Devendra Banhart – Ma

Esiste un sentimento dell’animo anche detto devendriade, che sa di saudade e malinconia. Ce ne eravamo già lasciati ammansire ascoltando Rejoicing in the Hands e Nino Rojo, finché non ci aveva completamente devastato in Mala. Un sentimento di vaga nostalgia, che cantava talvolta in inglese e poi in spagnolo, dipanandosi sulle note di una travolgente inquietudine dal retrogusto di chitarra – talvolta scoppiava pure un sorriso che si faceva largo tra la musica in modo insensato. Devendra Banhart è un personaggio difficile da definire con i bianchi e i neri, e la sua musica rispecchia tutti gli insoliti chiaroscuri: alle ballate tristi e scure si alternano momenti poetici di gioia vagamente sudamericana; mentre scanzonatamente si celebra la festa con vena giocosa, d’ un tratto si incappa volentieri al fondo della signorina tristezza. Così pure il neo album Ma, un nuovo gioiellino di Devendra Banhart. Ma come abbreviazione della parola madre, e pure traduzione della parola “spazio” in lingua giapponese: spazio nel senso in cui potrebbe usarlo Perec, una specie di spazio, forse un vuoto. E la lingua giapponese torna nel disco del nostro freak preferito anche in Kantori Ongaku, fresco singolo portatore di un messaggio che va bene per tutte le stagioni, così è la vita.

La madre dall’amore incondizionato evocata da Devendra nel nuovo album è anche una vocazione alla maternità da cui lui – non avendo figli – racconta di essere escluso, ma perennemente circondato. Madre che è pure la madre terra: quel Venezuela lontano, torturato, calpestato, preda di un Maduro che guida il paese allo sbando, e con quella terra si evoca la dittatura, la povertà, il lungo notturno che strozza il canto in gola. Devendra Banhart sente sotto pelle questo dramma inumano, come quando ci racconta di sentirsi venezuelano ovunque tranne che in Venezuela – e paradossalmente. Del resto laggiù ci ha passato un’infanzia, e tocca cantarla questa terra originaria che pare ora così lontana e destinata al suo strazio. Devendra Banhart prova a offrirci un riscatto all’apocalisse attraverso l’arte. Lo fa con la musica, certo; ma si diletta anche con la pittura e il disegno. È un artista, un cantastorie folk che gira il mondo, mescola lingue, mette insieme sonorità, tira fuori parole e ci butta giù a fondo in questo piccolo mondo delle meraviglie. Devendrite acuta, nonché catartica.

Devendra Banhart

In un certo senso Ma riporta a Mala: ci sono quelle atmosfere, quelle evocazioni, quel mix di umori. Si tratta però di un lavoro possibilmente più complesso, anche grazie alla raffinata produzione di Noah Georgeson. Ci sono poi collaborazioni importanti, come quella con Cate Le Bon nel brano Now All Gone, cantautrice di cui Devendra confessa di aver apprezzato molto l’ultimo album Reward. E ancora un’ospite d’eccezione come la leggenda del folk Vashti Bunyan nel brano finale Will I See You Tonight: bellissimo sentire duettare i due insieme come pezzo di commiato dal disco, si sente una speciale connessione delle anime. Banhart vede in Vashti Bunyan un archetipo della figura materna: il pezzo diventa una benedizione per le orecchie, e per tutti i figli del bel folk – di cui Vashti è stata una delle grandi seminatrici. È così che questa figura materna si reincarna in forme diverse per tutto il disco: la si sente come vera e propria madre nel pezzo di apertura Is This Nice, come madre-patria in Abres Las Manos, e come madre figurata su Will I See You Tonight.

E di chi è la storia che si racconta nella soffice ballata Memorial, che sembra un brano strappato a Leonard Cohen – I wish you had been at your memorial, canta Devendra spezzandoci il cuore, evocando tutto lo strazio di una madre che ha perduto il figlio. La chitarra torna protagonista su Carolina, ballata in portoghese che ha il vizio di incastonarsi nel cervello. E ancora su October 12, dove la chitarra suona tutta la sua saudade: è una data simbolica (in quel giorno Colombo toccava le Americhe), o forse è solo un caso? Alle ballate si alternano i momenti tipici di brio di Banhart, come in Taking A Page, brano ispirato a Carole King. Ma è un disco davvero piacevole, che si lascia ascoltare, che rende l’estate una stagione appena più nostalgica e l’autunno più vivace, che gioca con i chiaroscuri della musica di Banhart, e dei suoi immaginari (“love is a little like crowd surfing in an empty club”). L’invocazione alla madre è riuscita: ora sta a lei di ascoltarla.


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