Di tenerezza e macerie, ironia e grazia: i fantasmi umani di J.D. Salinger

Di cosa parliamo quando parliamo di tenerezza? Da quanto personalmente osservato mi sembra ci si riferisca a un territorio-pupazzetto di mossettine, bronci e atteggiamenti cui concedere accoglimento senza temerne ritorsioni. “Ah, com’è tenero/a!”. “Oh, che tenerezza!”. (Non di rado in luogo di pena/pietà). La tenerezza è prima di tutto fisicità: come della carne “tenera”, o della notte “tenera”. Una persona tenera si dice “tenera” perché il mondo può toccarla più profondamente; perché, pur senza volerlo, lascia che la realtà circostante spinga sulla pelle, si imprima nella carne. Poiché conosce solo per contatto, la persona tenera si lascia sfiorare urtare spesso ferire. Dalla tenerezza come regione assegnata del vivere, facilmente si pratica il salto -dolce- nella malinconia, che a certe profondità diventa immersione in apnea, sport estremo, con incertezza di risalita. A restare sani e febbrilmente allegri, si risale per il versante dell’ironia, dove è grande e fragile la consolazione, potenzialmente infinita. Per entrare nel mondo di J.D. Salinger occorre abbandonare la fede incrollabile –o quanto ne rimane- in ciò che è conforme, normale perché proprio della maggioranza, e, nel silenzio, sentire.

“-Signorina Carpenter. La prego. Conosco i miei doveri, -disse il giovanotto. –Tu devi solo tenere gli occhi bene aperti per il caso che passi qualche pescebanana. Questo è un giorno ideale per i pescibanana.
-Non ne vedo neanche uno.
-È comprensibile. Hanno delle abitudini molto singolari. Molto, ma molto singolari.

Il primo dei “Nove racconti”, Un giorno ideale per i pescibanana, ci introduce in quella che è una vera e propria antologia di fantasmi. Il giovanotto, Seymour, che di lì a poco la farà brutalmente finita, è il primogenito dei sette figli di Les e Bessie Glass. Istrioni geniali con un passato da bambini prodigio in una trasmissione radiofonica, i fratelli Glass hanno un naturale talento per la tragedia e un’impopolare vocazione per la vita, quella vera, che brulica oltre il vetro-anestesia dei gesti omologati e insignificanti su cui l’umanità costruisce vuote relazioni.

Quello era un giorno, Dio solo lo sa, non solo dai significati e dai simboli aggressivi, ma anche dalle più stravaganti comunicazioni scritte. Se saltavate su di un’auto piena di gente, il Fato si prendeva il complicato fastidio, prima ancora che voi vi avvicinaste all’auto, di farvi trovare addosso un taccuino e una matita, caso mai uno dei vostri compagni di viaggio fosse un sordomuto. Se vi infilavate in una stanza da bagno avreste fatto bene a dare un’occhiata, caso mai ci fosse per voi un bigliettino dal tono leggermente apocalittico, o comunque su quel tono, affisso in alto sopra il lavandino.

Solo un vero poeta come Seymour Glass può generare un articolatissimo scompiglio, non presentandosi all’altare il giorno delle sue nozze, per la troppa felicità.

Anche se non ha mai scritto un solo verso, saprebbe farti commuovere anche soltanto muovendo le orecchie, se lo volesse.

È Buddy, il fratello scrittore di Seymour, finito in un incubo di ipocrisie e minute assurdità in Alzate l’architrave, carpentieri a illuminare per il lettore il volto nascosto dello sposo assente, ritenuto dagli invitati un pazzo irrecuperabile, senza speranza. Seymour in realtà è un genio struggente, dolorosamente consapevole dei limiti della donna di cui è innamorato, uno capace di gioia ed estasi che rasentano il dolore. E forse bisogna essere cresciuti in una famiglia numerosa per capire tutta la mitologia può contenere un passato comune, la sacralità di riti originali e invenzioni bizzarre meglio nota come fratellanza, tema ricorrente in Salinger. Quanto amore passa attraverso l’omertosa complicità nei danni e nelle vicissitudini, che sempre elude il controllo genitoriale.

Avreste dovuto vedere la vecchia Phoebe. Portava quel pigiama azzurro con gli elefanti rossi sul colletto. Andava matta per quegli elefanti.
-Dunque era un bel film, eh?- dissi io.
-Magnifico, solo che Alice aveva il raffreddore e sua madre non la finiva più di domandarle se si sentiva l’influenza. Proprio sul più bello del film. Nei punti più importanti, sua madre mi si buttava addosso e domandava ad Alice se si sentiva l’influenza. Che nervi mi ha fatto venire!

