Rock will never die | Il Disorder Festival di Eboli

È la voce di Massimo Zamboni ad accoglierci nell’elegante e suggestiva cornice dell’arena Sant’Antonio di Eboli per l’ottava edizione del Disorder Festival che anche quest’anno – grazie all’impegno e al lavoro dell’associazione Macrostudio – propone una rassegna di discipline artistiche e culturali originali e sperimentali che seguono una linea rigorosamente underground e indipendente. La serata si apre alle nove per il salotto letterario con le interviste di Emiliano Nivelli. Questa sera Massimo Zamboni, leggendario chitarrista di CCCP e CSI è qui nelle vesti di scrittore. L’ultimo libro, Nessuna voce dentro – Un’estate a Berlino Ovest, edito da Einaudi, racconta delle settimane trascorse a Berlino nell’estate del 1981 e della scoperta di tutto ciò che sembrava precluso prima di quel viaggio, fino all’incontro – lasciato alle ultime pagine – con un altro ragazzo emiliano: Giovanni Lindo Ferretti. Il racconto di Zamboni è un ritratto affascinante della Berlino di quegli anni “città in teoria dell’oppressione eppure bastava dare un calcio ad una porta e quella casa, quel palazzo diventavano tuoi, potevi aprire una galleria d’arte senza nemmeno metterci dei quadri dentro, un negozio di dischi oppure, come tanti, un forno. Era il concetto del Tuwat – spiega Zamboni – del fare qualcosa (il tun war watt del dialetto brandeburghese), un modo di attivarsi, di cominciare a muoversi”. Nessuna voce dentro è un viaggio all’interno di un’epoca tra momenti di vita personale – il lavoro come cameriere presso una pizzeria siciliana – e quelli collettivi, prodomi del cambiamento come il concerto dei Tangerine Dream davanti a un Reichstag diviso tra le due Germanie, assurto a simbolo dell’unità di un popolo. È un discorso che conduce a una riflessione sui concerti vissuti ormai come eventi a sé stanti, incapaci di porsi in relazione con lo spazio politico, culturale e sociale e di una musica che “purtroppo occupa sempre meno spazio nella vita delle persone, compresa la mia”. Naturalmente c’è spazio per la letteratura con la passione innanzitutto per la beat generation come anche per Joseph Roth e gli scrittori russi. Soprattutto per Zamboni “la letteratura non deve essere con un termine molto in usod’evasione; deve essere semmai di imprigionamento. Voglio entrare in galera, essere rapito da uno scrittore”. Sarebbe possibile oggi un viaggio come quello? “Oggi manca la fantasia – dice Zamboni – le questioni pratiche erano per noi irrilevanti. Oggi ci sono troppi intermediari tra noi e il mondo e i giochi, purtroppo, sembrano fatti e conclusi con una sottrazione continua di terreno spirituale come anche materiale. La verità – conclude – è che è finita così perché non abbiamo avuto tempo, attratti da troppe chimere, distratti da troppe cose”.

Zamboni si ricollega al concetto del Tempo, tema e il filo conduttore di questa ottava edizione. Un topos che sebbene avrebbe svariate sfaccettature, origini e spiegazioni è reso e concepito nel senso più libero e personale del termine come nelle parole di Stephen Hawking “ogni singolo individuo ha una propria personale misura del tempo, che dipende da dove si trova e da come si sta muovendo.” Dalla musica raccontata è tempo di passare a quella del palco dell’arena dove salgono i Larix con il loro nome ad animarsi sullo schermo e nei tanti preziosi giochi di luce che illuminano lo scenario dell’antico complesso che ospitava il vecchio liceo artistico Carlo Levi dalle cui aule ben diciotto anni fa – come mi racconta un’amica – nacque l’idea di una riqualificazione dell’intera area. I Larix si muovono in una direzione che fa dialogare suoni, atmosfere e beat mettendo in comunicazione plastica l’industrial con la drone music, la kosmische musik con atmosfere mefistofeliche da film horror attraverso pattern di elettronica che, come il fumo sul palco, avvolgono le dinamiche della decisa sezione ritmica di basso e batteria.

Gli Arto sono il nuovo super gruppo marchiato a fuoco dal duo familiare dei fratelli Simone e Luca Cavina. Dentro sonorità decisamente post rock i quattro plasmano un suono denso e mai scontato. Il ciano e il magenta sono i colori primari che danzano sul palco in fasci di luce come un’onda – una risacca che viene e va dentro le spirali di una musica primigenia che non offre coordinate stabili al pubblico grazie ai continui cambi di tempo che disegnano percorsi in grado di allontanarsi da strade già battute per cercare e trovare compiutamente una propria narrazione musicale. È un rock che a tratti si fa quasi muscolare anche visivamente con le silhouette di chitarre – Bruno Germano e Christian Naldi – e basso che si stagliano in primo piano e che – pur concedendo poco alle movenze da rockstar consumate – impongono la loro fisicità con le luci del palco a illuminarli alle spalle e lo spazio vuoto della prima linea lasciato libero quasi come una finestra sulla batteria di Simone Cavina vero motore del gruppo.

