David Byrne – American Utopia

Nel suo libro ‘Come funziona la musica’, Byrne spiega come, secondo lui, ogni tipo di manifestazione artistica nasca, cresca e si adatti in base al contesto che la circonda. Stando alle sue parole, si può dire che anche ‘American Utopia’ sia frutto della propria dimensione spazio-temporale. Ma cosa non lo è?

E se si facesse il conto di tutto quello che precede questo nuovo lavoro, si potrebbe pensare che l’ennesima produzione del pluripremiato musicista non fosse poi così necessaria, soprattutto con un titolo così deliberatamente ammiccante e con una copertina non altrettanto intrigante.

Eppure c’è qualcosa da dire.

‘American Utopia’, ventesimo album che porta la firma di David Byrne, esce oggi con l’etichetta Nonesuch e completa il progetto presentato in parte all’inizio del 2018 con il lancio del sito ‘Reasons to Be Cheerful’.

L’obiettivo è tanto ambizioso quanto semplice: ricordarci che, anche quando le cose sembrano andare per il peggio, non tutto è da buttare.

C’è una piccola premessa “storica” da fare: il disco nasce in un arco di tempo piuttosto dilatato, prendendo forma da uno scambio di bozze sonore tra David e Brian (Eno, sempre fedelissimo di Byrne) che ha avuto inizio ancora prima che Trump vincesse le elezioni – non potevamo certo parlare di America e utopia e lasciar fuori i capei d’oro a l’aura sparsi!

Questa riflessione è utile a capire che l’intenzione dell’artista non è tanto di invitare ad avere un’attitudine positiva in risposta a un momento specifico, quanto ad averla in qualsiasi momento avverso o incerto.

È probabile che Byrne non abbia aspettato questa pubblicazione per reinventare il proprio stile compositivo ed espressivo, ma la caratteristica principale di una creatività brillante come la sua è di avere una “pennellata” di per sé incredibilmente cangiante, che gli permette di suonare, insieme, sempre uguale a se stesso e sempre nuovo.

Sicuramente questo deriva dalla volontà del musicista di attingere alle più disparate tradizioni culturali, che riescono tutte a fare capolino tra le tessiture dei suoi brani. Anche in ‘American Utopia’ si sentono, ad esempio, gli squilli caraibici e le percussioni latine di cui si è spesso servito nella sua produzione artistica, insieme ad alcuni chiari rimandi alla musica dell’Estremo Oriente.

Quello che ho trovato particolarmente piacevole in questo album, però, non appartiene alla sua struttura musicale, ma piuttosto all’apparato lirico.


Nonostante l’amareggiata
apertura di “I Dance Like This”, in cui Byrne ci ricorda (perché lo sappiamo tutti, in fondo) che «The truth don’t mean nothing / If you ain’t got the cash» e che «If we could dance better / Well you know that we would», ma che questo non accade;

nonostante in “Gasoline and Dirty Sheets” descriva con le parole di un bambino una contemporaneità che conosciamo bene: «Someone in a dangerous place / Someone got lost somewhere / Many people are locked outside / Many people lost out there / Many people they can’t get in / Many people they pay no mind / Many people they leave this place / And many people are freed of time»;

nonostante la perentorietà di “It’s Not Dark Up Here” ci dica che «There’s nothing funny about making money / It wouldn’t work if it was / There’s nothing funny about going to heaven / And there’s nothing funny about love»;

nonostante la confusione di “Doing the Right Thing” sia la stessa confusione in cui ognuno di noi può riconoscersi: «I’m always doing the right thing / What am I supposed to do with this? / What am I supposed to know about this? / What am I supposed to have in my hands? / What is written on that paper you have?»;

nonostante tutto questo, sotto l’apparente velo di rassegnazione e pessimismo contemporaneo si nasconde, forte e chiaro, un altro messaggio.

«Every day is miracle / Every day is an unpaid bill / You’ve got to sing for your supper / Love one another».

È un mondo incredibile e molto concreto, dove gli scarafaggi potrebbero divorare la Monna Lisa da un momento all’altro, dove i polli si interrogano sull’esistenza di Dio e danno baci travolgenti, dove la nostra mente non è che una patata bollita o un gioiello nascosto in una conchiglia di cioccolato. È un mondo, insomma, fatto di minuscole assurdità che sono parte di uno scenario, prima di tutto, condiviso.

Questo è quello che David Byrne vuole dirci:

«Now a dog cannot imagine / What it is to drive a car / And we in turn are limited / By what it is we are / We are dogs in our own paradise» e non siamo soli!

E se anche è vero che siamo solo turisti di questa vita così breve, come ci ricorda in “Everybody’s Coming to My House”, non è poi così male se riconosciamo che, a braccetto con le cattive notizie, ci sono anche le piccole rivoluzioni quotidiane di chi si impegna a rendere il nostro presente migliore.

Infine, la bellissima considerazione:
«There’s only one way to read a book / And there’s only one way to watch tv / Well there’s only one way to smell a flower / But there’s millions of ways to be free».

C’era davvero bisogno che fosse Byrne a ricordarci che possiamo essere liberi in infiniti modi diversi?

Forse sì, anche solo per la scelta di farlo attraverso un tipo di musica che è essenzialmente senza tempo e senza luogo e che, per queste ragioni, può incontrare l’esigenza di chiunque e, non avendo pretese particolari, anche di nessuno.

‘American Utopia’ è un disco leggero, molto più leggero di quanto il suo titolo possa suggerire e molto più di quanto non lo siano le aspettative di un nuovo album solista dopo quattordici anni di collaborazioni. Sono solo dieci storie, dieci fiabe distorte e distopiche che ogni adulto vorrebbe ascoltare prima di andare a dormire.

Ed è questa, a mio parere, l’utopia, americana o universale che sia: la leggerezza. Certo, non dovremmo mai smettere di vivere nella realtà con un ruolo attivo almeno all’interno del nostro spazio individuale, ma per poterlo fare è fondamentale non dimenticarci della bellezza che riempie ogni migliore intenzione e ogni miglior risultato.

 

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