E ancora:

Mi sentivo così maledettamente felice, tutt’a un tratto, per come la vecchia Phoebe continuava a girare intorno intorno. Mi sentivo così maledettamente felice che per poco non mi misi a urlare, se proprio volete saperlo. Non so perché. Era solo che aveva un’aria così maledettamente carina, lei, là che girava intorno intorno, col suo soprabito blu eccetera eccetera. Dio, perché non c’eravate anche voi.

L’avrete riconosciuto, quello svitato di Holden Caulfield, con la sua sensibilità impressionista e gli irresistibili tormenti adolescenziali. In fuga dalle regole, dalla follia o dal torpore del mondo adulto, congelato in consuetudini borghesi, Holden raggiunge di nascosto la sua sorellina, la vecchia Phoebe, l’unica a unire una saggezza non comune alla più accogliente tenerezza. Phoebe è una bimba sveglissima, come tutti i bambini che si incontrano nelle pagine di Salinger; come tutti i bambini in realtà, a non trattarli da pupazzi. Il giovane Holden resta il romanzo più famoso del nostro; non saprei dire se il più bello, di sicuro quello più in grado di smentire la fesseria comune secondo cui si scrive per essere amati. Salinger non scriveva per essere amato, Salinger scriveva per amare senza doversi difendere. Per amare personaggi più umani e cristallini dell’umanità da cui avrebbe finito per prendere le distanze, isolandosi.

X contemplò la pagina per diversi minuti, tentando contro forze preponderanti, di non lasciarsi impressionare. Poi, con uno zelo di cui per molte settimane non era più stato capace, prese un mozzicone di matita e scrisse sotto l’iscrizione, in inglese: “Padri e maestri, io mi chiedo “Che cos’è l’inferno?” Io affermo che è il tormento di non essere capaci d’amore”. Cominciò a scriverci sotto il nome di Dostoevskij, ma si accorse –con un tremito di paura che gli corse per tutto il corpo- che quanto aveva scritto era del tutto illeggibile. Richiuse il libro.

Salinger

Nel racconto Per Esmé: con amore e squallore fa capolino «l’esperienza che ha trasformato Salinger in Salinger», quella della la guerra. Il biennio 44/45 vede il venticinquenne Salinger arruolato. L’orrore dello sbarco in Normandia, morte a vagonate nei corpi ammassati nel lager di Dachau. Lo scrittore newyorkese, che proprio in quegli anni terribili iniziava a scrivere Il giovane Holden nella convinzione che la scrittura gli avrebbe salvato la vita, stremato dall’orrore e dalla paura, fu colpito da un esaurimento nervoso. In seguito disse alla figlia “È impossibile non sentire più l’odore dei corpi bruciati, non importa quanto a lungo tu viva.” Dallo smacco amoroso subito da Charlie Chaplin che gli soffiò Oona O’Neill mentre era al fronte, alla fuga e al matrimonio con la spia nazista Sylvia Welter; dalle relazioni con donne molto più giovani, alla seconda moglie cui impose di lasciare gli studi; dalla maniacale riservatezza, alla rinuncia al mondo; dal gossip filologico, fino a Scientology: tutto si infrange spiega tacita in odore di corpi umani bruciati. Céline con l’acufene e Salinger con l’esaurimento nervoso. Prima e seconda guerra mondiale, macellerie di sensibilità: dovrebbe bastare questo, per sempre, a rispondere agli increduli, ai polemici, ai teorici dell’ “arte-vs-vita-vs-coerenza: dobbiamo-pensarne-qualcosa-assolutamente”. Come scrive Seymour nel suo diario:

La voce umana congiura per profanare tutto quel che abbiamo in questo mondo.

Ma il dolore ha le sue risorse: l’ironia è tra queste, consolazione per perdenti. “L’ironia è una consolazione della quale non hai proprio bisogno quando tutti ti considerano un dio” scrive in Pastorale americana Philip Roth, grande ammiratore di Salinger, da cui trasse ispirazione. C’è la più genuina solitudine in fondo a ogni trovata divertente, l’autentico bisogno di diventare almeno in due, anche quando si è soli, per combattere la noia e le avversità. E di farsi forza, se in gruppo, sul filo di una fantasia baldanzosa. Raccontare per sopravvivere, come fa il Capo del club Comanche, con la storia a puntate dell’Uomo Ghignante, ancora “Nove racconti”.

