Dove va la poesia. Conversazione con Lello Voce

Lello Voce non è un poeta noto al grande pubblico. A dire il vero, pochi, a meno che non siano morti o abbiano vinto il Nobel, lo sono. Chi fa poesia, alla pari di chi tiene un blog, non si vuole certo troppo bene. Gli spazi per la divulgazione dei versi, soprattutto quelli giovani, raramente oltrepassano l’asfittica cerchia dei conoscenti.

Voce giovanissimo non lo è, ma si trova comunque a fare i conti con una scena letteraria che, in Italia come all’estero, non premia il suo mestiere. Se poi ci aggiungiamo il dato biografico per cui l’autore è un napoletano trapiantato a Treviso, dove i leghisti usano i terroni come sagome nei poligoni di tiro delle loro scemenze, ne esce un quadro complicato. Eppure lui ha trovato una sua dimensione, sia come creatore di poesia, che come divulgatore. Lo testimoniano una voce Wikipedia ben nutrita e un blog su Il Fatto Quotidiano.

Se bazzicate ilfattoquotidiano.it, Lello Voce è questo qui

Nella vita poetica di Voce ci sono molti aspetti interessanti. Ne abbiamo parlato.

La tua poesia non è rimasta solo su carta, ma si è spesso confusa con la musica. I versi sono stati accompagnati da molti artisti (Fresu e Bassanese, tra gli altri). E’ una sconfitta della parola, che non riesce ad essere da sola abbastanza interessante, o un semplice supporto?

Sì, mi sono spesso fatto accompagnare, nella lettura dei miei versi, da strumentisti, in particolare Frank Nemola. E’ uscito anche qualche album. Questo perché la poesia è prima di tutto musica, ritmo, cadenza. Non dimentichiamoci che l’alfabeto è il tentativo umano di fissare sulla pagina proprio il suono, il ritmo della parola. La poesia nasce subito dopo il suono e di suono è sostanziata. Poi l’uomo l’ha portata nel libro, uno strumento di enorme valore, perché permette al lettore di incontrare i versi in una dimensione intima, una dimensione altrimenti impossibile. Ma i la poesia nasce – e penso a civiltà avanzate come quella greca arcaica – dalla tradizione orale che è prima di tutto ritmo. Naturale quindi far accompagnare i miei componimenti a dei musicisti. Anche perché tutta la produzione poetica sta ritornando alla voce.

In che senso?

Nel senso che il libro sta perdendo le sue caratteristiche di strumento dominante per la fruizione dei versi. E’ ancora un mezzo avanzato e fondamentale, per le ragioni a cui accennavo prima. Eppure, anche grazie alle nuove tecnologie e i mezzi a disposizione, la poesia sta ritornando alle sue radici orali.

Ecco, il web. Cosa pensi della poesia sulla Rete? Internet non sembra il luogo adatto ai versi. La navigazione predispone ad un utilizzo rapido e spesso superficiale anche solo delle informazioni, figuriamoci della poesia. Noi a L’Indiependente, nel nostro piccolo, ce ne accorgiamo ogni giorno: i contenuti articolati trovano poco spazio sulla Rete.

Sì, è vero. Navigare è proprio questo: saltare da un’informazione all’altra, sbocconcellando un po’ qua e un po’ la. Per questo esiste una poesia che non potrà mai essere pienamente ospitata dal web. Un certo tipo di versi ha bisogno di tempo per decantare e venire pienamente compresi. Ma vi sono anche modalità espressive adatte alla Rete, vie poetiche nate su internet e lì perfettamente apprezzabili. Penso alla twitter poetry, ad esempio.

Torniamo alla poesia orale. Tu sei stato il primo a portare in Italia i poetry slam. Di cosa si tratta?

Sono incontri pubblici in cui vari autori si sfidano e vengono valutati da una giuria popolare. I componimenti sono recitati dai poeti stessi. Ad essere messo a giudizio è sia il contenuto dell’opera, che il modo in cui viene esposto. Ma a farla da padrona è la poesia, non la recitazione. E’ un’idea nata a Chicago nei primi anni ’80 e portata in Italia da me nel 2001. I poetry slam, oltre a ben interpretare la tendenza di ritorno all’oralità a cui accennavo prima, hanno molti altri punti di interesse. Sono un modo, forse l’unico in questo momento, con cui i giovani poeti possono far conoscere sé e i propri componimenti. Inoltre la giuria popolare è chiamata a valutare, prendendosi la responsabilità di dichiarare un vincitore. Viviamo in una società di eterni adolescenti: l’esercizio del giudizio è qualcosa che ci manca fortemente. E poi i poetry slam hanno il grosso pregio di avvicinare, anche in maniera ludica, il pubblico alla poesia.

E come sono stati recepiti dalla scena letteraria in Italia?

Malissimo, malissimo. Molti autori ci hanno giudicati degli usurpatori. Il nostro esperimento una scemenza. Poi hanno dovuto ricredersi. Il successo dei poetry slam ci ha dato ragione, ma c’è ancora molto sospetto. La cerchia dei “poeti professionisti”, minuscola e miope, fatica ad aprirsi e così si condanna all’estinzione. Da un punto di vista prettamente qualitativo i poetry slam non hanno ancora raggiunto il livello di altri Paesi. Spesso partecipo a serate che non sono granché, altre volte ne esco arricchito.

Rimaniamo sul tema della diffusione della poesia. Tu sei stato invischiato in molti festival dedicati proprio all’argomento. È un metodo efficace per avvicinare le persone ai versi? Qual è la tua diagnosi del panorama italiano?

Siamo molto provinciali. A parte il Festival di Genova, la tendenza è sempre quella di coinvolgere o soltanto la scena poetica locale oppure chiamare il premio Nobel di turno. Questo non porta nessuna novità, non ci sono scambi. Così non si va molto lontano. Io sono stato il Direttore Artistico dei Festival di Roma e Monfalcone e purtroppo la crisi ci ha dato una bella mazzata. D’altra parte i tagli, dispiace dirlo, vanno sempre a colpire la cultura. Torno ora da Atene, dove, in mezzo al ciclone economico e sociale greco, si sono trovati sponsor e volontà politica per imbastire un festival che ha coinvolto fino a mille spettatori paganti a serata. Ecco, se anche loro ce la fanno…

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