I Julie’s Haircut – headliner della serata – iniziano a suonare sotto lo sguardo attento di Zamboni che è seduto sulle gradinate tra il pubblico. Il loro è un percorso lungo e affascinante lungo i meandri dell’underground italiano, un percorso fatto di ricerca, di tentativi di disegnare traiettorie che attraverso coordinate ben precise restituiscono il senso di un’estetica musicale che è stata capace di lasciare il segno. Aprono il loro concerto con tenui tessiture che coinvolgono il sax per poi virare subito su ritmi che non lasciano fuori una certa ballabilità grazie alla freschezza che si sprigiona dalle trame avvolgenti, tratto distintivo di una musica rigorosa e sperimentale. Salgono sul palco a poco a poco fino a raggiungere la formazione completa quasi a voler imitare la natura della loro stessa musica, una costruzione che procede per sovrapposizione di elementi. Laura Agnusdei lancia grida nell’aria come se su questo cielo estivo volasse un’affascinante banshee mentre tutta la band porta in scena una musica iterativa, tribale e ipnotica che però nulla ha di ancestrale calata com’è dentro la contemporaneità grazie alle tensioni contrastanti e sotterranee che l’attraversano.

La sera dell’11 agosto si apre con un racconto/libro di animazione edito dalla casa editrice napoletana Barometz Edizioni. Storia di un sasso è stato scritto dalla geologa Rita Cesareo con le illustrazioni di Davide M. Lucchesi. Scientifica nel racconto, Storia di un sasso è metafora dell’eterno divenire, di momenti che ci appaiono di stasi e invece precedono grandi cambiamenti. Una vita letta come “evoluzione perché nessuno nasce per quel che è”. Nelle parole del direttore editoriale Silvia Passerotti c’è il senso dell’intero lavoro che anima la casa editrice: “essere indipendenti significa non sottostare a dei ricatti, significa avere magari un pubblico più piccolo ma a quel pubblico raccontare la verità”. È un invito il suo a unirsi a un progetto delineato come open source che ci ricorda come “la necessità di muovere un passo anche piccolissimo più lungo della propria gamba sia lo sola possibilità per iniziare a muoversi con la forza che deriva dalla consapevolezza che quello che si vuol fare è tanto più luminoso rispetto alla paura che si prova”.

Sul fronte musicale tocca agli Indianizer aprire la serata con una ventata incredibile di energia, vitalità e ritmo. Tastiere, synth, chitarre che costruiscono pezzi che vogliono esplorare – dentro ritmiche precise – territori che oscillano tra il funky e Santana, il suono berlinese di Bowie e il calore del tropicalismo sudamericano. Esplosioni sonore, ritmi in levare, umori tropicali: Indianizer è un cocktail che shakera insieme i gusti più disparati con grande maturità, senza rinunciare alla complessità della scrittura, alla nitidezza di ogni linea, all’inderogabilità di una certa urgenza espressiva. Animal Collective in salsa sudamericana, travolgono il pubblico con una conclusiva cumbia che spinge i ragazzi delle gradinate a lanciarsi sotto il palco per un pogo scatenato che si scioglie nella libertà di una danza caotica e tribale.

Meno a fuoco appaiono invece i C+C=Maxigross insieme a Miles Seaton Cooper. Il musicista losangelino ex Akron/Family cerca fin dal principio il dialogo col pubblico ma una certa delicatezza nell’insieme fa più fatica a far breccia nel pubblico. Impressionano invece molto di più nei riusciti episodi lisergici che riempiono lo spazio dell’arena con un incidere sicuramente più efficace meritandosi anche applausi a scena aperta. Torna a casa è il pezzo dal primo EP in italiano che chiude un’ora scarsa di concerto. Tobia Poltronieri la introduce ricordando la necessità di una resistenza nei confronti della barbarie imperante per poi concludere il pezzo con una lunga e selvaggia coda ritmica che sembra seguire alla perfezione il solco tracciato dagli Indianizer. Il loro live è finito ma Cooper decide di coinvolgere il pubblico in un coro gospel stereofonico che lo vede scendere dal palco a cantare tra la sorpresa e l’entusiasmo degli astanti e il divertimento dei compagni sul palco.

