È il momento di riascoltare Crêuza de mä di De André

In un’epoca che ama dissacrare il mare e i suoi figli naviganti e migranti, Crêuza de mä è il disco perfetto per raccontare il viaggio in mare, il suo strazio, la sua fatica, il suo orizzonte di fuga possibile. Pubblicato da Fabrizio De André nel 1984, interamente composto in lingua ligure, Crêuza de mä è una collezione di smarrimenti e navigazioni, un inseguimento alla ricerca della terra e di un attracco che scongiuri il naufragio. Un’invocazione a questo mare aperto, al suo orizzonte, ai diseredati della terra dispersi tra i sogni e le utopie del Mediterraneo.


Crêuza de mä

E ‘nt’a barca du vin ghe naveghiemu ‘nsc’i scheuggi
emigranti du rìe cu’i cioi ‘nt’i euggi

Nel dialetto genovese la crêuza è un piccolo viottolo del paesaggio collinare ligure; il percorso che canta De André è quello del mare, la crêuza del mare. Spesso tradotto come mulattiera di mare, dove per mulattiera intendiamo una strada o un sentiero impervio, Crêuza de mä è il primo pezzo del disco di Faber e anche il titolo dell’album, l’inizio del viaggio, delle peripezie dei naviganti in partenza. I viaggiatori nel mezzo del mare vedono la luna nuda (“l’ûn-a a se mustra nûa“), senza neanche l’ombra di un paesaggio, una collina o una montagna, mai nascosta e sempre presente come unico riferimento e radice di un viaggio privo di divinità.

Crêuza de mä ha come suo scopo quello di fare una specie di sintesi di quelli che sono le voci, i fonemi, i suoni mediterranei“, e sarà Mauro Pagani della PFM ad aiutare Fabrizio a fondere questi suoni mediterranei e i suoi strumenti (lo oud arabo, il saz turco e il bouzouki greco) con il dialetto genovese, che poi nell’idea di De André è un miscuglio di influenze e di incontri fonemici mediterranei. Luogo di incontro dei marinai viaggiatori in questo episodio che segna l’inizio del viaggio dell’album, è la Taverna dell’Andrea, dove per un attimo si respira il sentimento della terraferma e ci si ubriaca, una sosta per dimenticare quanto sia faticoso riconsegnarsi al mare. Ma anche quanto sia bello perdersi per un attimo tutti insieme nel vino.


Jamin-a

Lengua ‘nfeugä, Jamin-a
lua de pelle scûa
cu’a bucca spalancä

Per usare le parole dello stesso Fabrizio, Jamin-a è “la speranza di una tregua, di fronte a un possibile mare forza otto, o addirittura ad un naufragio“, incarnata in questa donna posseduta da straordinario erotismo che ogni marinaio o navigante spera di incontrare nel suo viaggio per concedersi un attimo di pace, una sosta dalle peripezie del mare. Jamin-a, contrariamente a quanto qualcuno ha narrato, non è una prostituta come quella di Via del Campo, è più simile a una Bocca di Rosa che fa l’amore per passione.

E così la canzone usa un linguaggio diretto, parla di “lingua infuocata” e “getto di fica sazia“: dietro il dialetto genovese – a tratti incomprensibile, perché De André recupera anche alcune parole di più antica tradizione – si nasconde il ritratto erotico di una “sultana delle bagasce“. Questi naviganti dispersi e senza pace coltivano il privato sogno dell’incontro carnale: lasciata terra e porti, parenti e famiglie, non c’è altro da fare che confidare nell’avvenire di una tregua.


Sidún

ciao mæ ‘nin l’eredítaë
l’è ascusa
‘nte sta çittaë
ch’a brûxa ch’a brûxa

Il Mediterraneo è un incontro di storie, di mondi, ma anche di guerriglie. Quando Fabrizio compone questo disco ci troviamo in piena guerra civile libanese, e Sidùn (Sidone) è la città del Libano teatro di violenti scontri che fecero vittime soprattutto tra la popolazione civile, che all’epoca annoverava un numero sempre crescente di rifugiati palestinesi.

Me la sono immaginata, dopo l’attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come un uomo arabo di mezz’età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato“.

De André invocando il Libano invoca l’antica popolazione dei fenici, inventori dell’alfabeto. E così per mare si incontrano anche le storie della tragedia, l’altro volto dell’umanità, i “cacciatori di agnelli“, le città che bruciano, le città che annegano, e il dolore straziante dell’uomo vittima. La “piccola morte” – di cui parla De André, è una storia troppo spesso quotidiana, così quotidiana da non essere più nemmeno tanto piccola. Meravigliosa anche musicalmente, Sidùn è il canto della forza, l’eterno grido umano contro il destino.


