La fantapocalisse linguistica di Domitilla Pirro

Se c’è una scrittrice attualmente in attività capace di raccontare bene le vite di ragazzini e ragazzine e, soprattutto, pure di comunicare con loro, come a dire io ci sono, sono qua, totalmente con voi, vi capisco, vi ascolto tutti i giorni, questa è senza dubbio Domitilla Pirro.

Che sia la vita da zero a vent’anni o giù di lì di Palma, detta Mina detta Palla, fantavalanga arrabbiata da Monteluparo o della banda composta per la maggiore da preadolescenti Nati Nuovi che si ritrovano a fronteggiare quel casino totale di apocalisse a Limine, all’ospedale Chianalini e tutto intorno (insomma, la zona è quella e le ambientazioni giustamente ritornano), poco importa.

Domitilla Pirro ha scritto due romanzi belli e interessanti, Chilografia. Diario vorace di Palla e Nati Nuovi. L’apocalisse dei ragazzini entrambi pubblicati per la casa editrice indipendente effequ. Due storie belle perché si fanno leggere, nel senso che le inizi e non te ne stacchi più. In più, sono interessanti dal punto di vista linguistico e comunicativo perché sono storie vive, parlano dei ragazzini e delle ragazzine protagonisti, ma soprattutto si rivolgono in maniera chiara proprio a loro, non potrebbe essere altrimenti. Si esprimono come loro.

Nell’attesa che questi due romanzi vengano adottati in tutte le scuole dalle fantastiche medie in poi e, naturalmente, da ogni lettore curioso che abbia una spiccata fascinazione per una commistione linguistica potente tra dialetto e italiano standard, slang da gamer e piccole bellissime intromissioni pop, vediamoli più da vicino.

La banda de li sfascioni: Nati Nuovi. L’apocalisse dei ragazzini (2021)

Ne Il mondo salvato dai ragazzini, raccolta di poemetti, storie, canzoni e suo manifesto poetico, Elsa Morante affida il mondo intero alla forza, alla gioia dei più giovani spesso messi da parte dalla società, sottovalutati, indigenti. Quello che Domitilla Pirro si ritrova a maneggiare, nel suo secondo romanzo che è materia viva ed esistente da un bel po’, è proprio la forza di questi ragazzini, i Nati Nuovi.

È colpa dei Grossi se adesso sono i Grossi i più deboli” dirà Gabri. “È che la natura s’è rottarcàzzo” dirà Lena, o forse Rica, non importa.

Nati Nuovi e cioè nati due volte, nati di nuovo, sopravvissuti a qualcosa, diventati altro da sé rispetto a un primo in cui c’erano i Grossi, gli adulti, ma adesso non ci sono (quasi) più. Un bel casino. Una serie di eventi hanno portato bambini e bambini, ragazzini e ragazzine di età diverse, tutto un tratto, a doversela vedere da soli. Alcuni di loro si sono trovati e hanno fatto gruppo, la banda de li sfascioni, prendendo le mosse da quella serie di Eventi che ha cambiato tutto. La loro cittadina è ormai irriconoscibile. Bisogna fare i conti con una serie di lutti, con la solitudine e lo smarrimento. Cose per niente facili nemmeno da adulti, in realtà, figuriamoci da bambini. Imparare a provvedere alla propria sopravvivenza a partire dai bisogni primari, procacciarsi il cibo (andare a caccia di Risorse), vedere dove dormire, non avere paura anche quando la tremarella è tanta.  

“Dovrebbero èsse senza mamma e papà i viaggi meglio? Dovrebbero èsse che li facciamo da soli, coi vestiti zozzi e le maniche incrostate di marrone per via dei graffi che m’hai fatto mentre ti stavi a pisciassótto, eccetera?”

I Nati Nuovi di Domitilla Pirro sono i Diti, quattro femmine e due maschi per un totale di sei, perché Vera, che ha dodici anni, è il palmo, quella che sostiene tutti gli altri. Età varie, così come i loro caratteri e personalità, così come per le loro storie. Alcuni, in tutto questo, si ritrovano più soli di altri, perché non hanno sorelle o fratelli a supportarli, a ricordargli che una famiglia c’è e, magari, ci sarà ancora. Ognuno di loro, nel gruppo, nella Mano, si ritrova indissolubilmente legato all’altro, ed è un bene. La più piccola è Ari, il mignolo.