L’ultima fiamma della serata la accendono i veneziani New Candys gruppo di rilevanza ormai internazionale (tra i pochi italiani invitati a KEXP Live) che dimostrano sul palco quanto sia meritato il loro successo. Attenti nei dettagli al suono come allo stile, ispirati nell’approccio – prima ancora che nel suono – alle esperienze dei Velvet Underground e del diamante pazzo Syd Barrett, i quattro si fanno ammirare per un suono affilato e tagliente, una new wave asciutta ma mai ortodossa capace di lasciare spazio a influenze anche più ricche sonoramente. Chiudono la serata con sprazzi di luce dentro atmosfere plumbee che richiamano talvolta proprio i Joy Division cui si deve il nome di questo splendido festival.

Siamo arrivati all’ultima serata con la voglia di viverla appieno e una malinconia strisciante per qualcosa di bello che sta per finire. È un susseguirsi di ringraziamenti da parte degli artisti per il lavoro dei ragazzi dietro l’organizzazione, per l’atmosfera familiare che sono riusciti a creare ed è difficile non unirsi al coro. Il Disorder non è solamente un festival: è uno spazio – in tutte le sue diverse aree, quella letteraria, l’arena, l’Altrarea come anche i bar e tutti gli stand – fatto di incontri e di confronto che anche in questa ottava edizione non si è piegato al mercato imperante scegliendo – ancora una volta – di seguire una strada di vera e assoluta indipendenza.

Il salotto letterario si conclude con Anni Luce, finalista al premio Strega, romanzo/autobiografia con cui Andrea Pomella – scrittore romano – ha racchiuso il racconto del proprio percorso di gioventù nell’estrema periferia romana agli inizi degli anni novanta tra difficoltà personali – in primis quelle di bambino figlio di genitori separati nell’Italia di fine anni settanta – e l’incontro con gli amici, Q. in primis, tra whiskey notturni comprati a 1500 lire alla Standa di Via Tiburtina e viaggi in Interrail a scoprire l’Europa. È soprattutto il racconto di un’epoca attraverso la fascinazione e l’amore per il grunge, i Pearl Jam e l’esplosione di Ten: “una generazione – concetto fasullo ma importante per capire perché quegli anni avessero quel certo colore – che si identificava con il primo genere musicale fondato sul disturbo depressivo. Depressione che era un elemento fondante tanto della narrazione dei cantanti come anche delle loro stesse vite. Q. è per Pomella – che ogni primavera leggeva On The Road di Kerouac con l’atlante davanti per seguire le rotte dei viaggi – un Dean Moriarty in carne e ossa: “Q. era un anarchico mentale con una schizofrenia di fondo difficile da gestire. Ho ripercorso mentalmente i viaggi della nostra amicizia fino a capire che Q. era rimasto vittima di sé stesso e dei propri abusi. Solo pochi mesi fa l’ho rivisto dopo anni per consegnargli la prima copia stampata del libro e ho trovato un uomo nuovo”. Sullo sfondo, dicevamo, il grunge e la storia personale di Eddie Vedder, quello specchiarsi negli stessi problemi familiari: “Io e Q. prendevamo alcol e facevamo feste per distruggere le case, perché il nemico era dentro casa”. Fuori invece c’era un mondo da conoscere: “venivo dall’estrema periferia romana e cercavo il nemico. Non era un nemico sociale, non sopportavo quelli che cercavano di crescere troppo presto, sperperando la loro gioventù, cercando una normalizzazione per cui avrebbero avuto tutto il tempo di una vita. Noi vivevamo come disgraziati ma – senza esserlo nemmeno lontanamente – come delle rockstar. E siamo stati l’ultima generazione forse che quando sentiva la parola Europa aveva in mente un’idea di libertà, di movimento, di vita. Gli ultimi che hanno tentato davvero di vivere l’Europa, che hanno tentato di abitarla, sentendosi a casa”. Dalla Berlino di Zamboni alla Germania unificata degli anni novanta il salotto letterario del Disorder è una luce di speranza in tempi bui.

Sul piano musicale ad avere l’ingrato compito di preparare la strada agli Uzeda ci sono stasera gli Asino e i Father Murphy. Se i primi, duo di batteria e chitarra accendono comunque l’arena proponendo una miscela di ritmiche e spoken word (che ricorda inevitabilmente i Massimo Volume, come anche nell’uso dei registrati – un’affannante Galeazzi a celebrazione dell’oro dei fratelli Abbagnale alle Olimpiadi di Seul del 1988 – i Fuzz Orchestra) certo non originale, sorretta però da una buona tecnica e da un’energia che li mette in forte connessione col pubblico, i secondi invece – autori di un suono che vuole essere espressione del senso di colpa cattolico – finiscono col colpire più per la messa in scena da officianti di un rito occulto – cui si ispirano nelle atmosfere – che nella resa musicale che finisce con l’essere un po’ monocorde e inefficace tenendosi purtroppo lontani tanto da atmosfere alla Jocelyn Pook che dalla creatività dei progetti legati all’esoterismo di John Zorn.

