Come si diventa uno “stato canaglia”, da Cuba alla Siria

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Abbiamo ancora nelle orecchie il frastuono e l’eco delle esplosioni a Bruxelles, proprio mentre Barack Obama si trovava dall’altro lato dell’Atlantico, sulle coste caraibiche, a coltivare la distensione con Cuba dopo mezzo secolo di gelo. Che sia stato Reagan o Clinton il primo ad aver parlato espressamente di rogue state poco importa, dagli anni della presidenza Carter la lista nera americana degli stati canaglia ha sempre visto Cuba primeggiare come stato sponsor del terrorismo da cui diffidare.

Solo lo scorso anno Obama ha deciso di riprendere le relazioni diplomatiche con Cuba, e il nome è stato depennato dalla blacklist. Se andiamo a vedere l’evoluzione degli stati “terroristi” nel tempo in realtà ci sono due presenze fisse oltre a Cuba, l’Iran e la Siria, entrambi stati a tradizione sciita che poco vanno a genio all’alleanza di lungo corso americana con i sunniti del Medio Oriente (tanto per capirci, l’Isis è di ispirazione sunnita, il regime di Assad è sciita). La Libia è uscita dalla blacklist nel 2006, proprio dopo la formazione di un governo di accordo nazionale sotto l’egida dell’Onu, l’Iraq è fuori dal 2003, anno in cui è venuto meno anche il regime di Saddam Hussein.

Ad oggi i rogue state sono rimasti tre: Iran, Siria e Sudan (reo di ospitare militanti jihadisti). Parrebbe quasi che Molenbeek possa avere ottimi requisiti per entrare nella blacklist americana come quartiere canaglia.

Rihanna a Cuba, Annie Leibovitz per Vanity Fair

Lo scorso Novembre Vanity Fair ha mandato Rihanna e la fotografa Annie Leibovitz a Cuba per sugellare la distensione tra il rum cubano e la coca cola: ne è uscito fuori un servizio fotografico che potremmo ribattezzare Cuba Libre, una star del pop prodotto in Usa alla conquista di un ex stato canaglia. Chissà che Raúl Castro non abbia fatto vedere le foto al fratello Fidel e che lui non abbia commentato così, “la storia mi assolverà, quanto a te sei spacciato”.

Rihanna, la Leibovitz e VF che sbarcano nella culla della resistenza nell’arcipelago dei Caraibi sembrano annunciare l’arrivo in pompa magna a Cuba del tronfio capitalismo americano, proprio mentre i due stati decidevano di riaprire le rispettive ambasciate nei loro paesi. Il giorno del venerdì santo toccherà ai Rolling Stones suonare a Cuba per un concerto gratuito che si annuncia già storico sulla carta, tanto che Obama è stato definito dal manager come “il gruppo spalla” e di apertura.

Se già gli Audioslave nel 2005 avevano sdoganato il live di una band americana sull’isola, con gli Stones il delitto si fa perfetto. La blogger dissidente Yoani Sanchez ha descritto il volto di Mick Jagger come incarnazione di tutto quello che è stato proibito a Cuba per varie generazioni. “Abbiamo suonato in molti posti speciali nella nostra lunga carriera ma questo concerto a L’Avana è destinato a diventare un evento storico per noi e, speriamo, anche per tutti i nostri amici cubani”, così se la vivono gli Stones.

Il passaggio di consegne tra la rivoluzione cubana – incarnata dai volti di Castro e Che Guevara – e la riapertura dei rapporti con gli States – che potremmo raffigurare con le facce di Obama e Jagger -, è stato simbolicamente immortalato dalle fotografie del viaggio di Obama a Cuba, per esempio negli scatti in cui il Presidente americano ascolta l’inno Usa sotto l’effige di Che Guevara. Oltre al rock, l’apertura di Cuba agli States ha seguito in questi giorni le tracce di una diplomazia del baseball, e qui bisogna risalire alle origini, alla passione di Fidel per la mazza e il guantone.

Fidel Castro gioca a baseball

“Giocate per passione e non per soldi”, era il mantra di Fidel che invitava i cubani al baseball, tanto che Cuba non ha una nazionale di giocatori professionisti ma viene definita come amatoriale. Tutt’altra storia rispetto all’America che sul baseball ha costruito un vero e proprio business del gioco, e che intorno alla Major League (MLB) vede girare milioni di dollari. La distensione passa anche per la pallina da baseball, la Major League americana è pronta a investire sui giocatori di baseball cubani, ad accoglierli negli Usa e provare a far rinascere l’amore per il baseball nel cuore sopito degli americani.

Di vecchiaia del baseball ne ha scritto Mark Fisher sul Washington Post recentemente, gli americani iniziano ad annoiarsi dei tempi morti del baseball e preferiscono giochi veloci come basket o football. Sono lontane le vecchie epopee americane raccontate da DeLillo in Underworld, i match sono troppo lunghi e faticosi da seguire, e anche giocare a baseball ai ragazzi sembra interessare sempre meno. Cuba invece resiste, e diventa una piccola isola felice per uno sport che sta perdendo felicità: un nuovo pubblico che potrebbe seguire lo sport con interesse e tanti ragazzi da svezzare per la Major League.

