Canepa, Giraudo, Tribuiani: manuale dell’esordiente per scrittori esordienti

Vladimir Nabokov, in quel capolavoro irripetibile che è Lolita, per bocca di Humbert Humbert proclamava di non essere un poeta, ma solo “un cronista molto coscienzioso”. La figura del romanziere è incappata in diverse e differenti definizioni di sé, alcune, direi io, più azzeccate e lucide di altre, ma quella di Nabokov, o meglio, di Humbert, credo sia quella che meglio descrive i tre autori qui intervistati. Si tratta di esordienti appena affacciatisi sul panorama letterario che, accantonato il disincanto e il romanticismo, ci hanno aiutato ad analizzare verticalmente il mondo dell’editoria contemporanea. Tre esordienti di città, età e professioni diverse. Tre esordienti che hanno pubblicato romanzi dai nuclei tematici e stilistici tanto interessanti quanto lontani, con case editrici per certi versi piuttosto distanti tra loro. Tre esordienti, insomma, che pare quasi non abbiano niente in comune. Eppure, leggendo ciò che ci hanno detto, viene fuori qualcosa di estremamente collegiale. Qualcosa di rarefatto, difficile da acciuffare ma impossibile da ignorare. È la letteratura, è la scrittura, è il coscienzioso cronista di Nabokov che viene fuori.

Emanuela Canepa, romana di nascita e padovana di adozione, con L’animale femmina – Einaudi – ha vinto il Premio Calvino con una storia forte e allo stesso tempo delicata, che procede in punta di piedi dritto al cuore del lettore, lì dove siede per restare.

Gianluca Giraudo è nato a Cuneo, vive e lavora nella Capitale e ha scritto su Mucchio Selvaggio, Minima & Moralia e Nazione Indiana. Quello che non sono mi assomiglia – Autori Riuniti – è il manifesto narrativo di un autore affacciatosi sul mondo letterario con l’intenzione di rimanerci.

Giorgia Tribuiani è di San Benedetto del Tronto, oggi vive a Bologna, collabora con la Bottega di narrazione di Giulio Mozzi e nel 2008 ha pubblicato una raccolta di racconti. Il suo, Guasti – Voland –, è un romanzo intimo e allo stesso tempo universale, qualità che lo rende una perla.


Guardiamo in faccia la realtà: in Italia oggi non si legge. I numeri, purtroppo, parlano chiaro e sarebbe facile prendere per veritiera la frase di Roberto Benigni che, qualche anno fa, proclamava che ci sono più scrittori che lettori; un paradosso tutto all’italiana, oserei dire. Dinnanzi a un panorama tanto sconfortante, cosa ti ha spinto/a a lanciarti nella scrittura?

Canepa:
Sono costretta a darti la risposta più banale: perché ne avevo voglia. Detto questo, credo che il numero degli aspiranti scrittori che si avvia su questa strada con l’idea di fare soldi o guadagnarsi un grande successo di pubblico sia pari a zero. Le statistiche, come ben dici, sono universalmente note, e se la tua motivazione è quella, cerchi strade alternative. Quindi in fondo non credo che i due fenomeni siano correlati.

Giraudo:
Dopo la pubblicazione mi sono visto rispondere a questa domanda in modi diversi, tutti ugualmente attendibili. C’è stato sicuramente il desiderio di dare forma a una serie di accadimenti, sensazioni ed elaborazioni mentali maturati dentro di me, ma insieme all’urgenza espressiva sono intervenute anche motivazioni pratiche. Da tempo mi piace seguire il mondo dei libri, anche nei suoi lati più mondani, come i premi: volevo provare a fare un passo in questo mondo, e non solo in qualità di lettore.

Tribuiani:
Scrivere per me è sempre stato un’urgenza, ha sempre rappresentato non solo la condivisione di uno sguardo sul mondo ma lo sguardo stesso: attraverso la finzione, molto spesso, ho avuto l’impressione di focalizzare meglio le cose che mi accadevano intorno, di riuscire a guardare le mie ossessioni, di trovare al dolore – come dice la protagonista del mio romanzo Guasti – “un senso e una posizione; una giustificazione”. Vivere di scrittura, lo so, è improbabile, ma so anche che le mie motivazioni sono più profonde.

Parliamo, per cominciare, del tuo tuffo nel mare magnum narrativo. Con il tuo esordio ti sei affacciato/a sul mondo editoriale con un piano preciso, prestabilito ed escogitato, scegliendo una strada piuttosto che un’altra, o hai visto un’occasione e l’hai colta? Voglio dire, avevi intenzione di tentare la carriera autoriale o è stato un caso?