Finalmente gli Uzeda salgono sul palco, headliner della serata e idealmente dell’intero Festival. L’arena è piena come non mai, l’entusiasmo è nell’aria ed è incredibile come questi quattro “ragazzi” che hanno pubblicato il loro primo disco nel 1989 siano in grado di attrarre folle con il loro semplice nome su un cartellone. Quello che evocano con la loro presenza è un mondo che è difficile da immaginare oggi, figuriamoci nella Catania di fine anni ottanta: non ci sono orpelli, nessuno stile particolare nel vestire, ogni cosa sembra volersi ridurre all’essenzialità di un rock combattivo che non ha bisogno di null’altro che di sé stesso. Bastano le prime note che erompono dalla chitarra di Agostino Tilotta per ricordare come gli Uzeda sono la ragione stessa per cui esiste il rock. Ogni nota, ogni muscolo, ogni gesto, ogni fibra del loro corpo sono lì a testimoniare la necessità di esserci, di gridare la propria rabbia, il bisogno di credere in un mondo diverso senza nascondersi. Il corpo di Tilotta è attraversato dalla stessa elettricità che anima i suoi veloci riff, Giovanna è una vera e propria sacerdotessa che non ha perso nemmeno un frammento di quella rabbia, di quello stare dentro ai pezzi, nelle parole che canta con quell’energia che dalla voce passa per il corpo nella gestualità che implode in gesti ripetitivi, quel concedersi al pubblico aprendo le braccia. Con Oliveri più misurato dietro la batteria, Raffaele Gulisano al basso è uno spettacolo in sé: con un ciuffo di ordinanza che lo fa apparire come un David Lynch meno meditativo e più sornione, flirta col pubblico, sorride mentre pizzica le spesse corde del basso allentate a restituzione di un suono così rappresentativo di un’epoca eppure ancora così attuale. Colpiscono soprattutto gli sguardi che rivolge ai compagni di una carriera ormai lunghissima che li vide primi italiani alla corte di Steve Albini, primi a incidere per la Touch & Go, a dividere i palchi degli States con gli Shellac. Gli occhi di Giovanna Cacciola sono pieni di passione alla fine di ogni pezzo, come a farsi medium dentro il caos controllato, le esplosioni sonore dei compagni, davanti a una folla urlante tra chi consolida una fede mantenuta intatta negli anni, chi si sorprende della loro bravura, ragazzini forse nemmeno maggiorenni che li guardano estasiati – “adottami!” è il grido che arriva dalle prime file a marcare una distanza anagrafica dietro cui si cela la complicità di una musica in cui finalmente ci si riconosce. Il grazie sottile a mezza voce di Giovanna mostra il lato più dolce, quel “buona fortuna” prima degli ultimi due pezzi suona come l’augurio di una madre sciamanica del rock che sa come ancora oggi ci sia bisogno di una musica capace di scuotere le coscienze in tempi così difficili. Dopo più di un’ora di concerto non c’è purtroppo tempo per altri pezzi, la band vorrebbe continuare a suonare ma ci sono le rigide regole di buon vicinato. Ma è davvero difficile pensare a un altro finale così perfetto.

In realtà come per gli altri giorni di festival la fine dei concerti sul palco dell’arena non coincide con la fine della serata: dall’una in poi il pubblico che ha ancora voglia di abitare la notte può spostarsi in Altrarea, lo spazio più piccolo e concentrato dedicato alla musica elettronica. Tra i musicisti che si sono esibiti ci hanno colpito soprattutto Zyklus, moniker dietro cui si cela il tastierista degli A Toys Orchestra che ha proposto un interessante dialogo tra passaggi intimistici alla Ludovico Einaudi e contrazioni beat e, proprio in quest’ultima serata, Khompa, torinese – come ci ripete in maniera entusiasta per tutta la serata – autore di un interessantissimo progetto di elettronica applicata alla batteria e alle percussioni, sorta di evoluzione del piano preparato di cageana memoria, che qui si fa possibilità di espressione elettronica per la batteria.

È stata una grande festa questa ottava edizione. Non ci eravamo mai stati e sappiamo adesso sotto un cielo che regala ancora qualche stella cadente che sarà impossibile non tornare qui.

Tutte le immagini: Luci Distorte Photo
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