«Vera».

«Eh».

«Vera».

«Eh, ni’, eh».

«Una cosa».

«Dimme».

«Tipossochiéde tipossochiéde una cosa?»

«Vera t’ha detto dimme, santa pace, diglielo no, Ari. Diosànto. Che grezza. Scusa eh Vera. Ti chiami Vera? Fico».

«Grazie».

«Vera».

«Eh».

«Ma se siamo malati, cioè se siamo malati-malati che poi muoriamo, tu l’hai capito come si capisce? Tu lo sai bbbene?»

In questo dialogo tra Vera ed Ari possiamo ritrovare buona parte del linguaggio mimetico e fedelissimo a chi parla utilizzato da Domitilla Pirro quando scrive. O, meglio, quando scrive e nella vita perché si vede lontano chilometri che è il suo. Il Tipossochiéde tipossochiéde una cosa? di Ari racchiude tutta la preoccupazione dei suoi quattro cinque anni, del mignolo che vede nel palmo che ha davanti una sorta di rassicurazione, di saggezza acquisita con l’età. E la preoccupazione è che poi muoriamo, come pare sia successo a tutti i Grossi, mannaggia a loro. E se non è colpa loro, allora di chi?

«Tipo che tu ti senti male, ninni? Ti senti la febbre? È normale all’inizio, questa è l’unica cosa che c’amo capito.»

Come già in Chilografia, anche in Nati Nuovi l’italiano regionale di appartenenza, quello in cui Pirro trova il suo angolino ideale per raccontare il mondo, è quello proprio del Lazio. Una parlata che per musicalità sembra romana, ma che romana-romana proprio proprio non è, va un po’ oltre, oltre sicuramente i Castelli. Da queste parti, i bambini in genere si appellano con espressioni bellissime come e ninni, accoglienti e rassicuranti, in qualche modo delimitanti allo stesso tempo perché chi ti chiama così ti vuole far capire che tu sei nì, sei piccolo.

L’apocalisse che è letteralmente piombata addosso ai Diti è un livello da sbloccare, una sventura da cui non venire totalmente spiantati, mai nella vita, ma l’Innesco è in atto e dietro non si torna. Non c’è più nessuna certezza dopo i vari Eventi (quello del cinema, quello dell’ospedale), si può solo cercare di non disgregarsi più di quanto non succeda già. Anche a livello linguistico e di scelta nell’organizzazione del testo, la cosa è evidente: capitoli molto brevi, super descrittivi a partire dal titolo stesso di ognuno e pieni pieni di parole. Dense, che sanno di bigbabòl e disinfettante per ospedale.

Rotola, fantavalanga: Chilografia. Diario vorace di Palla (2018)

Chilografia è il romanzo d’esordio di Domitilla Pirro ed è pure il modo giusto per innamorarsi della sua scrittura. Palla, all’anagrafe Palma, è una ragazzina di Monteluparo. In un mondo in cui si ritrova sempre sola fin da piccolissima tra il divorzio dei suoi, una sorella fin troppo perfetta che si vergogna di lei e la deride, coetanei che non stiamo qui a raccontarvi quanto possano essere cattivi perché lo sapete, insomma in mezzo a tutto questo poco amore e alla ricerca sfrenata dello stesso il cibo è il suo unico amico.

 A Palma nessuno la divorerà mai. Adesso apre la bocca, da brava. Stacca la capoccia alla colombina mandorlata. (Che schifo, ha il ripieno di pistacchio. Non fa niente. Mangia uguale.)

Palma fa aaa.

