Domani avremo altri nomi, o forse no

[…] aveva scoperto di colpo che non sapeva come andare avanti, che Lei si era portata via anche le istruzioni per farlo.

A chiudere Club privé, disco del 1999 dei Massimo Volume, c’è un pezzo che si chiama Altri nomi, è molto bello e inizia così: Avremo altri nomi / E altri modi per perderli di nuovo / Chiameremo nuovi numeri e avremo altri nomi / E altri modi per perderli di nuovo. Una canzone d’addio le cui parole mi sono rimbombate in testa all’improvviso, non appena ho avuto sottomano la traduzione italiana di Mañana tendremos otros nombres (Domani avremo altri nomi). Una storia di un amore che finisce, come forse ce ne sono tante altre, ma davvero come nessuna. L’ha scritta l’argentino Patricio Pron, che ci ha conquistato pure un premio prestigioso come lo spagnolo Alfaguara nel 2019, ed è arrivata in Italia per edizioni sur, nella traduzione a cura di Francesca Lazzarato, ad aprile.

«È finita», affermò. Prima ancora di poterci pensare, tutti e due stavano piangendo in silenzio, ai capi opposti della stanza. Lei pensò che quello era l’ultimo momento che trascorreva accanto a Lui, e le sembrò prezioso. Lui pensò che era l’ultimo momento che trascorreva accanto a Lei, e gli sembrò prezioso, ma subito dopo pensò che la cenere della sigaretta stava cadendo sul tappeto e si odiò per questo.

 

Lui e Lei, dopo una relazione durata cinque anni, si lasciano. C’è una sorta di universalità nella loro rottura, non ne sapremo mai i rispettivi nomi, ad esempio. Lui viene lasciato da Lei, che in un primo momento non dà spiegazioni. Anzi: arriva a mentire pur di comprendere meglio e riuscire a trasformare in parole tutto quello che sta succedendo alla coppia che sono stati per tanto tempo. Dire di avere un altro è più semplice che sparire e basta, deve aver pensato. Lui, uno scrittore di non fiction, rimane solo in quella che era la loro casa a Madrid, comincia a tirare giù libri dalla libreria comune e ne strappa le pagine. Inizia a rimuginare, si interroga, si dispera. Non riesce a vedersi senza di Lei.

Si diventa estremamente vulnerabili, arrabbiati, depressi, meschini, soli e inconsolabili quando quell’essere bifronte (che era il nido, che era la coppia) viene a mancare. E tutto questo in Domani avremo altri nomi è estremamente chiaro. Si è contemporaneamente vittime e carnefici, si fa di tutto per poter portare al momento pre-rottura, ma non sempre questo è possibile, né auspicabile. A volte vale addirittura per chi lascia, come nel caso della Lei delineata da Patricio Pron, mai del tutto convinta eppure decisissima a farlo.

Ma anche la sua storia d’amore con Lui era spazzatura, residui di storie e sentimenti per i quali non esisteva un adeguato sistema di riciclaggio.

Nel mezzo, la vita continua anche senza l’altro. Allora eccoli qua i ricordi, le parole, le storie, gli incontri occasionali e le nuove modalità per arrivarci (Tinder, siti di incontri vari). Al piano narrativo ai protagonisti Lui e Lei si accavallano e, spesso, sovrappongono vere e proprie analisi sociologiche, deformazione professionale dello scrittore di non fiction dal cuore spezzato che, però, lentamente sembra riprendersi. O almeno ci prova.

A fare capolino tra le pagine troviamo il tempo (infinito eppure esiguo), le storie e le testimonianze altrui (non si è mai del tutto soli in questo tipo di esperienza, tuttavia è così che ci si sente, soli e speciali in fondo al baratro), persino il Museo delle Relazioni Interrotte di Zagabria.

 […] tutti noi abbiamo avuto più di un partner di un tipo o dell’altro, e ciascuno è venuto dopo il fallimento di un partner precedente. Chi sono stati i tuoi partner, prima di Lui, e perché vi siete lasciati?

Perché? Questa è la domanda che riecheggia per buona parte del romanzo, ovviamente. Probabilmente non c’è neanche una risposta chiara. La gente si lascia, e basta. Eppure Patricio Pron non ci sta e va oltre, riuscendo a meravigliare (o lasciare interdetto, dipende dai punti di vista) chi legge in più di qualche punto.

Insomma, Domani avremo altri nomi, ma non è mica certo. Se la prima parte del romanzo risulta esemplare e chirurgicamente accurata nella scomposizione del dolore, più in avanti questa caratteristica si perde, prima lasciando spazio ad altro e poi ritornando su terreni già noti. Resta, comunque, una lettura capace di allontanare quella caratteristica solitudine da fine conosciuta un po’ da tutti.
La foto di Patricio Pron presente nell’articolo è di Basso CANNARSA/Opale
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