Darwinismo indie: gli Horrors e una questione di sopravvivenza

Facciamo un passo indietro.
Una roba veloce, giuro. Per darvi una garanzia sui tempi, considerate che è un passo indietro che io ho fatto mentalmente nel tratto in cui percorrevo quella decina di passi avanti che portano dal parcheggio all’ingresso del Locomotiv Club.

Un parcheggio gratuito a pochi passi dal locale è la terza voce — in ordine di importanza — nella lista che compilerei volentieri per valutare un luogo che organizza concerti dal vivo. Se mai qualche promoter avesse il coraggio di farmi compilare qualcosa del genere, intendo. Le prime due sono il programma della stagione — e in questo senso la venue bolognese quest’anno credo di poter dire, senza paura di essere smentito, che si è semplicemente superata — e, a seguire, il prezzo medio dei biglietti. Anche se in realtà la questione del parcheggio si gioca il secondo posto — nel mio immaginario di ispettore del Gambero Rosso applicato ai live event — con quella strettamente pecuniaria: non ho ancora ben deciso quale delle due è più importante. In genere la volatilità del giudizio al riguardo dipende da quanti soldi ho in tasca nel momento in cui me lo chiedo. Ma non divaghiamo.

Facciamo un veloce detour nel percorso della memoria, dicevamo. Un inversione a “U” piuttosto, un carpiato rovesciato che, a dispetto del coefficiente di difficoltà ragguardevole, non dovrebbe comportare troppe controindicazioni e risultare più o meno indolore. O almeno spero.

Anno domini 2007.
Più o meno a metà di ogni decade pare si assista a una nuova ondata indie, qualunque sia il significato che si vuole dare a questa parola (significato che, tra l’altro, a ogni ondata assume connotati diversi, a volte pure contrastanti — questo solo per dire quanto le etichette ci stiano ammazzando il senso critico): senza voler andare troppo in là nel tempo, diciamo che se a metà anni ‘80 siamo in terra d’Albione e ci godiamo la versione “cardigan e occhiali grossi” (un nome a caso, gli Smiths — se non vi sembrano abbastanza “indie”, prendete una qualunque delle “wannabe The Smiths” band dell’epoca, oppure chiedete a John Peel), a metà anni ‘90 ci siamo già trasferiti oltreoceano per passare a “camicione a quadri e atteggiamento da m’importa ‘na sega” (dico Pavement, ma anche qui la lista di cloni è infinita).

Già considerando questi due casi, il fatto di usare la stessa parola come a volerli veder rappresentare per forza facce diverse della stessa medaglia mi pare un po’ forzato — a meno di non decretare la totale inettitudine del falsario che quella stessa medaglia ha provato a ritoccare — ma con la marea successiva la situazione degenera definitivamente.

Nel 2007 il riflusso ha lasciato la sua risacca di nuovo in Inghilterra, dove si sancisce una volta per tutte che l’indie non ha, a tutti gli effetti, più niente di “indie”. Nel 2007, in Inghilterra, al primo posto delle classifiche degli album più venduti si alternano nomi come Kaiser Chiefs e Editors, gente potenzialmente innocua come i Pigeon Detectives entra nella TOP 20, il secondo album dei Razorlight si porta a casa cinque dischi di platino, Mario Testino scatta servizi “indie fashion” per Vogue e le gente non ha paura a chiamare “indie band” gruppi da tre milioni di copie come Kooks o Snow Patrol. Anche la Rough Trade — un minuto di silenzio, please — ormai da cinque anni, è nelle mani della BGM. In altre parole, “indie” si è fatto sinonimo di qualcosa di completamente diverso: per ragioni che non abbiamo tempo di approfondire qui, l’idea originaria (se di idea si trattava e ammesso che ragioni singolarmente isolabili ci siano sul serio) ha perso qualunque contatto con il pur minimo concetto di indipendenza ed è diventata un nuovo mainstream in cui qualunque major farebbe carte false per mettere sotto contratto l’ennesima guitar band dall’aspetto accuratamente disagiato che veste vintage con stile e, musicalmente parlando, ha il ciuffo ostinatamente rivolto verso un ben preciso, seppur generico, “passato”.

