Da una parte o dall’altra

È in momenti storici come questo, in cui decidere diventa fondamentale. Decidere da che parte stare, in un riduzionismo terribile, fra chi decide di guardare e chi, invece, si accontenta che sia qualcuno a indicargli la strada verso la catastrofe. In tempi come questo, dove le dinamiche democratiche soffrono di continui attacchi, l’attenzione è tutto. Sottostimare situazioni come quella del Congresso Mondiale delle Famiglie di Verona è una tendenza pericolosa, tanto quanto la quantità di persone che, al suo interno, programmano e si confrontano sull’idea di un mondo binario, legittimato dalla presenza delle autorità che governano questo paese. Si tratta di un rischio concreto e feroce, perché indirizzato a un’idea di società confessionale, che punta alla riduzione – e soppressione – del particolare in favore di un generale standardizzato, che inizialmente si preoccupa per la bassa natalità quando, invece, è interessato al ripristino di leggi terribili, fuori da ogni tempo. Le stesse, in fondo, di quelli che costringono una donna a portare un velo o a vivere segregata in casa, dipendente dal proprio marito, contro cui si proclamano alternative. Come analizzato in un recente articolo su Internazionale, la comunicazione stessa di queste suddette priorità ha stravolto l’iniziale idea di scontro e di opposizione, per vestirsi di una immagine nuova, di protezione, più accettabile da parte di tutti. Non è una tattica estranea, o particolarmente nuova, ma è forse la più pericolosa e terribile, e cammina di pari passo con le tesi sovraniste che, al loro interno, cercano di muovere la bile della popolazione inquadrando un nemico debole come fonte di tutti i problemi, accusando altri delle responsabilità alle quali, invece, non riescono a rispondere. E così accade che Saviano diventi un problema non più per le mafie, ma per il fatto di ricevere una scorta. Che i giornalisti dell’Espresso vengano etichettati come zecche, più che come riserve delle stato democratico che si affaccia sull’emersione di forze antidemocratiche e violente, come Casa Pound o Forza Nuova, e le loro drammatiche pretese di italianità e sicurezza.

 

 

I problemi, del resto, sono sotto gli occhi di tutti. Nel tempo il sistema occidentale ha dimostrato un’incapacità di rispondere alle esigenze dei suoi abitanti, di impoverirli e ridurli a semplici consumatori. Non è diverso da ciò a cui si riferiva Wendy Brown, secondo cui i soggetti democratici sono capaci di «accettare forme di tirannia politica e di autoritarismo proprio perché rapiti da una sfera di scelta e soddisfazione del bisogno che scambiano per libertà». Il bisogno di sicurezza, di valori inossidabili, di difesa. Un elenco che trova nel Congresso della famiglia una rappresentazione forte, quasi impossibile da non scegliere. La complicità, ancora una volta, come la interpreta Mark Fisher, che inquadra – nel suo Realismo capitalista – nel controllo interno la forza di un potere indefinito, come quello che trascende le morali per crearne una propria, accondiscendente ai propri fini: il dominio, o l’oppressione della diversità.

La riduzione a termini binari, come propone il WCF, è figlio di una politica già in atto, e perseguita, dall’idea di governo che, già a livello comunale come a Verona, ha cominciato a dare i suoi primi colpi. Non solo in termini di una subalternità, come descritto da Pillon, ma un vero e proprio assoggettamento, in cui non ci sia possibilità di controbattere. Un ritorno al padre-padrone, un pugno nell’occhio al progresso, al principio di autodeterminazione su cui si fonda questo paese e l’Europa intera. Allora non c’è da sorprendersi se ci siano colpevoli differenti, se nascano attenuanti e pene limitate, perché giustificate su termini estetici, di concomitanza o di situazioni al limite. Una volta che il passo viene compiuto, indietro, non si torna più. Da una parte o all’altra, questo è il momento. Non solo dal punto di vista femminile o LGBT, la questione trascende i generi e preme su un livello di specie umana, su ciò che siamo, su ciò che vorremo essere. Una lotta di diritti che, come tutte le battaglie, non ha un solo tema in gioco. Come ogni cattedrale anche la democrazia si poggia su una serie colonne per sostenersi e, mancando anche un solo appoggio, il suo destino è semplicemente quello del crollo.

