La favola della viltà | Damir Ovčina e l’assedio di Sarajevo

E pensare che ho passato tutta la vita con queste persone andando sempre d’amore e d’accordo, come si suol dire. Non so come faremo a riprendere una vita normale, un giorno.

Ci sono libri che occupano, improvvisi, lo spazio di un orizzonte per rammentare ciò che è stato nella Storia – finanche quella più recente – non come monito a che la stessa non si ripeta; ma come testimonianza della sua assurda e violenta ricorsività. Spingendo, all’interno di questa oscena coazione a ripetere, ancora più in là i margini estremi della narrazione dell’orrore.

È il caso di Preghiera nell’assedio di Damir Ovčina, uscito la scorsa primavera per Keller Editore nella traduzione di Estera Miocic. Era il 5 aprile dell’anno 1992 quando ebbe inizio l’assedio di Sarajevo, il più lungo nella storia bellica della fine del ventesimo secolo: certamente una delle pagine più drammatiche della storia europea dalla Seconda Guerra Mondiale. Perché quello che si consumò fino al 29 febbraio del 1996, per quasi quattro lunghissimi anni, non fu soltanto l’epicentro maggiormente visibile di un conflitto spaventoso ma il tentativo di una vera e propria pulizia etnica, su più fronti, d’inaudita ferocia.

La realtà è che non si vede, né si conosce l’altro.

Bisogna esserci stati in quegli anni. Fino a quel momento è forse lecito dire che le guerre, a noi europei, si erano mostrate con la sfumatura di un’eco lontana. Corea, Vietnam, Guerra del Golfo, finanche il conflitto israelo-palestinese: erano guerre che sembravano provenire da territori che per motivi geografici – molto prima della possibilità di grandi viaggi – ci apparivano distanti.

No. Le guerre che dilaniarono i Balcani furono quanto di più prossimo a noi si potesse immaginare, negli occhi degli adulti, certamente, come in quelli dei bambini che – complice l’esplosione dei programmi di informazione di inizio anni novanta – assistettero, inermi, alla dissoluzione di uno stato dal nome bellissimo – Jugoslavia – attraverso le immagini trasmesse di continuo dalle tv italiane: strade come le nostre, palazzi come i nostri, ragazze come le nostre – solo con gli occhi più chiari – donne e uomini lasciati a terra in pozze di sangue, dilaniati in pezzi, come sacchi di rifiuti all’angolo dei marciapiedi, vestiti con le nostre stesse giacche, le nostre scarpe, le nostre camicie.

Damir Ovčina

Prima o poi arriva il tempo del male e delle stragi, così come arriva il momento della malattia e della morte. Esattamente come a un certo punto, al di là del nostro potere o volere, arriva il momento della fioritura dei ciliegi.

Ciò che di innocente poteva essersi salvato dall’orrore della Seconda Guerra Mondiale – a seconda che si abbracci lo sguardo di una Resistenza vittoriosa posato – giustamente – sulla speranza, sola possibilità di rinascita o quello di un Curzio Malaparte che ne La Pelle sembra profetizzare già il baratro e la fine irreversibile – è perduto per sempre nelle guerre fratricide tra sloveni e serbi e bosniaci e croati, fino alle lunghe code che coinvolgeranno montenegrini e albanesi. La dissoluzione balcanica come coda lunga della fine dell’Unione Sovietica e, insieme, primo banco di prova di nuovi assetti geopolitici.

Ma come si racconta quell’orrore a distanza di trent’anni? Damir Ovčina sceglie di narrare una delle possibili storie vere tra le tantissime. Affidandosi, almeno in parte, a ricordi autobiografici.

Sarajevo. Primavera del 1992. Un ragazzo sta frequentando l’ultimo anno dell’istituto di elettronica. Non ha un nome, ha un padre e una ragazza. Vive la vita di un normale adolescente. Intorno a sé piomba già, però, la morte: quella di sua madre che arriva, improvvisa, nella sua vita. Una malattia misteriosa dietro la quale è difficile non leggervi la metafora del morbo che ha contagiato un’intera nazione.

© Mario Boccia

Nel momento preciso in cui la guerra esplode, il protagonista si trova dalla parte sbagliata, nel quartiere di Grbavica, “caduto” in mano alle forze serbo-bosniache che vogliono distruggere il neo-indipendente stato della Bosnia ed Erzegovina per creare la grande Repubblica Serba. Per lui, quel quartiere si trasforma immediatamente in una vera e propria trappola, senza alcuna possibilità di raggiungere suo padre e la sua casa, e nessuna di contattare la sua ragazza. È il mondo che si ferma: nel giro di pochissime ore sarà assoldato da un’unità speciale serba che ha il compito di raccogliere i cadaveri dei “turchi” ammazzati in una guerriglia, in una caccia all’uomo condotta porta a porta. I “turchi” come lui, riconoscibile da un cognome sbagliato senza il suffisso -ić. Un cognome come una radice che lo tradisce: bosniaco, turco, mussulmano.

Prima o poi arriva il tempo del male e delle stragi, così come arriva il momento della malattia e della morte. Esattamente come a un certo punto, al di là del nostro potere o volere, arriva il momento della fioritura dei ciliegi.