Canepa:
Onestamente non saprei dirti in cosa potrebbe consistere, nella scrittura, quello che tu chiami “un piano preciso”. Quindi la risposta per quel che mi riguarda credo sia “no”. Conoscevo la fama del premio Calvino, mi sono iscritta, è andata bene.

Giraudo:
Non è stato un caso, ma allo stesso tempo sentire parlare di “carriera autoriale” mi fa sorridere. Quando ho iniziato a scrivere sapevo di voler pubblicare, ma ho anche sempre lavorato e così ho deciso di rispettare i miei tempi, di trascurare o al contrario intensificare il lavoro sul manoscritto, di lasciare che la storia lievitasse un po’ alla volta. Non c’è stata una strategia chiara a guidarmi: l’unica, se vogliamo, è stata la scelta del romanzo. Mi sentivo e mi sento vicino alla forma del racconto, ma esordire con una raccolta di racconti presenta più rischi.

Tribuiani:
Mi sono presentata a Voland con due romanzi: Guasti, appunto, e Blu, scritto durante l’anno in cui ho frequentato la Bottega di narrazione di Giulio Mozzi, scuola di scrittura con cui adesso collaboro. Forse parlare di “piano” è estremo, ma la risposta alla tua seconda domanda è certamente la prima: cercavo un editore pronto a scommettere su di me, sapevo che i miei due romanzi erano in linea con il catalogo di Voland e desideravo iniziare un percorso.

Quale credi che sia il modo migliore per arrivare alla pubblicazione? Cercare un agente letterario, bussare alle porte degli editori, in maniera più o meno indiscriminata, o tentare i concorsi a premi – che paiono aumentare di anno in anno – ?

Canepa:
Il modo migliore per arrivare alla pubblicazione, tanto per cominciare, è scrivere qualcosa che vale la pena di essere pubblicato. Se sei sicuro di averlo, e conosci qualcuno ben introdotto nel mondo editoriale, è un ottimo inizio. Se non ce l’hai, il premio Calvino rappresenta sempre l’occasione migliore di farsi conoscere da tutti gli editori italiani. E quando dico tutti, intendo tutti.

Giraudo:
Se parliamo di un esordio, a mio avviso il modo migliore è non avere fretta. Sembra retorico, ma per avvicinarsi alla pubblicazione è bene armarsi di una grande forza di volontà per lavorare e rilavorare sul manoscritto, pretendendo sempre di più da se stessi. Sono convinto che se il manoscritto vale qualcosa, il suo momento arriverà. Sugli agenti, per quel che ne so, bisogna rivolgersi ai migliori che però tendono a occuparsi soprattutto di chi ha “superato” la prova dell’esordio. Sui concorsi sono tragicamente disinformato, ma credo siano di estrema utilità per esordire.

Tribuiani:
L’idea che mi sono fatta è che non ci sia un canale migliore di altri, ma che per ogni canale (agenzie, scuole di scrittura, concorsi ecc.) sia necessario distinguere tra le reali opportunità e le proposte prive di sostanza. Voglio dire: ci sono bravi agenti e pessimi agenti, così come ci sono premi letterari prestigiosi e concorsi dimenticabilissimi. Personalmente ho incontrato Daniela Di Sora grazie agli incontri di scouting letterario organizzati nell’ambito del festival “L’anno che verrà: i libri che leggeremo”.

Quanto è durata la gestazione del tuo romanzo? Potresti operare una divisione tra la prima stesura, la seconda e quella su cui hai lavorato a fianco del tuo editor?

Canepa:
Ho scritto L’Animale Femmina mentre lavoravo, non potendogli dedicare quindi più di tre o quattro ore a settimana. La stesura dalla prima sinossi al testo definitivo che ho spedito al Calvino mi ha preso poco più di tre anni. Dopo la firma del contratto con Einaudi è partito il processo editoriale – editing e correzione di bozze – che è durato all’incirca altri quattro o cinque mesi.

Giraudo:
Le gestazione di Quello che non sono mi assomiglia è durata circa due anni. Ho iniziato a scrivere nell’estate del 2015 e il libro è andato in stampa alla fine dell’estate 2017. Il 2016 è stato un anno intenso, iniziato con la scrittura e il contatto con alcune case editrici e conclusosi con un caffè “decisivo” insieme ad Alessio Cuffaro, il mio editor di Autori Riuniti. Di lì in poi ho iniziato con lui la stesura definitiva.