L’amichevole tra la nazionale cubana e i Tampa Bay Rays ha sancito questo silenzioso accordo. Del resto, l’esodo dei migliori giocatori di baseball cubani non inizierà da oggi: era già cominciato illegalmente negli scorsi anni. Sarebbe inarrestabile fermare l’ambizione di un gran giocatore di baseball di confrontarsi con i migliori giocatori nei migliori campionati, guadagnando molti più soldi. Il monito di Castro, giocate per passione e non per soldi, è finito per ritorcersi contro i suoi stessi giocatori. Da teatro di gioco, lo stadio da baseball, è diventato una trappola da cui era difficile scappare.

Esuli di Cuba non erano solo i giocatori di baseball, sin dalla proclamazione della rivoluzione ogni genere di dissidenza veniva bollata da Castro come contro-rivoluzionaria. La difficile vita degli scrittori cubani testimonia questo processo, molti per pubblicare le loro opere dovettero lasciare il paese. Basti pensare alle difficili sorti dell’oggetto libro a Cuba: prezzi altissimi (in pesos convertibili, cioè moneta turistica) e catalogo ristretto di titoli (Che Guevara, Hemingway, e il poeta rivoluzionario José Martí come best-seller).

Miriam Gómez e Guillermo Cabrera Infante nella casa di Londra

Guillermo Cabrera Infante è stato uno degli scrittori dissidenti cubani più famosi che scelse la via dell’esilio in Inghilterra insieme alla moglie Miriam Gómez, attrice cubana, che recentemente – dopo la scomparsa del marito – ha accusato i fratelli Castro di aver distrutto l’anima dei cubani. Anche la triste vicenda del poeta e scrittore Reinaldo Arenas, incarcerato da Castro perché omosessuale, censurato e vessato dal regime, è una testimonianza della difficile convivenza tra arte e stato a Cuba nella seconda metà del Novecento.

Dall’altro canto l’embargo americano non ha facilitato le cose per la scrittura a Cuba. All’epoca dell’uscita del romanzo Libertà Jonathan Franzen ricordava come anche gli Stati Uniti potrebbero essere considerati un rouge state, perché la libertà – quella vera – si confonde con le libertà di facciata della grande narrazione americana e viziata di consumismo (a Franzen concediamo il vezzo di essere sempre iper-critico con un sistema di cui fa buon uso). L’embargo ha infatti finito per penalizzare i libri cubani anche negli Stati Uniti, perché la loro pubblicazione era impossibile: il divieto per le case editrici statunitensi di pubblicare libri di scrittori cubani ha impedito un libero scambio di culture anche nella terra a stelle e strisce.

A Cuba sono stati invece gli editori indipendenti e sotterranei a provare a distribuire libri e cultura ai cubani. Negli anni scorsi diversi “centri anti-censura” sono nati a Cuba proprio con lo scopo di stimolare la lettura, vere e proprie biblioteche indipendenti, ovviamente invise al regime. Piccole scosse e segnali di apertura negli ultimi tempi però sembrano esserci stati, come dimostra la recente pubblicazione a Cuba di 1984 di George Orwell.

La più forte e amara contraddizione che viene fuori dall’esperienza di Cuba sfocia nella sfida della libertà e dell’apertura: è difficile – se non impossibile – garantire libertà (qualunque cosa voglia dire) in paesi chiusi dai propri regimi. Non è una storia nuova, ed è vecchia quanto quella dell’uomo. Si intreccia anche alla delicata questione del che cosa voglia dire l’espressione “stato canaglia”. È possibile che si parli di stato canaglia solo quando questo non incontra totalmente gli interessi degli Stati Uniti d’America? In questo momento la Siria rimane nella blacklist americana, nonostante Assad sia un Presidente non riconosciuto su tutto il frammentato territorio siriano e a livello internazionale (tra i pochi stati che hanno riconosciuto i risultati delle elezioni siriane figurano proprio Cuba e la Russia, alleata storica degli sciiti). Ma la posizione della Siria negli stati che figurano come “terroristi” per il governo statunitense a cosa è dovuta nel 2016? Dalla presenza dell’Isis, dalle speranze di reconquista nelle mani di Assad, dal crocevia di terroristi che si addestrano sul territorio siriano, o da un semplice laissez-faire degli avvenimenti?

Il mondo sembra essere oggi immerso dentro una grande accelerazione della storia, tanto che persino il più nichilista tra i filosofi sembra costretto di tanto in tanto fare a botte con la storia. Proprio mentre dall’altro lato dell’Atlantico Cuba inaugurava la sua entrata ufficiale sul mercato dopo decenni di isolazionismo, in Europa gli effetti della globalizzazione sembravano assumere le pose più diverse. Sarà sempre più difficile col tempo riconoscere i confini precisi di uno stato nazionale – cosiddetto – canaglia, forse finalmente i confini stanno schizzando via e sembra farsi strada un’evidenza importante. Non sono gli stati, le razze, le etnie a esser canaglie, ma sono le singole persone a cui dovremmo dir canaglia quando si dimostrano canaglie.

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