Costruire un altro mondo possibile | Intervista ai Calibro 35

In occasione dell’uscita di Decade, disco di inediti che “celebra” il compleanno della band, abbiamo raggiunto i Calibro 35 per una chiacchierata sul nuovo lavoro, tra architettura, musica afro, musica colta, ricerca dei suoni, Emilio Salgari e gli AREA di Demetrio Stratos .

Decade è, per chi scrive, il disco più eterogeneo, complesso e importante che abbiate mai realizzato. Qual è la genesi che ha condotto alla sua realizzazione?

Ad un certo punto ci si è accorti che si stavano approcciando i dieci anni di vita di Calibro e come è naturale si sentiva la necessità di ricapitolare tutte le cose successe. Un po’ semplicisticamente si era ipotizzato di re-incidere il materiale di Calibro che ci rendeva più orgogliosi con una formazione espansa che era un sogno che tenevamo nel cassetto. Mentre si pensava di fare tutto ciò però ci siamo detti “Sarebbe molto più bello e stimolante prendere tutto quello che questo percorso ci ha insegnato e metterlo dentro un disco nuovo al 100%”. Festeggiare il percorso fatto attraverso quello che abbiamo imparato, non fermandosi alle singole tappe. Per questo forse suona vario e vasto, perché è un disco che racchiude altri cinque dischi, tre colonne sonore, infiniti concerti e tanta musica fatta per i motivi più disparati.

Decade fin dalla copertina, dai titoli di molti pezzi come SuperStudio e Archizoom in primis che richiamano le esperienze avanguardistiche di due studi fiorentini sul finire degli anni sessanta, ma anche Modulor dalla scala di proporzioni creata da LeCorbusier è un disco molto legato all’architettura. Come nasce questo interesse?

Nasce dalla fascinazione iniziale per un immaginario grafico e visuale bellissimo che è stata l’esca che mi ha portato ad approfondire l’argomento. Da li ho “scoperto” i concetti e gli intenti che c’erano dietro e hanno dato le mosse a quel movimento. Penso che una certa attitudine che voleva combinare passato e futuro in maniera utopica e radicale ci appartenga molto. Una visione per cui “un altro mondo è possibile”, basta volerlo e lavorare per costruirselo. E nel nostro piccolo è quello che abbiamo cercato di fare in questi dieci anni che ci hanno portato a partire con gli strumenti sulla mia FIAT alla volta del Belgio per un concerto con venti persone nel gennaio 2008 e ci ha fatto ritrovare con 1400 persone al concerto di Milano la settimana scorsa.

In questo disco c’è un richiamo molto forte alla musica africana soprattutto l’afrobeat di Fela Kuti e Tony Allen che fu il tentativo di coniugare certa musica leggera occidentale con aspetti peculiari di quella nigeriana. Come nasce questa vostra operazione di recupero e come vi rapportate all’idea di musica come elemento di lotta politica?

In maniera molto naturale. In modi diversi tutti noi ci siamo individualmente interessati negli ultimi anni alle varie declinazioni della musica afro che è un bacino enorme, molto definito e definibile da un lato ma anche molto ricco di contaminazioni al tempo stesso. Proprio questa duttilità credo renda la musica afro affascinante per persone molto diverse. Senza forzatura o intenti strategici a prescindere la cosa trapela nel disco e non a caso i pezzi in cui c’e’ una radice afro sono scritti da persone diverse: Psycheground da Enrico, Modo da Massimo, Pragma da Luca.

Per Gabrielli. La musica che per semplicità definiamo colta fa da sempre parte del tuo bagaglio culturale. Il progetto 19’ 40’’ con De Gennaro è una delle cose più interessanti degli ultimi anni per l’approccio mai passivo che avete con le partiture più interessanti del secondo novecento e non solo. Sul fronte “leggero”, invece, da Dall’alto, a sinistra del Leccio che, di fatto, costituiva l’ossatura e la grande scenografia sonora di E’ solo febbre degli Afterhours fino alle orchestrazioni di Fantasma dei Baustelle per giungere a quest’album: il tuo approccio cambia in relazione alla partitura con cui ti confronti e alle influenze che l’hanno generata secondo un’ottica di fedeltà o si modella sull’effetto che vuoi ottenere?

A mio avviso, la caratteristica principale della musica scritta è l’imperturbabilità. Quando suoni qualcosa di scritto deleghi una parte importante della responsabilità della comunicazione con il pubblico, mentre quando sei libero da quel vincolo è tutto in mano all’esecutore che si fa anche principale medium dell’efficacia del senso di ciò che stai facendo.

Ecco perché i musicisti classici di fronte al pubblico si pongono (apparentemente) sobri, freddi e tecnici: proprio perché loro sono dei semplici tramiti di una partitura, di un pensiero compositivo altrui. È come se dicessero “noi facciamo il possibile per farvi capire questa musica, e se non capite è un vostro problema“. Quando invece suoni una cosa senza uso di spartiti, che magari è tua, e in un luogo informale, il musicista tende a comportarsi nella maniera più colorita, gestuale o anche arrogante possibile.