Il titolo italiano – Preghiera nell’assedio – rimanda sicuramente alla possibile, debole speranza che resta accesa non solo dinanzi all’orrore ma anche negli ingranaggi di un angosciante meccanismo che ogni giorno viene replicato nella vita del protagonista, sospeso tra un futuro interrotto e la necessità di non perdere la propria capacità di sentire dentro un presente inestricabile. Ma non solo: discende direttamente dal titolo originale Kad sam bio hodža (Quando ero un hodža) del romanzo di Ovčina. Quella dell’hodža è per i musulmani bosniaci una figura simile a quella del prete, presente, com’è, a tutti gli eventi importanti di una vita: dall’educazione ai matrimoni ai funerali, sempre al centro della comunità.

Il protagonista – suo malgrado – viene additato così dalla torma di paramilitari, filibustieri, capi quartiere d’improvviso elevati al rango di soldati che chiederanno proprio a lui, di volta in volta, di recitare una preghiera di commiato nei confronti dei suoi morti; ultimo barlume di pietà umana o estrema ipocrisia davanti al bieco odio etnico e alla seta di sopraffazione e vendetta che si nasconde dietro la Storia di un paese e della moltitudine diversa dei suoi abitanti.

Il male è di nuovo tra noi, se mai se ne è andato via.

Preghiera nell’assedio – premio Hasan Kaimija nel 2016 per la migliore opera in prosa e il premio Mirko Kovač nel 2017 – come i grandi romanzi, fa dello stile la natura stessa della sua sostanza, provando a rispondere a una tra le più annose delle domande intorno all’arte: come si racconta l’orrore? Damir Ovčina sembra farlo dicendoci che il solo modo è quello di abbandonare ogni pretesa retorica intorno alla narrazione per condurre il lettore e la voce narrante direttamente dentro ai fatti. Diario di guerra, insomma, per parafrasare uno dei libri più importanti intorno ai conflitti balcanici degli anni novanta – Giornale di guerra, Cronaca di Sarajevo assediata di  Zlatko Dizdarević.

Devi resistere e vivere. Non c’è alternativa.

È come se la scrittura di Ovčina si limitasse a registrare i fatti tramite la voce del protagonista, esattamente allo stesso modo attraverso cui i suoi occhi scrutano atterriti nella città assediata. Le frasi sono brevi, asciutte e secche e creano, per contrasto, un meccanismo che amplifica l’angoscia di quei giorni, dominati dal ritmo serrato di una vita che – spezzata – deve trovare suo malgrado una nuova possibilità di sopravvivenza.

Nel buio di quei giorni, una luce, la sola possibile: una storia d’amore che nascerà nel palazzo dove il ragazzo trova rifugio strappando brandelli alla notte, lì dove cercherà di aggrapparsi alla consolazione del corpo e delle braccia di una donna.

Nel suo romanzo d’esordio, Ovčina smonta la consueta narrazione legata a quelle guerre – non insiste su serbi, croati, bosniaci né tantomeno divide il mondo jugoslavo secondo le tre grandi fedi (ortodossa, cattolica e islamica), non offre al lettore, che poco conosce di quella terra vastissima, una bussola per orientarsi. Lo catapulta, piuttosto, nella confusione stessa di quel conflitto, di città, di strade, di vicini che da un momento all’altro diventano aguzzini.

Sole alto (Zvizdan), film del 2015 diretto dal croato Dalibor Matanić che racconta l’odio etnico e le guerre balcaniche

I trafficanti di saponette mettevano pancia verso est

(La domenica delle Salme, Fabrizio De André)

Le strade di Sarajevo come una mappa impazzita dove il solo camminare significava essere esposti ai colpi dei cecchini che sparavano dall’alto. Angolo dopo angolo, la replica di un’inquietudine che svela nel terribile groviglio di un massacro con molte maschere (Maschere per un massacro di Paolo Rumiz) anche e soprattutto la meschinità quotidiana che, dietro la costruzione “nobile” di un nuovo stato, rivela il suo volto fatto di appartamenti occupati e miseri saccheggi. Nelle pagine di Preghiera nell’assedio è come se il colore stesso della vita si riducesse a quello del piombo. La suggestione – forte – richiama alla mente quella di un altro orrore: la scena centrale in Full Metal Jacket di Stanley Kubrick della caccia al cecchino, un campo minato che si tramuta in una lotteria sotto un cielo slavo del Sud.

Tutto è ripetizione: le strade che si percorrono, i palazzi che si battono palmo a palmo: gli stessi morti e le loro sepolture diventano parte di una quotidianità. Come questi, lo diventano i gesti, gli esercizi, i tentativi che trasformano la vita del protagonista in una disciplina continua non solo per cercare di non essere ucciso – la seconda parte del romanzo, senza nulla voler anticipare, cambierà l’orizzonte del suo sguardo – ma per poter restare ancorato a una realtà precisa che lo salvi dall’orrore e ne preservi la mente e i ricordi, affinché nulla di ciò che ha visto vada perduto. Perché la Storia non dimentichi e possa fare i propri conti.

balcani

L’amore stesso è fatto di una ripetizione di gesti capaci, però, di ricordare attraverso la cura, prima ancora del piacere, che esiste – che deve esistere – altro in mezzo all’incubo. Ospitato, accudito, atteso – ed è forse questa la dimensione più importante – il protagonista si ritrova a far l’amore ogni sera nell’appartamento di una ragazza serba di qualche anno più grande. Imparerà ad amare, a trovare la leggerezza finanche dentro al dolore – che per lui, non dimentichiamolo è collettivo e personale, privato com’è stato della madre sul limitare prossimo del conflitto, in un gioco che, tra lo studio delle lettere dell’alfabeto cirillico e nuove prime esperienze, gli permetterà di sopravvivere con la speranza all’orizzonte di rivedere suo padre e di ritrovare con lui le radici familiari, del suo popolo e di una umanità tutta.

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