Tribuiani:
La prima stesura è durata quattro mesi, e da lì la trama è rimasta pressoché identica. Ho dedicato però altre quattro stesure allo stile: con la seconda, avvenuta nel corso dello stesso anno, mi sono concentrata sul lavoro di “sottrazione” (ho eliminato gli orpelli, le ridondanze); la terza, due anni dopo, è seguita a una lunga chiacchierata telefonica con Giulio Mozzi e al suo consiglio di calcare la mano sul discorso indiretto libero; infine, dopo aver scritto Blu, sentendo di avere una lingua un po’ più efficace, ho deciso di riscrivere tutto per la quarta volta. Includendo il lavoro di editing – e non considerando la stesura di Blu e di un altro romanzo inedito, su cui però c’è ancora molto da lavorare – potrei dire che la gestazione è durata sei anni.

Qual è stato il rapporto instauratosi con il tuo editor? Vi siete trovati sulla stessa lunghezza d’onda fin da subito o hai avvertito il cosiddetto taglia e cuci editoriale come una violenza?

Canepa:
La mia editor in Einaudi è Rosella Postorino, una scrittrice e una professionista verso la quale ho un rispetto che sfiora la venerazione, al punto che mi imbarazza parlarne perché immagino di suonare eccessiva. Rosella ha molti talenti. Il Taglia e cuci editoriale è una pratica che non si è mai sognata di impormi. Mi dice con assoluta chiarezza cosa pensa, e non tergiversa su quello che non la convince. Ma detto questo, il suo rispetto per le scritture altrui è assoluto. Non mi sono mai sentita soverchiata né sopraffatta dalle sue indicazioni. Al contrario mi ha aperto gli occhi su una serie di mie debolezze o ingenuità strutturali in modo prezioso.

Giraudo:
Dal primo momento Alessio mi è parso molto preparato ed esigente. Oltre a questo, si è rivelato anche paziente e comprensivo. Per iniziare mi ha consigliato delle letture rivelatesi ottime per migliorare la “voce” e affinare il messaggio del libro. Nel corso dei mesi di editing è stato presente e puntuale, ha lodato i buoni risultati e stroncato quanto non funzionava, lasciandomi sempre la libertà di sperimentare e puntare in alto. Sono stato fortunato.

Tribuiani:
Ho lavorato direttamente con Daniela Di Sora ed è stata un’esperienza bellissima. La cosa che più mi ha colpito è stata la sua capacità di entrare nel mio immaginario, ma anche per quanto riguarda la lingua ho ricevuto solo consigli in grado di mettere in risalto le mie scelte stilistiche (le torsioni sintattiche, l’uso della punteggiatura o le variazioni repentine tra prima, seconda e terza persona) e mai proposte mirate a “normalizzarle” o a costringerle in una linea editoriale rigida.

Soffermiamoci adesso sul tuo stile, sulle tematica che tratti e sulla tua scrittura in senso lato. Qual è il nucleo attorno a cui si intreccia la tua narrativa? Vuoi raccontare qualcosa in particolare?

Canepa:
Storie. Voglio raccontare storie. E, se possibile, raccontarle bene. Lo ribadisco perché temo molto il rischio di farmi sopraffare dal messaggio. E siccome da lettrice detesto lo scrittore che tenta di indottrinarmi, cerco di non macchiarmi della stessa colpa.

Giraudo:
Penso che nel mio libro sia cruciale il discorso dell’identità, dell’insieme di scelte, azioni e processi che fanno di una persona una certa persona. Mi interessa anche molto la ridefinizione dei ruoli famigliari e delle relazioni sociali. Infine c’è il rapporto tra realtà e rappresentazione: in che misura abbiamo a che fare con una realtà e in che misura con una molteplicità di sue rappresentazioni, una molteplicità di punti di vista? Se c’è una domanda intorno cui ruota Quello che non sono mi assomiglia, è sicuramente questa.

Tribuiani:
C’è una frase di Antonin Artaud a cui sono molto legata e che ho usato come esergo per Blu; dice: “Credo che da me venne fuori un essere, un giorno, che pretese d’essere guardato”. Io penso che gran parte di ciò che ho scritto, Guasti incluso, parli di sguardi. Quello dell’uomo sul mondo, quello dell’uomo su se stesso e quello del mondo sull’uomo. E quest’ultimo, forse, viene cronologicamente prima degli altri due: alla base di tutte le scelte di Giada, alla base di quello “stato mentale”, per citare Kosinski, che regola il suo rapporto con il mondo esterno e con sé stessa, c’è il suo dolore per non essere mai stata guardata, compresa, ascoltata. C’è la festa di compleanno osservata da dietro il vetro. C’è il sentimento per l’unico uomo che, pur nel suo modo imperfetto, così come imperfetto è il vero amore, sia stato in grado di vederla.