Ecco: questo, il 2007, è il microcosmo in cui gli Horrors fanno il loro debutto, ovviamente anche loro accolti come the next big thing, nonostante (anzi, probabilmente grazie a) il loro essere perfettamente fuori tempo e fuori luogo.

Giorni strani, il 2007, penso rintanandomi al calduccio del locale, mentre immagino la costernazione che ci avrebbe pervaso se, allora, qualcuno ci avesse magicamente regalato uno sneek peek sul futuro, una fotografia del mondo dieci anni dopo (casualmente, oggi), un mondo che vede i Razorlight non a calcare da headliner il palco del Primavera Sound ma occupati a barcamenarsi per intrattenere gli ospiti di una specie di raduno di camper della Volkswagen, in cui Ricky Wilson è ora conosciuto più come il Manuel Agnelli d’oltremanica piuttosto che come il frontman dei Kaiser Chief e dove Alex Turner, pur di fare il figo a Hollywood, si è imposto dure sessioni di dizione yankee per riuscire a cambiare il suo accento. La cosa buffa — lo realizzo nel momento in cui la band che apre la serata sale sul palco — è che il lato più sconcertante della faccenda, per quell’ipotetico Doctor Who che dalla sua cabina del telefono — rigorosamente una red phone box, nel caso specifico — fosse riuscito a dare una sbirciata alla nostra attualità dal lontano 2007, probabilmente sarebbe stato lo scoprire che gli Horrors, non solo sono ancora sulla breccia — vivi, vegeti e in splendida forma — ma che si son pure presi il lusso di uscire con un quinto album che rischia sul serio di essere il migliore della loro carriera fin qui.

La band che apre la serata in realtà è un duo un po’ spaiato ma coraggioso, che — per usare un eufemismo — non fa propriamente la figura della coppia di virtuosi, pur proponendo un genere potenzialmente interessante, in quanto dichiaratamente derivativo, ma allo stesso tempo non immediato da catalogare. Per cavarsela con le loro stesse parole “Mueran Humanos consists of Carmen Burguess (vocals, drum machines, synths) and Tomas Nochteff (vocals, bass, drum machines) who together make propulsive, unfurling Spanish language pop songs using experimental, punk and avant-garde methods.” In pratica la versione argentina degli White Stripes, ma senza chitarre. E pure senza batteria. A voi l’onere di fare la sottrazione e valutare quel che ne rimane.

Mentre i synth estremamente eighties di Hologram affiorano dagli speaker, ammetto a me stesso che se c’era una band sul futuro della quale non avrei scommesso una lira, nel 2007, questa erano gli Horrors: un tentativo mal riuscito di cloni goth che parodiavano i Ramones e i Cramps attraverso titoli buoni per un b-movie, spacciandoli per analisi critica del declinio dell’influenza culturale del punk, con un nome da festa di Halloween che già allora sembrava ridicolo quanto un costume da Edward Mani di Forbice in mezzo a un party pieno di palloncini e una posa alla “vorrei essere i Bauhaus ma non riesco”. E bisogna ammettere che ero in buona compagnia se, quando apparirono sulla copertina di NME, anche l’editor del magazine inglese Conor McNicholas li sponsorizzò con un “they look awful and sound terrible” carico di doppi sensi, ma comunque mirato a sottolineare come i cinque ragazzi di Southend-on-Sea non sembrassero fatti della stessa pasta raffinata di certi — che ne so — Foals, o anche solo dei Klaxons.

Eppure ora son qui a muovere la testa con ritmo cadenzato, a battere il piedino a tempo, in poche parole a godermi un concerto più che onesto, a tratti anche coinvolgente, non fosse per la durata, effettivamente un po’ striminzita per una band con dieci anni di attività alle spalle.

