Destroyer – ken

Il cantautorato raffinato del canadese Dan Bejar continua in questo nuovo capitolo ad affascinare, e stavolta lo fa prendendo da certe atmosfere synth-pop dei sound anni Ottanta. Quest’epica da affresco degli Ottanta esce fuori più diretta in tracce come Tinseltown Swimming in Blood, ma l’interno nuovo album è pervaso da questo tentativo.

Del resto ken è un disco “dedicato” e pensato intorno agli ultimi anni dell’era Margaret Thatcher. A pensarci bene la cosa è piuttosto divertente: esiste in questo momento un grande trend nordamericano – forse di natura un po’ reazionario – che è quello di cantare il disagio culturale dell’era contemporanea (che potremmo blandamente definire come d.T. / ovvero dopo-Trump – dunque era piuttosto giovane). Si tratta di una vera e propria reazione di musica e arte in generale: stanno uscendo fuori un numero sempre più consistente di album politici e impegnati a raccontare quest’era/parentesi che poi è anche piuttosto breve. Questo trend non viene fuori soltanto dai testi impegnati, ma si può avvertire anche in una certa tensione musicale, come se l’era/parentesi Trump avvilisse/appiattisse tutto.

Così, questo ritorno agli Ottanta, e alla musica che rispondeva a un’altra tensione culturale come quella dell’era Thatcher, potrebbe apparire quasi controcorrente. Una sana boccata d’aria nel clima di album politici/impegnati che stanno arrivando sempre più numerosi dall’altro lato dell’Atlantico. L’era Thatcher poi è davvero esistita, con tutte le conseguenze di un’epoca. Con l’era Trump è ancora troppo presto per fare i conti.

E allora ecco un canadese che canta un’era inglese. Così come inglesi sono i Suede, gruppo da cui è tratto il titolo dell’album dei Destroyer. Parliamo nel dettaglio della canzone The Wild Ones, che in un primo momento si chiamava proprio ken. Per Bejar si tratta di una delle ballate in lingua inglese più belle degli ultimi 100 anni. E del resto il progetto di Bejar ruota intorno al tentativo di cantare e comporre ballate. Non con il minimalismo del primo Leonard Cohen, ma arrangiando il tutto con gli strumenti in stile Wilco. L’esperienza del cantautore contemporaneo, anche quando fa i conti con i testi e i propri mostri da spiattellare in lyrics, è anche quella di riuscire a unire i pezzi, tentare la strada del silenzio riempito dalla musica.

A Light Travels Down The Catwalk è emblematica in questo: ha il sapore di una ballata (“In Berlin it’s sunny / Barcelona, it snows”), ma gli arrangiamenti vanno in una direzione innovativa. Sì, è vero – sembra di sentir riecheggiare l’era Thatcher, ma quest’era (e i suoi suoni) ne escono fuori riattualizzati. Così se è facile trovare nel disco tracce di Cure e New Order, quelle tracce non perdono originalità, per riesplodere ora – nel duemiladiciassette – con una forza diversa. Rome, Sometimes in the World, Cover from the Sun, portano tutte e tre gli stilemi dei coraggiosi Eighties e della loro resistenza al nichilismo punk che si fa oscuramente esistenzialista nel post-punk. E c’è del romanticismo.

Qui forse è il cuore della faccenda del nuovo album dei Destroyer: comporre respiri romantici dentro atmosfere oscure, ma che d’un tratto diventano gioiose cavalcate pop. Così, da un lato abbiamo il minimalismo pop di Saw You at The Hospital, e dall’altro esplodiamo nei ritmi da dance oscura di La Regle du Jeu, dove Bejar mescola il francese all’inglese (da autentico canadese).

Ma il pezzo forte del disco è il singolo Sky’s Grey, traccia magnifica che si rende un perfetto collante di tutti i tentativi del disco nei suoi 4 minuti di bellezza. Ecco, forse per non rubarvi troppo tempo, vi basterebbe ascoltare questo pezzo per comprendere il nuovo disco dei Destroyer e la sua dolce complicatezza. Bombs in the city, canta Bejar, mescolando il personaggio di Oliver Twist a quello del giovane rivoluzionario capitalista, e alla delicatezza dei ritmi synth-pop in crescendo che si incastrano in modo letale alla voce.

Dan Bejar va alle radici della faccenda. Il giovane rivoluzionario odierno e impegnato resta parte di un sistema più grande di lui, i suoni degli anni Ottanta – lo sappiamo – non sono mai davvero morti, ma pervadono le nostre vite e la nostra quotidianità. Provate ad andare in un bar per comprendere il vero linguaggio universale del nostro tempo, quello che tutti possiamo capire indipendentemente da che tipo di lingua parliamo: la musica pop, che ha cominciato ad appiattirsi proprio a partire dagli Ottanta thatcheriani. La musica pop che unisce le generazioni trasversalmente. Così, l’era dopo-Trump appare veramente corta rispetto a tutto questo. Forse è solo una conseguenza.

Exit mobile version