Sinán Capudán Pasciá

Intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu tundu
che quandu u vedde ë brûtte u va ‘nsciù fundu

Con Sinán Capudán Pasciá Faber ci fa fare un piccolo viaggio nel tempo, fino alle avventure del navigatore genovese Scipione Cicala, catturato in battaglia dalle navi turche nel Cinquecento, e messo di fronte alla scelta dell’abiura della fede o la morte. Scipione sceglie di convertirsi all’Islam, e da qui parte una vera e propria scalata al potere che lo fa arrivare a ottenere la carica di Gran Visir, prendendo il nome di Sinán Capudán Pasciá. Tutto è racchiuso nel verso, “giastemmandu Mumä au postu du Segnü / bestemmiando Maometto al posto del Signore“.

Sinàn Capudàn Pascià è la canzone di un arrivista, un arrampicatore sociale“, ma anche in questo caso Fabrizio non condanna. Ci offre solo un altro spaccato del Mar Mediterraneo.


‘Â pittima

Cosa ghe possu ghe possu fâ
se nu gh’ò ë brasse pe fâ u mainä

Cosa ci posso fare se non ho le braccia per fare il marinaio, canta la pittima, con il suo mestiere impopolare di esattore di debiti, pagato dai creditori per riscuotere e ricordare ai debitori che è tempo di pagare e non si fugge alla pittima e a chi gli sta dietro. È una figura dell’antica Genova, che qui torna come città e incarnazione mediterranea. La pittima di De André è un emarginato, che non può fare altro mestiere che questo, non ha le braccia del marinaio e le mani del muratore.

In quest’eterno navigare incontriamo anche una parte di emarginati costretti ai mestieri meno popolari, a cui De André offre la sua comprensione: “ho immaginato la mia pittima, come un uccello che non riesce ad aprire le ali, ed è destinato a nutrirsi dei rifiuti dei volatili da cortile“.


‘Â duménega

tûtti a miâ ë figge du diàu
che belin de lou che belin de lou

Essendo la prostituzione, forse, il sacrificio più pesante per una donna, e visto che attraverso il sacrificio ci si può anche santificare, non si capisce perché non abbiano ancora fatto santa una prostituta“.

‘Â duménega racconta la sfilata domenicale delle prostitute nelle strade di Genova, quando alle prostitute veniva concesso di uscire dal quartiere in cui erano relegate per il resto dei giorni. De André immagina come questa passeggiata domenicale accendesse le fantasie popolari, dai giovani ragazzi che chiedono alle madri i soldi per andare al casino, a tutta la bella morale cittadina, l’uomo che sbuffa e strepita prima di accorgersi che tra le donne agghindate con cappellino a festa faccia la sua porca figura anche la moglie. Come ne La città vecchia, dove il vecchio professore che va alla ricerca della prostituta al mattino la chiama “pubblica moglie” e la notte sborsa diecimila lire per sentirsi dire “”micio bello e bamboccione“. Anche le prostitute uniscono il Mar Mediterraneo e i suoi dialetti. Chiude il tutto un assolo di chitarra andalusa.


D’ä mæ riva

ti me perdunié u magún
ma te pensu cuntru su

Dopo Sidùn questo è forse il canto più straziante, non solo del disco ma dell’intera storia di chi è costretto a partire lasciando la terra e gli occhi dell’amata. D’ä mê riva è il canto che si consuma sul porto di Genova, “il fazzoletto chiaro” che saluta senza avere certezze su quando si ritornerà, come l’intera collezione di fazzoletti che ogni giorno sventolano sul Mediterraneo a raccontare la storia di questi amori distanti e delle rispettive rive da cui si osservano. Canto di porti che squarcia l’orizzonte immaginario del mare; occhi che si tuffano negli azzurri per giungere all’altra riva.

Mi perdonerai il magone / ma ti penso contro sole / e so bene stai guardando il mare“; il mare che separa è lo stesso mare che unisce, l’orizzonte-barriera è lo stesso orizzonte in cui gli occhi si cercano, senza trovarsi. U magún cantato da Faber è tutto l’ammasso di saudade che coglie il navigante, l’emigrante, o semplicemente colui che è distante. Ed è impossibile non portarsi dentro quello che è lontano, che siano un paio di occhi o un’intera città. Due cose possiede il viaggiatore inquieto: il magone e una vecchia fotografia dell’amata.

Crêuza de mä è un lungo canto mediterraneo, un viaggio tra marinai, prostitute, pittime, amanti, guerre e taverne – una traversata che ci ricorda che il mare non ha confini. De André credeva che il disco non avrebbe venduto niente. Non era profeta, ma cantautore.

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