A cuore aperto | Intervista Crocifisso Dentello

Un memoir, un libriccino potentissimo, un mucchio di pagine che contengono due intere esistenze. Un amore profondo, un legame incorruttibile, un addio le cui eco riverbereranno nel tempo. Tuamore, di Crocifisso Dentello – edito da La nave di Teseo, è una perla preziosa. Delicato ma dolorosissimo, è il racconto di una madre e di un figlio. Di una malattia che consuma un corpo, di un amore che non molla la presa sulla vita. Melina, piccola donna gigantesca, è il personaggio che s’incaglia dentro chi legge questo libro. Crocifisso, figlio amato e adolescente insicuro, è il personaggio a cui vorresti dare un abbraccio, una carezza, una parola di conforto. Tuamore è il libro più struggente e insieme vitale di questi ultimi anni. E non mi vergogno a dirlo, intervistando Crocifisso Dentello ho pianto.


Sono stato intervistato per 7 del Corriere della Sera da Teresa Ciabatti, e pure con lei ho pianto tanto durante l’intervista. È capitato com’è appena capitato con te, qui ora: in modo naturale, per così dire.

Di cosa stavate parlando, se posso chiederti?

Le stavo raccontando della solitudine che ho sperimentato nel corso della mia vita. Sai, al netto delle differenze con lei, con Teresa, credo si sia riconosciuta in determinate occasioni dell’adolescenza che racconto nel libro e che molto hanno a che vedere con la solitudine. È questo che ci ha avvicinati, nel frangente dell’intervista: l’aver sperimentato una solitudine molto forte in un periodo della vita che è per tutti delicato.

È il bello della letteratura, no? In fondo, i libri ci aiutano anche in questo: ci fanno sentire meno soli, parte di qualcosa, vicini a persone con cui apparentemente non abbiamo niente in comune.

È così. In questo caso, poi, nel caso di Tuamore, penso ci sia una componente di riconoscibilità, per così chiamarla, parecchio forte. Tutti noi siamo stati divorati da momenti di profonda solitudine, tutti noi abbiamo sperimentato il disagio dell’incomprensione con l’altro. In forme e in misure diverse, certo, però credo siano esperienze umane comuni.

Cosa significa essere soli, secondo te?

Di certo non associo la solitudine al trovarmi da solo in una stanza. No, la definirei più come la fatica che si prova cercando di essere compresi, compresi davvero, fino in fondo. Vorresti essere te stesso, farti conoscere per come senti di essere, ma non puoi. Sei costretto ad addomesticarti, andare incontro all’altro annullando piccoli pezzetti di te stesso che pian piano ti svuotano.

Perché credi che avvertiamo l’esigenza di addomesticarci rispetto all’altro?

Be’, ma in certa misura dobbiamo per forza di cose. È una delle regole per la convivenza nel mondo. Quando operiamo questi tagli, però, finiamo con il sentirci incompresi, come se nessuno delle persone che abbiamo attorno ci conoscesse davvero, e questo genera tanta solitudine.

Ci sono due episodi che mi hanno colpito. Quello di Capodanno – hai detto ai tuoi che avresti passato il veglione con gli amici, ma sei stato chiuso da solo in una cabina telefonica fino all’alba -, quello della vacanza estiva – dicendo che avresti trascorso due settimane al mare con gli amici, poi sei stato solo in una stanza d’albergo sulla spiaggia -. Perché hai deciso di raccontare proprio queste occasioni?

Per due ragioni. Una da romanziere: ho pensato che per un lettore potessero essere d’impatto, avessero un certo valore da un punto di vista prettamente narrativo. Una personale: questi sono tra i momenti di maggior solitudine della mia adolescenza e, allo stesso tempo, in cui il temperamento di mia madre, Melina, è venuto fuori in modo chiaro. Aveva un carattere molto burlesco, sai? Pur essendo una donna triste, a volte annoiata, era sempre pronta a scherzare, ridere, e in queste due occasioni è riuscita a far venire fuori questi suoi lati. Raccontando questi episodi, mi sono trovato spesso a sorridere.

Ci conosciamo, io e te, e so che sei una persona solare. Tu faresti amicizia con i pali, Crocifisso, diciamocelo. Eppure, nel romanzo racconti di una versione di te molto diversa. Cosa l’ha fatto venire fuori, questo nuovo Crocifisso?

Semplicemente, lui – chi sono oggi – voleva e doveva venire fuori. Era già lì, ma gli sono serviti degli anni e degli accadimenti per farsi spazio verso l’esterno.

In che rapporti sei con il vecchio Crocifisso?

Prima lo guardavo con tenerezza, oggi con rabbia: come dico spesso ho lasciato passare l’adolescenza come un treno in velocità e di questo mi rammarico profondamente. Di non aver vissuto quegli anni, di non aver sperimentato tantissime cose, e solo per paura.

Paura?

Ha un po’ a che vedere con il discorso che facevamo prima. Il compromesso con il mondo, quello per cui devi recidere e lasciar andare delle parti di te, non mi permetteva di essere me stesso – e quindi il nuovo Crocifisso, come lo stiamo chiamando, non poteva venire fuori -. Ho faticato tantissimo, sai? In me c’era il forte desiderio di preservarmi rispetto alle volontà del mondo: non volevo modificarmi, non volevo cambiare solo perché avvertivo determinate spinte esterne. Così semplicemente preferivo vivere appartato, ritirarmi.

Quando sono cambiate le cose?

Intorno ai vent’anni. In quel periodo ho capito che non ero il solo ad avere delle fragilità, che tutti, in qualche modo, si portano dentro dei dolori che possono tramutarsi in un disagio sconfortante. Allora ho capito che la condivisione era la sola soluzione. E allora ho cominciato a farmi i primi amici, fino a sbloccarmi completamente. In tal senso, anche l’iniziazione sessuale ha avuto un ruolo importante.