Il Capo saliva sul pullman solo dopo che noi ci eravamo tutti sistemati. Poi si metteva a sedere a cavalcioni, rivolto a noi, sul sedile del guidatore e con la sua tremula ma ben modulata voce tenorile ci dava l’ultima puntata dell’Uomo Ghignante. Una volta che aveva cominciato a raccontare, il nostro interesse non cadeva più. L’Uomo Ghignante era esattamente il tipo di storia che ci voleva per un Comanche. Forse aveva addirittura dimensioni classiche.

Anche in David Foster Wallace troviamo echi del vecchio JD: i suoi giovani geni incompresi, sempre pronti a sezionare la realtà scovando vuoti, alibi e insensatezze della società americana, sono tutti figli di Holden.

C’è una specie di tacita legge che consente alla gente di un certo livello sociale o finanziario di far tutti i nomi che vogliono, purché dicano qualcosa di insultante su quella persona subito dopo averne fatto il nome: che è un bastardo o una ninfomane o che non fa che drogarsi o altre cose orribili.

In Franny e Zooey, da cui è tratto il brano riportato sopra, ritroviamo ancora i fratelli Glass. Due racconti per due punti di vista diversi sulla famiglia, quelli dei più giovani Glass. In questo passaggio Franny, in piena crisi spirituale, decide di mandare all’aria il suo fidanzamento con il conformista, miope Lane. Nelle storie dei fratelli Glass si fa riferimento più che altrove al Vedanta, sistema filosofico della religione induista, cui Salinger approdò dopo aver già approfondito il Buddismo Zen, di cui si trova traccia invece in Teddy (ancora “Nove racconti”), racconto miracolosamente ispirato, azzurro, innervato di grazia e spiritualità.

-Avevo sei anni quando ho capito che tutte le cose sono Dio, e mi si sono rizzati i capelli eccetera,- disse Teddy. –Ricordo che era domenica. Mia sorella era una bambina di pochi mesi, allora, e stava bevendo il suo latte, e tutto a un tratto vidi che lei era Dio, e che il latte era Dio. Voglio dire, non faceva altro che versare Dio dentro Dio, se capisce cosa voglio dire.

Ma il più grande talento di Salinger è il movimento, delicato, di spettri, che anima le sue pagine, dense di “quella gran corrente di poesia che scorre attraverso le cose, tutte quante” (ancora dal diario di Seymour). La forza dei dialoghi e dei silenzi, delle trovate e dei personaggi, non cede mai alla spettacolarizzazione, all’eccesso: è il racconto di cose quotidiane, piccole e normali, che ha straordinaria vividezza, che si fa vita. Come nel racconto: Lo zio Wiggily nel Connecticut.

Mary Jane, che disponeva di scarsissime risorse per passare il tempo da sola in una stanza, si alzò e andò alla finestra.

L’incomunicabilità è una cortina, l’allegria una luce brillante, la solitudine un’ombra tenace, il dolore è scheggiato e la grazia perfettamente muta, come una carezza. La tenerezza non è una roba stupida, per deboli, ma l’ultimo rifugio del disincanto. Dentro Salinger camminava la luna: una malinconia e una spiritualità di parole in senso zen -fisiche- che ne fa lo scrittore più orientale dell’Occidente. Eppure irriducibilmente critico e puntuale, anche nei confronti del misticismo, come in Zooey, il secondo racconto di Franny e Zooey.

Come fai a non capirlo? Se per questo lavoro del Nuovo Testamento Dio avesse voluto qualcuno con la personalità avvincente di un san Francesco, avrebbe scelto lui, contaci pure. Invece ha scelto il maestro migliore, il più intelligente, il più amorevole, il meno sentimentale, il più originale che potesse scegliere. E finché non riesci a capirlo, perdi tutto il senso della preghiera di Gesù.

Non so se per il Natale sarete più buoni perché ve lo ha detto il pandoro alla tv, o perché ve lo hanno suggerito i diamantini cheap, per poveri, a forma di tutto forse anche di pterodattilo. Come Holden, che racconta “soltanto le cose di matti che mi sono capitate verso Natale”, so che un po’ del magone assaporabile in fondo a questi giorni è dovuto all’unico regalo nessuno riceverà: che tutto resti, così com’è, per sempre.

Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti.

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