Il Sudafrica di Damon Galgut: “La Promessa”

Quando Rebecca Swart muore, la sua famiglia è smarrita a tal punto che il marito e patriarca Manie, e sua sorella Marina, non riescono a smettere di incolpare la morta della sua riconversione all’ebraismo, come se in quel momento luttuoso conti solo l’onta di una funzione funebre diversa dalle loro tradizioni. Gli Swart, pia famiglia di afrikaner calvinisti poco lontani da Pretoria, sono i protagonisti del romanzo “La promessa” di Damon Galgut, autore sudafricano vincitore del Booker Prize 2021, in Italia pubblicato da Edizioni e/o nella traduzione di Tiziana Lo Porto. L’incontro con gli Swart avviene per la prima volta nel pieno del lutto, a metà degli anni ’80, in un Sudafrica ancora invischiato nell’apartheid che si avvia a scomparire, ma che segnerà per sempre la storia del paese. Oltre a Manie, i tre figli: Anton, soldato diciannovenne, Astrid e Amor, l’ultima figlia ancora ragazzina. Nella lettura, in cui pare sin da subito di non avere mai sollievo, la storia degli Swart evolve e diventa una saga familiare dura e atipica.

Damon Galgut

Nel video di proclamazione del Booker Prize, Galgut, già finalista in due passate edizioni e con nove romanzi all’attivo, è visibilmente commosso e ricorda al pubblico l’incredibile anno letterario degli autori africani, tra il premio Nobel andato a Abdulrazak Gurnah e il Prix Goncourt a Mohamed Mbougar Sarr. Il suo “La promessa” ha sbaragliato una concorrenza serrata con uno stile narrativo che pesca la stessa capacità di innovare del modernismo di Faulkner, ma senza tralasciare il grande faro della letteratura sudafricana, J. M. Coetzee. Messi da parte i paragoni e la tradizione letteraria in cui si inserisce, quello di Galgut è un romanzo di assoluta bellezza e complessità di analisi e scrittura. Il critico del New Yorker James Wood sintetizza questa saga famigliare de in una definizione tanto cupa quanto efficace: quella degli Swart è una maledizione che si apre con il funerale di Rebecca, la successiva chiamata a raccolta dei figli, e prosegue in quattro capitoli complessivi con altrettanti funerali e le macerie che questi generano. La promessa del titolo è quella che Rebecca fa a Salome, domestica nera della famiglia, a cui destina la proprietà della casa in cui vive. Nessuno degli Swart sarà capace di onorare la promessa fatta e questa mancanza sarà il motore principale del giudizio morale nel romanzo. Perché gli Swart non sono solo personaggi da saga, ma fungono da archetipo dell’intera società sudafricana seppellita da razzismo, avidità e corruzione. “La promessa”, allora, si rivela un’analisi sottile degli ultimi quarant’anni di una nazione, il Sudafrica, dilaniato dall’apartheid tanto insensato quanto invasivo e da una corruzione crescente. Non è difficile, allora, intuire che la vittoria al Booker Prize non premia solo i meriti stilistici dello scrittore per la sua prosa sperimentale, ma anche la capacità di ritrarre decenni di vita del suo paese senza sconti o mistificazioni. Nella storia fotografata da Galgut c’è posto, ovviamente, per la presidenza di Mandela e la coppa del mondo di Rugby del 1995, col presidente che chiama all’unità un paese dilaniato dalle divisioni razziali, sociali ed economiche; poi tocca al secondo mandato del presidente Mbeki e il tradimento del sogno democratico sepolto dalla corruzione; e si chiude, infine, con un Sudafrica quasi contemporaneo afflitto da problemi economici, blackout energetici e mancanza d’acqua. In questo scenario la contesa di una proprietà sembrerebbe insignificante, se non fosse che ha un carattere simbolico fortissimo, non solo perché l’eredità promessa è destinata a una donna nera, cosa impensabile negli anni ’80, ma anche perché la natura stessa del Sudafrica, sin dai tempi dell’invasione dei coloni olandesi, è fatta di terra sconfinata e contesa a cui i proprietari rimangono attaccati a costo della loro stessa vita.