 

 

Si parla tanto spesso di eroi, di chi, con un colpo di spugna, sarebbe stato in grado di cancellare l’immobilità, la corruzione, il vuoto di potere nel nostro paese. Chi rivendica il concetto di eroismo, però, è tendenzialmente chi ne ha più bisogno per avvalorare le proprie tesi scadenti. Superare l’aspetto valoriale, per darne un risvolto mitico. Un’autocelebrazione del potere, l’incoronazione a salvatore o a capitano, per stare in colore grigio, nero o solo gialloverde. Senza ricorrere alla sventurata terra di Brecht, bisognosa di eroi, il momento è quello di distinguere il campo, di scindere la componente di pancia e contrattaccare con quella della ragione, del pensiero, della riflessione. Pensare, in un mondo che tenta solo di sfamarsi, è un’azione molto più rivoluzionaria, più silenziosa ma incredibilmente impossibile da contenere. Lo ha dimostrato Greta Thunberg che, con la sua voce, ha dato per un tempo – il futuro dirà quanto – un obiettivo ai più giovani per lottare, per prendersi le responsabilità che molti non hanno voluto ricoprire. È importante parlare di Greta, non tanto per il suo ruolo, ma per riscoprire la capacità che hanno le parole di ravvivare una questione che, se passata sotto silenzio, ci porterebbe all’autoeliminazione. Il dramma ambientale che stiamo causando ha una data finale, e una destinazione apocalittica, e dovrebbe essere sull’agenda di ognuno di noi, a partire dal potere. Non è così. Non lo è perché nessuno li ha costretti a ragionarci, perché a nessuno, probabilmente, importa. Perché dobbiamo difendere diritti che improvvisamente non sono più dati, perché l’unione si è trasformata velocemente in scissione, in lotta per la sopravvivenza. Non ci sarà, però, sopravvivenza, se tutto sarà distrutto. L’impoverimento del pianeta è un tema fondamentale, che presenta le stesse conseguenze della perdita dei diritti, ma in deviazioni ancora peggiori. Come la caduta della libertà implica la creazione di un sistema elitario, di una scuola elitaria, basata su reddito e genere, così l’accesso alle risorse riguarderà solo una piccola parte di sopravvissuti. Agli altri, le briciole, le lotte intestine, l’odio per il diverso arrivato per rubare il lavoro, o un goccio d’acqua, perfino un ultimo tozzo di pane. Da una parte o dall’altra, dalla parte del mondo o da quella dell’élite. Del medioevo o del futuro.

Gli eroi silenziosi, come Lorenzo Orsetti, il cui manifesto appare su tutti i muri di Bologna, ci ricorda come l’idea di un cambiamento, di un sacrificio, sia la dimensione ideale per cui spendersi. Di come questi tempi da maturi sono diventati marci, di cui gli slogan di una campagna elettorale mai doma per chi invece di essere a discutere dei problemi fa comizi, la soluzione non è importante quanto l’appropriazione del potere. Il caso di Silvia Romano, la ragazza andata ad aiutare a casa loro seguendo le parole dei capetti che stanno ridando forza al paese, è la drammatica rappresentazione del nostro paese da manifesto elettorale. Il silenzio del governo, come con Regeni, vale come un tacito assenso, una tragica definizione che chi è contro il potere è contro il popolo. Trattati come traditori, come ragazzi irresponsabili che se la vanno a cercare, che si sono illusi di cambiare qualcosa con le loro mani. Ma quel loro sangue, macchia tutte le vostre mani. Come macchia ineliminabile, come macchia che copre un interno paese.

La risalita delle destre estreme, quel loro sentirsi garantite, è la sindrome del codardo. Vi chiederanno di barattare certi diritti in cambio di tessere del pane, di sostentamenti di cittadinanza. Rispondete di no. Rispondete che la vostra parte è un’altra.

 

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