Se hai la possibilità di muoverti attraverso questi estremi, serve calibrare (scusate il bisticcio) in base al contesto, alle persone coinvolte e a ciò che vuoi rappresentare. Per me è sempre così, è sempre un po’ cercare di capire il “come”, il “dove” e il “perché” e non solamente “questo sono io, pigliatemi così come sono”. Costante che coinvolge anche il bravissimo Sebastiano De Gennaro o l’altro eccezionale musicista presente in formazione nel DECADE tour: Beppe Scardino (non dimenticate questo nome).

In questo lavoro c’è una grande attenzione nell’uso della strumentazione soprattutto quella meno convenzionale: il Waterphone, il Balafon e il Dan Bau. Che rapporto avete con il patrimonio musicale lontano da quello occidentale? È l’incontro con diverse culture e la varietà degli strumenti musicali che le caratterizzano a spingervi verso un certo approccio di ricerca musicale oppure è proprio la ricerca di strade nuove che vi spinge alla scoperta di territori musicali meno esplorati?

Penso sia diverso per noi. La sperimentazione e l’utilizzo di timbri particolari è in realtà una delle componenti fondamentali di una certa produzione di colonne sonore e credo che il genio assoluto dell’argomento sia stato Ennio Morricone che con i suoi western ha proprio stabilito un nuovo modo, atipico e poco convenzionale, dell’utilizzo a fine comunicativo dei timbri. Per cui molte persone si ricordano “il fischio di Morricone”,  “l’armonica di Morricone”,  “lo scacciapensieri di Morricone”,  “il carillon di Morricone” … anche più delle melodie che questi strumenti eseguivano. E nelle sue colonne sonore lo stesso tema è eseguito da strumenti diversi a seconda del mood della scena, è il timbro che cambia a seconda dell’emozione da comunicare, non il tema musicale. Ecco in breve credo che noi siamo figli un po’ di questo e un po’ di Salgari che descriveva storie nella foresta nera dal suo studio di Genova.

All’interno dei Calibro 35 è affascinante la presenza di Tommaso Colliva che richiama davvero la stagione dei produttori illuminati. Viene accreditato come “suoni e ricerca”. Ci piacerebbe se spiegaste più nel dettaglio il suo ruolo all’interno delle dinamiche della band.

Anzitutto ringrazio, un filo imbarazzato del sentirmi chiamare illuminato e forse non dovrei rispondere io a questa domanda ma provo a farlo. Calibro nasce da un’idea, da un “perché non proviamo a fare questa cosa”. Per farla “questa cosa” ci vogliono tanti ingredienti, tanti pezzetti che costruiscono un puzzle e ogni pezzo dev’essere unico e ben sagomato ma far anche parte di una certa progettualità. Ecco io credo di fornire la mia capacità nel sagomare alcuni di questi pezzetti in studio producendo fisicamente i dischi – esattamente come ogni musicista ci mette del suo – e anche di avere alcune buone idee su come metterli assieme per costruire qualcosa di bello che sia maggiore della somma delle parti che lo compongono. Nel corso degli anni l’idea iniziale si è evoluta e sviluppata e ognuno di noi ha contribuito e contribuisce a Calibro. È una delle cose più belle e che mi ha arricchito di più in questo percorso ma c’é sempre il bisogno di qualcuno che tiri le fila e allora arrivo io, un po’ da bidello, che metto a posto i banchi.

Il collettivo, la strumentazione, la ricerca della perfezione, l’uso degli organi e dei fiati, l’interesse verso la forma colta e l’architettura, ancora la figura di Tommaso Colliva come un nuovo Gianni Sassi. È facile associarvi per molti aspetti agli AREA. È un paragone che evitate, che sentite inappropriato o percepite una continuità rispetto a quella grande stagione musicale?

Usando un super cliché mi verrebbe da dire che siamo tutti nani sulle spalle dei giganti ma credo davvero sia vero e sensato pensarlo. Musicalmente e artisticamente la stagione degli anni ’70 è stata ricchissima di idee, spunti, scintille di enorme valore. Parlavamo prima della fucina di idee che fu Firenze con SuperStudio, Archizoom e 999. Alcune di queste idee si sono rivelati semi germogliati in seguito, altri semplici spasmi, altre ancora conati di qualcosa che non si è mai realizzato. Credo l’esempio degli Area e di Sassi – che mi inorgoglisce infinitamente – sia molto calzante e appropriato proprio perché era un progetto che bilanciava esigenze comunicative e alto livello di ricerca in un modo atipico e fuori da alcuni schemi pregressi. Con tutto questo mi ci ritrovo assai e ringrazio di cuore sperando che Calibro sarà all’altezza di cotanto paragone.

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