La tua scrittura affonda le radici nel tentativo di illuminare una determinata realtà o credi invece che la letteratura abbia un ruolo principalmente di svago? Insomma, pensi che, specie considerando il periodo in cui ci troviamo a vivere, dal punto di vista sociale e politico, la letteratura abbia un ruolo particolare o che dovrebbe rivestirlo?

Canepa:
Penso che esistano tante letterature quanti sono gli scrittori, o forse addirittura quanti sono i libri, e che non ha senso trattarla come fosse una monade capace di operare in una sola direzione. La letteratura può fare poco o moltissimo, tutto o niente, divertire o convertire, cambiare il mondo o alimentare il camino. La sua grandezza, ringraziando Dio, sta anche nell’impossibilità di rinchiuderla in una definizione.

Giraudo:
Qui è bene distinguere quanto credo che la letteratura sia tenuta a fare e quanto credo sia proprio della mia scrittura. Sul primo fronte, mi limito a citare Nadia Terranova che, in un articolo che mi è capitato di rileggere a più riprese, dice che la letteratura “non ha il dovere di farci essere più buoni, più comunisti, più femministi. Più non vorrà farlo, più c’è speranza che migliori il mondo”. Sul secondo, c’è stata sicuramente da parte mia la volontà di indagare una determinata area, quella dell’identità, dando voce a personaggi desiderosi di risolvere una questione, superare un limite, trovare un equilibrio o darsi una definizione. Non so se l’ho fatto bene, motivo per cui se il romanzo può servire anche da svago, ben venga.

Tribuiani:
A me, personalmente, la comunicazione di qualcosa che ho a cuore interessa molto più del puro divertissement, sia come lettrice sia come autrice, e penso che il ruolo della letteratura non possa limitarsi al semplice svago. Potrei sottoscrivere la metafora con cui David Foster Wallace paragona l’intrattenimento alle caramelle, che offrono un gusto immediato ma non saziano, non curano il corpo, a differenza della buona letteratura che può provocare un godimento magari meno immediato ma rappresentare un vero nutrimento per la persona. Quanto all’impegno sociale, penso che la buona letteratura faccia la sua parte anche quando non parla strettamente di attualità: un libro capace di aprire la mente può fare a volte più di un libro esplicitamente “impegnato” nella politica e nel sociale.

Parlando di stile e trama, lavorare con un editor ha cambiato in qualche modo il tuo approccio con la scrittura? Adesso, davanti alla pagina bianca, ti poni diversamente rispetto a quando hai messo su il tuo primo romanzo?

Canepa:
Sicuramente. Un editor che non ti insegna niente non ha fatto un gran lavoro, a mio parere.

Giraudo:
Quello che non sono mi assomiglia è la prima cosa che ho scritto, non ho un’esperienza tale da potermi esprimere compiutamente su questo discorso. Di certo, ora che sto scrivendo nuovamente cerco di fare tesoro della mia “prima volta” con un editor, senza lasciare però che questo incida sul desiderio di sperimentare o percorrere nuove vie. Nonostante mi imponga di migliorare, resto alquanto indisciplinato davanti alla pagina bianca: per mettere ordine ci sarà tempo.

Tribuiani:
Da quando ho lavorato all’editing di Guasti ho scritto ancora troppo poco per poterlo dire, ma immagino che la risposta sia negativa. Il mio modo di lavorare al testo prevede una prima stesura grezza, sulla quale tornare necessariamente con un lavoro successivo di rifinitura e sottrazione: non credo che potrei mantenere il grado di attenzione al dettaglio che viene richiesto durante l’editing. Al contrario, quel tipo di esperienza potrebbe influire sul lavoro di revisione.

Libertà reale e libertà apparente, il tuo romanzo pare poggiare i piedi su questi due pilastri della vita di ognuno. Credi che le gabbie in cui viviamo, e di cui ci accorgiamo in misura più o meno estesa, ci servano a non farci sentire persi in un mondo desolante? E, parlando sempre di libertà, quale credi che sia il grado di autonomia di ognuno? Voglio dire, viviamo in un mondo zeppo di regole e alcune, certe volte, sono delle prigioni; prigioni imposte dalla società, dalla famiglia, dai partner. Pensi che queste ci diano una buona libertà di movimento e che, in qualche modo, paradossalmente ci servano e ci aiutino a non sentirci soli?