Se Salome, la domestica, sempre citata e mai ascoltata né dai personaggi né dalla cangiante voce narrante, è il motore delle vicende del romanzo, gli attori principali sono i tre figli Swart. Anton soprattutto: ex soldato e poi disertore, irrisolto, incapace di ritrovare il proprio centro dopo i traumi, uomo la cui infelicità cronica è metafora certa di un paese che sembrerebbe aver perso la fiducia nel futuro. La maggiore delle sorelle, Astrid, è anch’essa irrisolta, perfettamente inserita nel declino generale; e poi la più piccola, Amor, la coscienza dell’intera famiglia, l’unico personaggio in cui Galgut concentra la sua impercettibile, eppure presente, fiducia nel futuro.

Foto di Alessia Ragno

Time ha definito “La promessa” un’analisi della psiche dei sudafricani bianchi, impermeabili nei confronti dell’oppressione della popolazione nera, indifferenti alla disuguaglianza, preoccupati di mantenere potere, terra e una millantata superiorità, come succede agli Swart. “La promessa” risulta essere, quindi, il cupo romanzo di una nazione, del suo razzismo e avidità, del suo essere ancora lontana dalla meta democratica, seppure ancora in marcia verso di essa. Anton più di tutti rappresenta questo fallimento; lui con il suo romanzo autobiografico mai completato e lasciato in un cassetto a “perdere senso”, un eroe tragico e scostante, incapace di migliorarsi e redimersi se non attraverso l’unica parte della sua famiglia che li potrà riscattare a posteriori: Amor.

Un romanzo?Come si intitola? L’hai pubblicato?
Non ancora. In realtà no l’ho finito. Quasi!
Di che parla? Oh, dice Anton, dei tormenti della condizione umana. Niente di originale.

In quel “Niente di originale” c’è tutto Anton e la sua fatica di vivere.

È vero, ho sprecato la mia vita. Cinquant’anni, mezzo secolo, e non farà mai nessuna delle cose che una volta era certo avrebbe fatto. Non leggerà i classici in una famosa università né imparerà una lingua straniera né viaggerà per il mondo né sposerà una donna che ama. Non avrà il vero potere nelle sue mani. Non piegherà il destino alla sua volontà. Nemmeno finirà il suo romanzo, perché, continuiamo a essere onesti, dopo quasi vent’anni non l’ha proprio iniziato. Non farà mai granché di niente.

È evidente, in questi estratti, l’uso peculiare che Galgut fa della scrittura. Intanto la totale assenza di segni di interpunzione per i dialoghi, che vanno intuiti e inseguiti, e poi la voce narrante: autorità assoluta nel romanzo, cangiante perché fluttua tra i personaggi, cambia da frase in frase, si avvicina ai protagonisti e poi ne prende le distanze per pronunciare un giudizio morale che sembra sempre impossibile da trattenere. E la scrittura accompagna questo suo fluttuare ordinato facendosi immagine, suono e sentimento. Nell’immagine ci sono tutti i panorami di una terra sconfinata, quella sudafricana, e lo sguardo dolente di chi la calca; nel suono Galgut infila suggestioni di terra calpestata e personaggi che incedono a testa alta contro la disfatta; e infine i sentimenti, a partire dalla disperazione in quattro atti di una intera nazione, senza che la retorica sugli ultimi ne inquini lo spirito, e quel calore appena accennato che riconsegna a lettrici e lettori un barlume di speranza e riscatto.

“La promessa” è un romanzo sul dolore di una nazione, sulla possibilità concreta che la sconfitta di una esistenza sia priva di possibilità di recupero nonostante le buone intenzioni, nonché un romanzo sul declino di una famiglia intera e della terra che calpesta. Non c’è pietà per gli Swart e le loro debolezze, ma Galgut è magnanimo e mostra proprio sul finale la via per il futuro. C’è ancora modo di essere migliori, se solo lo si vuole.

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