Crying – Beyond the Fleeting Gales

A volte capita che una band che viene dal nulla esca da una piccola casa discografica con un primo lavoro di talento, degno di essere ascoltato; è il caso dei Crying. Nati a Purchase, New York, nel 2013, i Crying sono scritturati dalla piccola Run For Cover Records di Boston per la quale nel 2014 hanno pubblicato i due EP Get Olde e Get Olde/Second Wind.

Da queste prime pubblicazioni informali emergeva una band Synthpop, più precisamente Chiptune, in cui la facevano da padrone chitarre distorte e lancinanti fischi 8-bit. Non male ma acerbe, per appassionati.

Il 14 Ottobre di quest’anno è uscita Beyond The Fleeting Gales per la stessa etichetta.
Bisognava aspettare la prova del primo LP per saggiare del talento in questa band e così è stato. Il disco si apre su una voce femminile esile, melodica, sull’orlo della stonatura in bilico su un sintetizzatore lo-fi, grezzo e ondeggiante. In un attimo il pezzo si apre: una solida struttura ritmica regge un potente e distortissimo riff, la voce si fa coinvolgente, zuccherosa, melensa e senza spigoli come un pezzo dei Sixpence None The Richer. La traccia è Premonitory Dream ed apre il disco in grande stile.

Si sente pesante, sull’atmosfera dei pezzi che seguono, l’egida di uno sperimentalismo Indie Rock da primi 2000, che non sacrifica un marcato appeal commerciale alle sue distorsioni elettriche e ritmi ricercati. La componente solistica è importante da subito: frequenti i momenti in cui il basso distorto è lasciato da solo così come quelli in cui la chitarra esplode in inaspettati, folgoranti assoli di chitarra stile Arena Rock degni dei migliori Journey.  La registrazione, grezza di proposito, si sente soprattutto su synth e chitarre, e fa parte del mélange di cui sopra diventando la tela su cui dipingere con i brillanti colori dell’arpeggiatore elettronico.

I pezzi, quasi tutti Upbeat, sono tutti sotto i 5 minuti come vuole il dogma del pop, ma mai diabetici, mai stucchevoli. L’album breve che ne risulta non va mai davvero sui nervi e ciò è segno della presenza di una consapevolezza che è necessaria in sede di arrangiamento se si vuole produrre un prodotto pop di qualità. Un secondo esempio di questa maestria è There Was a Door: parlata, quasi rappata, performata ondeggiando le braccia col megafono in mano, piena di pause strategiche per accompagnare il coinvolgimento come sa fare bene la migliore elettronica commerciale, prima del crescendo.

I pochi lenti sono l’altra faccia della stessa medaglia: bagnati dalle stesse influenze degli altri pezzi restano sempre sostenuti. Ballatine zuccherose da passeggiata giapponese ed estetica da sigla di Anime e Para-Para che arriva chissà come (o finalmente) in un gruppo di New York. Lontana dalla marcata chiptune del primo lavoro, la cantante (Elaiza Santos) si mescola meglio alla base in un tutt’uno più efficace e si perdono i coprenti acuti di elettronica sola che risultavano a volte un po’ fastidiosi nei primi lavori.

Beyond The Fleeting Gales non è un disco che vuole insegnarci nulla, né farci pensare troppo. I testi che paiono concentrati piuttosto su esperienze personali e riflessioni giovanili. E malgrado tutta l’allegria, il trasporto e coinvolgimento che emergono dal sound possano sembrare Kitsch o magari ipocriti ai più scafati di noi, l’album all’ascolto non risulta mai come l’ennesima trovata commerciale, pur avendone di certo, come si diceva, l’appeal inconfondibile. Ennesimo recupero di quello che ci ha fatto felici anni fa, il pop appare in questo disco come filtrato dal ricordo, in un prodotto finale che è qualcosa di completamene diverso. Non parliamo di “derivativo” per favore, ché è troppo semplice: viviamo in un’era manierista sia nel pop che nel Rock che sono le spine dorsali di questo progetto musicale. Questo è un disco Indie Rock, è un disco Synthpop, prodotto col cervello e con la tecnica per piacere al più grande numero di ascoltatori, per proporsi come alternativa. Il suo suono melodico è solo una delle scelte ben marcate che lo compongono. L’estetica da cartone animato giapponese unita a quella da arena rock americano anni ‘70 sono influenze che oggi possiamo capire solo all’interno un immaginario Vaporwave, che è forse la sola chiave ideologica possibile per leggere album come questi ora che nel tempo ci siamo collocati dopo gli Hipster, dopo gli Indie e dopo gli Emo.

Consigliato a chi vuole farsi sorridere una volta tanto, l’album raccoglie un paio dei più grandi dispensatori di spensieratezza dei ventenni di oggi, incanalandoli in un concentrato di potenza.

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