Canepa:
Senza dubbio le gabbie sono funzionali al carceriere così come alla vittima. Se così non fosse liberarsene sarebbe facile e scontato, e invece non lo è. E probabilmente hai ragione anche sull’ultimo punto: in mancanza di meglio la gabbia fa compagnia, e aiuta a sopportare la solitudine. Del resto la libertà non è mai gratuita.

I tipi umani del tuo romanzo devono vedersela con la scomparsa di una persona a loro cara, seppur in modi e con intensità differenti. È un’assenza pesante, quella che descrivi, un silenzio improvviso che pare faccia più rumore di un fiume di parole. Un vuoto che riempie fino a far esondare tutto, fino a far venire a galla ogni cosa. La società in cui ci troviamo a vivere ha il potere di estraniare, ci fa sentire soli pure in mezzo a molti e a volte persino invisibili, quasi fosse capace di annullarci. Perché credi che sia necessaria una mancanza per farci fare i conti con qualcosa o qualcuno che avevamo accanto? Pensi che, una volta abituatici alla bellezza, perdiamo la capacità di vederla veramente?

Giraudo:
Nel romanzo l’assenza è funzionale ai personaggi per interrogarsi su se stessi. Chi più chi meno, sono tutti schiacciati da incombenze, insofferenti alle convenzioni della vita adulta e inadeguati dal punto di vista sentimentale. Sono tutti troppo “presenti”. In questo quadro, l’assenza indica una via, che per alcuni può sembrare di fuga e per altri di “inizio”. Ignacio se n’è andato e nel farlo lo ha comunicato a tutti: la sua è stata una decisione consapevole. Allontanandosi dalle sue “conoscenze”, si è avvicinato a qualcos’altro: dipende dal punto di vista.

Nel tuo romanzo il tema della solitudine è centrale. Una solitudine più emozionale che fisica, che affonda le proprie radici in un senso d’inadeguatezza, forse anche d’inferiorità, che sgretola la sfera affettiva della protagonista e acuisce in lei l’idea di essere “sbagliata”. Il senso di colpa, connaturato in ognuno – o quasi – di noi, che ci spinge a non sentirci all’altezza di qualcuno o di qualcosa è un muro difficile da superare. È un nemico agguerrito, un mostro che spesso siamo noi stessi a creare. Come credi che ci si possa accorgere di averlo davanti ai propri occhi e quale credi che sia il modo migliore di scavalcarlo – ammesso che sia questa la soluzione, secondo te – ?

Tribuiani:
Quando potrò rispondere in modo certo e definitivo a questa domanda, una parte della mia ricerca sarà probabilmente giunta al termine: basti pensare che Blu, il mio secondo romanzo, è la storia di una ragazza che soffre del disturbo ossessivo-compulsivo, le cui giornate sono occupate in grandissima parte dalle azioni che deve compiere e ripetere per espiare le proprie presunte colpe. Le mie protagoniste, come hai giustamente notato, sono persone che creano autonomamente i mostri con cui sono poi chiamate a combattere. Nel caso di Giada il vero nemico non è il compagno che ha messo l’arte al di sopra dell’amore, non è il Dottor Tulp che l’ha plastinato, né il collezionista che l’ha acquistato: il vero nemico è la proiezione che Giada ha creato di sé, quella che le ha chiesto di mettersi sempre al secondo posto, di brillare di luce riflessa, di guardare il proprio uomo dal basso anche nel momento in cui lui non è più. Ecco, Giada si accorge dell’errore quando il cadavere plastinato (prima) e il vigilante (poi) iniziano a farle da specchio; Blu quando a farsi specchio è una nota performer. Provvisoriamente, quindi, potrei rispondere questo: possiamo accorgerci della nostra condizione quando smettiamo di guardarci con i nostri occhi, con lo stesso sguardo di sempre, e cominciamo a farlo con quelli di chi ci è accanto. Per quanto riguarda i modi di scavalcare il nemico, invece, purtroppo al momento non ne conosco. Penso, ipotizzo, forse spero, che l’arte possa essere almeno uno strumento per “usarlo”.

Per concludere.
Che consiglio daresti a un giovane che vorrebbe tentare questa carriera e che è a caccia di un editore? Un consiglio pratico e uno teorico, per così dire.