V è un lavoro strano. Suona come una versione più chill dei Kasabian: stesso gusto per la melodia ombrosa, stessa capacità di impastare un’elettronica d’altri tempi con la strumentazione analogica, ma meno strisce di cocaina. Forse proprio per questo scivola via che è un piacere, sia dal vivo che su disco, e non è un caso se a conti fatti colonizza metà esatta della setlist, lasciando i suoi quattro predecessori a dividersi le briciole avanzate nel piatto.

A guardarli così da vicino, bisogna ammettere che in effetti degli Horrors del 2007 è rimasto ben poco: ormai il compito di mantenere negli anni una certa linea di coerenza nel look è limitato al solo Faris Badwan, che infatti si presenta con la solita acconciatura senza epoca, una camicia attillata che è un tripudio di paillettes e un paio di pantaloni — ancor più attillati — in (eco)pelle che si vanno a porre in punto indefinito di un’ipotetica scala di vestiario sexy, ma che comunque sono accolti da non pochi gridolini di giubilo da parte di sedicenti groupie. Si muove bene, la voce è calda, anche se a tratti sopraffatta del volume dei suoni degli altri. Gli altri son quelli che a questo punto della storia non si vergognano più di mostrarsi come bravi ragazzi a cui si richiede di reggere la baracca senza perdere un colpo. Incarico, questo, che portano a termine con dedizione encomiabile: Joseph Spurgeon e Rhys Webb formano una sezione ritmica di tutto rispetto che martella precisa e testarda come un picchio muraiolo, Joshua Hayward cambia una chitarra a pezzo riuscendo nell’impresa di farne uscire sempre il solito suono (quasi mai — qui sta il bello — quello di una chitarra), mentre Tom Cowan orchestra il tutto con fare magistrale, splendido direttore d’orchestra che sembra avere almeno una decina di braccia, piccolo polipo con il ballo di San Vito che si destreggia — nessuno sa bene come — in mezzo a una miriade di sintetizzatori e tastiere, senza nascondere la sua particolare predilezione per un synth analogico piramidale dal nome da National Geographic e la forma di un dispenser di rossetti di Sephora.

Dieci pezzi accompagnati da due bis risicati, con una Something to Remember Me By quasi commovente, che inizia come uscita dalla colonna sonora di Stranger Things e finisce infuocata nel Sottosopra in una coda post-punk che a tratti ricorda i Soft Moon e mi lascia giusto il tempo di improvvisare un’ultima analisi bislacca che giustifichi il mio colpevole errore di prospettiva: e se fosse stato proprio il fatto che ben pochi si aspettavano da loro niente di più che un’ignominiosa fine nell’oblio dopo il rapido esaurimento dell’hype iniziale a dare agli Horrors la libertà di procedere per la loro strada senza troppe pressioni o attenzioni esterne e di programmare la loro evoluzione pressoché nell’ombra, per restare costantemente a galla anche se senza fuochi di artificio?

Dopotutto, è storia vecchia, quella che giura che a sopravvivere non sono i più bravi, i più cool o genericamente i più forti, ma bensì quelli che sanno adattarsi meglio e più velocemente alle condizioni ambientali — siano queste una glaciazione improvvisa o la classifica di Top of the Pops — e sicuramente Badwan e compagni hanno dato più di una prova della loro capacità di cambiamento e di saper mutare pelle con una naturalezza (e una faccia come il culo, bisogna dirlo, ma fa curriculum anche quella) darwiniana che pochi loro contemporanei hanno dimostrato di possedere.

Stai a vedere, mi son detto mentre tornavo sui miei passi verso quel parcheggio così comodo che rischia di far salire vertiginosamente il Locomotiv nella mia personale guida Michelin di posti consigliati per veder gente che suona, che tocca rivalutare anche quel porcaio di Strange House. Maledetta retromania.


Foto di Alise Blandini

Exit mobile version