Con chi è avvenuta?

Con una ragazza. Si chiamava Angelica, e per me, pur non sapendolo, ha fatto tanto. Lei mi ha visto, si è accorta di me. Mi ha riconosciuto, in qualche modo.

E lei perché ti ha aiutato tanto? In che modo?

Sia perché, come dicevo, mi ha visto – ed è stata tra le prime persone a farlo. Sia perché all’epoca, lo dico pur sapendo che la cosa potrebbe farmi piombare addosso qualche critica, sentivo l’esigenza di misurarmi come uomo. Volevo capire se fossi capace di andare a letto con una donna, e che sia stato in grado di farlo ha aiutato questo nuovo Crocifisso a venire fuori.

E Tuamore? Ti ha aiutato?

Sì, pure se ho rischiato molto, nei mesi successivi alla morte di mia madre. Ho tentato il suicidio due volte. Sono state settimane tremende, mi sembrava che il mondo avesse smesso di girare, niente aveva senso: era la fine di tutto, per me.

Poi?

Poi, appunto, è arrivata la scrittura. Mi sono detto che tutto questo dolore dovevo, proprio dovevo, in qualche modo utilizzarlo, canalizzarlo, elaborarlo, così l’ho trasformato in letteratura. Scrivere questo libro mi ha salvato la vita, mi ha tenuto in piedi. Tant’è che adesso stanno ricominciando i problemi, adesso che il libro è stato pubblicato non so da dove iniziare a vivere questa vita.

Cosa ti manca di più di lei?

La risposta sarebbe: tutto. Di lei mi manca tutto. Tra tutto, però, ti dico il suo amore e il modo in cui lo manifestava, in cui me lo dimostrava. Era il mio punto di riferimento, il mio porto verso cui tornare, lo sguardo che aggiungevo al mio. Questo amore, fatto di tutte queste piccole cose, non potrà darmelo mai nessuno.

Come ve lo dimostravate, questo amore?

Ricordo che quand’ero ragazzo, appena dopo i vent’anni, tornato a casa dopo una serata fuori con gli amici, entravo in punta di piedi per non svegliare i miei, ma non potevo andare a letto senza prima essermi affacciato per dar un’occhiata a mia madre. Traversavo il corridoio, facevo capolino e la osservavo dormire per qualche secondo, giusto per sincerarmi che fosse lì, nel suo letto, che stesse bene. Giusto per andare a dormire pensando che il giorno dopo ci saremmo svegliati, avremmo fatto colazione insieme a avremmo riso e chiacchierato. Eccolo, il nostro amore. Era pure un rapporto tanto scherzoso, spesso la facevo incazzare di proposito perché mi faceva ridere vederla arrabbiata. Ed era pure un rapporto tanto fisico, la abbracciavo e la accarezzavo di continuo.

Queste abitudini sono cambiate, poi, nei mesi della sua malattia?

Sì e no. L’amore resta, sempre. Certo, c’è stato un cambiamento drammatico. Come racconto qui nel libro, è morta come una bestia macellata. Il torace si era trasformato in una lebbra piena di sangue e il suo odore, quello del sangue, sembrava ovunque. Quell’odore lì era insopportabile, violento ma mi manca persino quello: fintantoché c’era quell’odore, c’era anche mia madre, era viva. È così che ho imparato ad amare pure quello.

Come si ama un corpo malato?

Lo si ama di più, con più forza. Per quanto possa essere ripugnante, un corpo malato o morente è un corpo che finisci con amare più di un corpo sano. Lui, il corpo, si attacca alla vita con tutte le energie che gli restano e tu quel coraggio lo ami e lo rispetti con ogni fibra di te stesso. Ho amato mia madre quando non riusciva a dirmi una parola più di quando invece poteva dirmela ancora. Roland Barthes ne La camera chiara dice “nel momento della malattia è come se procreassi mia madre, è come fossi diventato padre del mio genitore”. Questo l’ho sentito moltissimo, e forse per questo nei suoi ultimi giorni l’ho amata moltissimo, più che mai.

Com’era Melina nei suoi ultimi giorni?

Stanca, delusa, triste, ma comunque sé stessa. Si faceva coraggio, si aggrappava alla vita, cercava lei di tirare su noi. Faceva battutacce, era sarcastica, i suoi occhi indagavano, giravano per la stanza per vedere se la tavola fosse apparecchiata per bene, se ci fossimo vestiti in modo giusto.

Hai rimpianti?

No. L’ho amata profondamente, mia madre, e gliel’ho sempre detto e dimostrato. E spero che questo romanzo, in qualche modo, suggerisca ai suoi lettori di dire e dimostrare il loro amore, sempre e a chiunque. L’amore che diamo è un patrimonio che il tempo non può consumare.

Cosa resta dopo la morte di tua madre, Melina?

Non resta niente, davvero niente. Solo il dolore, e forse un ricordo o una proiezione mentale. La vita esiste nell’attimo che vivi, e basta. Mia madre non c’è più. Io non posso parlarle, vederla. E questo è un fatto ineludibile. E questo è tutto ciò che mi resta. La sola cosa che mi dà un po’ di sollievo è il fatto abbia potuto regalare della luce a una donna comune. L’ho tolta dall’anonimato con questo libro. Non lo sa e non lo saprà mai, ma quantomeno non ho reso del tutto inutile la sua vita e il suo sacrificio. La letteratura ha portato mia madre Melina, una donna come tante, a essere un pezzetto di qualcosa di grande.

Cos’è Tuamore?

Il più grande atto d’amore che potessi fare per mia madre.

Il futuro, invece? Com’è il futuro?

Non lo vedo.

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