Canepa:
Come dicevo sopra, a meno di non avere delle conoscenze, farsi leggere in ambito editoriale non è facile visto il soverchiante numero di aspiranti scrittori. Per questo un concorso con il prestigio del Calvino offre davvero tante opportunità. Per me resta la via regia di accesso al mondo editoriale italiano.

Giraudo:
Come dicevo su, la cosa più importante è darsi del tempo. In Scompartimento per lettori e taciturni (consiglio pratico: leggetelo) Grazia Cherchi porta esempi di narratori che hanno esordito a quaranta, cinquanta, sessant’anni. Bisogna investire nella scrittura senza farsi travolgere dal “tutto e subito”, allenarsi (consiglio teorico) ad aspettare, a lavorare per migliorare e a lasciarsi sorprendere: da se stessi e dall’interesse di editori, riviste e concorsi.

Tribuiani:
Il consiglio pratico è di evitare l’errore più frequente, che è quello di inviare il proprio romanzo indiscriminatamente a tutti gli editori, e di studiare invece i cataloghi, le linee editoriali, cercando di capire quali possano essere gli interlocutori interessati. Provare a conoscere il mondo nel quale si vuole entrare è sempre utile, dallo studio del lavoro di agenti e consulenti a quello dei premi letterari più prestigiosi, fino all’eventuale iscrizione a scuole di scrittura creativa. Il consiglio teorico è di ricordare sempre che ogni autore ha la sua personalissima strada e che ogni strada è fatta anche di fallimenti. Conviene metterli in conto – perfino Stephen King collezionava lettere di rifiuto, e aveva iniziato ad appenderle a un chiodo – sforzarsi di imparare dalle critiche costruttive e ricordare che un professionista è un dilettante che non ha mollato.

Ci sono degli autori o delle letture che ti hanno influenzato/a particolarmente?

Canepa:
Una quantità innumerevole e in continuo mutamento, a seconda dei tempi e degli accidenti della vita.

Giraudo:
Su tutti Yasmina Reza, che senza esitazioni ho citato in epigrafe. E poi Richard Ford, Annie Ernaux, Elsa Morante, Emmanuel Carrère, Francesco Piccolo e Han Kang. In quest’ordine direi.

Tribuiani:
Per l’immaginario sono debitrice alla letteratura russa e a quella mitteleuropea, mentre dal punto di vista della lingua uno dei miei principali modelli è Thomas Bernhard, seguito da due autori che ho letto piuttosto di recente: Witold Gombrowicz e Salvador Elizondo. Tra gli italiani mi preme citare Giulio Mozzi, che oltre a essere il mio Maestro è l’autore della raccolta di racconti Il male naturale, libro che mi ha fatto capire cosa volessi raccontare davvero e cosa significasse per me la scrittura. Infine, poiché ho un debito anche nei loro confronti, non posso non menzionare la letteratura horror – durante l’adolescenza, partendo dai romanzi di Stephen King, mi sono immersa completamente nei testi di Poe, Lovecraft, Bloch, Stoker e via di seguito – e le influenze derivanti da altre arti, come il fumetto e il cinema. Artisti come Lynch, Polanski, Kieslowski, Tarkovskij e Von Trier sono stati indispensabili per il mio immaginario.

Progetti futuri? Stai lavorando a qualcosa?

Canepa:
Conto di finire la prima bozza del secondo romanzo per la fine di gennaio. Non ho idea però se piacerà al mio editore, e se o quando verrà pubblicato. Del tema preferirei non parlare perché, come dice Elisabeth Strout, autrice immensa, raccontare la storia di un libro che stai scrivendo è come bucare un palloncino con uno spillo.

Giraudo:
Dopo Quello che non sono mi assomiglia ho buttato giù diverse idee e scalette, poi accantonate. Nelle ultime settimane sto lavorando finalmente a una storia che mi motiva e il cui titolo molto provvisorio è Seratina. Avevo voglia di un titolo semplice.

Tribuiani:
A breve dovrei riprendere in mano il romanzo Blu, di cui ho solo una prima stesura, e cominciare a lavorarci: tengo particolarmente a questa storia, che come accennavo presenta un po’ tutti i miei temi (il desiderio di perfezione, il bisogno di essere guardati, la colpa) e in qualche modo approfondisce i discorsi iniziati con Guasti. Nel frattempo ho scritto un paio di racconti per delle antologie e iniziato a lavorare a un’altra storia: al momento è a uno stadio ancora embrionale, ma ho molta voglia di scriverla e di questo sono contenta.

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