! È la mosca nel salotto delle sorelle Epancina, il quadro appeso all’ingresso dell’appartamento dell’usuraia, la corda a cui si impicca Stavrogin, la polvere sul pastrano del sognatore, il fango, la rivoltella, il samovar. A chi lo ama resta la consolazione di saperlo un supereroe Marvel della letteratura, l’unico con il dono dell’ invisibilità.

E poi, con buona pace degli spiriti eletti, c’è una sola parola che nel vecchio continente e di riflesso, anzi di colonizzato in quasi tutto il mondo resta la stessa a dispetto delle differenze linguistiche. E questa parola non è: bellezza, bello, o alcun suo derivato. Bensì: vino.

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