E infatti Chilografia è proprio una storia di chili. Di tutti quei chili che sostituiscono così belle quell’amore che non c’è. Un cuscinetto per la tristezza, un antidoto al vuoto. Inevitabilmente, tutto o quasi nel libro riporta alla sfera semantica del cibo. Non fa niente. Mangia uguale, bella de nonna. Perché, poi, quando arriva l’amore non è mai come se l’era immaginato. In tutto questo si inserisce un arco narrativo che va dai fantastici anni Ottanta ai primi Duemila e che riesce a racchiudere tutto un percorso a riccio della protagonista: Palma cresce, si trasferisce a Roma, i chili aumentano e l’ago della bilancia li segna, la solitudine sta sempre là e… a quel punto subentrano i videogiochi e le chat. Il gioco per il computer in questione è iconico: The Sims. Come se la simmina Kate potesse essere una proiezione di sé stessa, di come vorrebbe essere nella vita. Palma si chiude al pc e gioca per notti intere. E cracca e gioca e scarica, incappa in problemi col computer finisce sui forum d’aiuto per gamer. Qua conosce Angelo e iniziano a chattare. Lei, titubante, non fa mistero dei chili e del poco amore che si porta addosso. Per lui non è un problema, anzi. Eppure quello che sembrava amore, in realtà, è solo un’altra gabbia di cui liberarsi.

La narrazione assume, nella storia di Palla, toni trascinanti da fantavalanga. Niente racconta meglio una bambina e poi un’adolescente di provincia di una lingua fatta di dialetto, italiano regionale (sempre di Monteluparo, sempre quei paesi fuori dal raccordo dove ti chiamano pure burino/a, ma chi li ascolta) e italiano standard anche altissimo.

Il nonno era: Franco, cadere dalla bicicletta, le caramelle Rossana dopo la Messa, la casetta sul carrubo, i cesti di fichi, ciliegie more albicocche, chi l’ha moccecatu ‘a serpe ha paura de ‘a mucerta, il macellaio del paese, il padre di Sauro, i pantaloni a coste con la toppa di plaid, portamu i ciclamini a nònneta, prendere i giri (ma mai le lucciole) risalire sulla bicicletta, il sigaro sturato di corsa, gli ulivi in fondo al discesone dei Tre Pini, sòreta da micchia era propiu ‘n ommenittu, ‘n diavolacciu.

L’adolescenza della protagonista è quella lunga lunga che ben conosciamo, quella che accompagna ben oltre i vent’anni. Insieme a lei cresce il vuoto, l’insicurezza, il disprezzo di sé. Anche se ha pensato diverse volte di farla finita, Palla è attaccata alla vita e il mangiare le restituisce un po’ di quel calore che la sua vita non ha. 

Bentornati, fatto buone vacanze? vaffanculo. 8 ottobre, martedì. Prima versione di latino del secondo anno: quattro secco. Alla Decaro fregava poco che Sauro avesse pagato le ripetizioni con quel fregno di Lorenzo-del-piano-di-sopra per tutto il mese di agosto; alla Decaro fregava poco in generale. Quando aveva riportato i compiti in classe (Pseudo-Cicerone, tra l’altro: checazzovordì Pseudo-Cicerone, o è Cicerone o non è Cicerone), l’insegnante aveva trovato il tempo di ironizzare sul titolo del brano capitato a Palma, Lode alla bellezza! L’alunna era davanti alla cattedra in tuta da ginnastica, un rotolo di panza trattenuto dall’elastico di acetato e l’eau di calzini zozzi più pallavolo.

La cattiveria degli altri la ferisce, c’è dentro Palla un rancore mai sopito che la devasta. Eppure è sempre lei, sempre accondiscendente, specie con Angiolé, almeno fino al punto di non ritorno.

Palla trova così il modo di avere la sua rivincita, su tutto, e lo fa con tempi e modalità che spiazzano totalmente chi legge. I ragazzini di Nati Nuovi sorprendono per la loro caparbietà, anche nei momenti in cui tutto sembra perso. D’altronde parlavamo della fantastica forza di tutti i ragazzini del mondo e questi due romanzi non sono che un buon esempio.

La potenza della scrittura di Domitilla Pirro è un’esplosione di espressioni colloquiali, rimandi pop e parole dense che non ci si aspetta. Leggerla è sempre un piacere e crea dipendenza, questo perché è bravissima (ma già l’avevate capito, non devo di certo dirvelo io, dài) a raccontare storie favolose nate dalla testa della sua autrice che assorbe, come una spugna, dalla realtà a cui fa fare un giretto nel frullatore prima di raccontarla, tra apocalissi e fantavalanghe. Amerete i Diti, amerete Palla e smetterete pensarci difficilmente.

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