Down and out in New York City. 3 opere e 3 decadi per arrivare all’Hip Hop. 2/3

Pochi fenomeni culturali – e parlare di genere musicale sarebbe riduttivo, se non improprio – hanno avuto una genesi e uno sviluppo complicato quanto l’Hip Hop. Proprio come il sampling, il campionamento, che ne è il marchio di fabbrica, l’iconografia di questo mondo si è costruita nel tempo, per stratificazioni sonore e non: l’emarginazione sociale made in America unita all’orgoglio afro di Fela Kuti, l’ostentato machismo della Blaxploitation con l’ambiguità sessuale di Prince, l’asprezza del funk sovrapposta lirismo pacchiano della disco music, la retorica di Bruce Lee a imbastardire quella di Malcolm X.

C’è un Mondo, là dentro. E come ogni pianeta che si rispetti, le contraddizioni che ne costituiscono le fondamenta hanno impiegato anni ad amalgamarsi tra loro, a trovare una coerenza, un modo per convivere in pace. Se volete godervi il risultato finale, lasciate perdere questo pezzo e date un’occhiata a Big Fun In The Big Town, un documentario olandese(?) che è la migliore introduzione possibile all’epopea di Grandmaster Flash e dei suoi seguaci. Ciò che troverete qui è, invece, la strada più lunga, che attraversa un libro (Uomo invisibile), un documentario (What happened, Miss. Simone?) e una serie tv (The get down). Niente pausa-sigaretta, mi dispiace. Queste tre opere, così diverse tra loro per stile e profondità, sembrano però formare, insieme, un’(inconsapevole) guida per chi volesse comprendere quali eventi, ma soprattutto quali sentimenti, hanno portato alla nascita della doppia H in quegli anni, a New York, nel Bronx.

Qui la prima puntata: L’abbandono. Uomo invisibile – Raphael Waldo Ellison (1952)

 

2. L’orgoglio. What Happened Miss. Simone? – Liz Garbus (2015)

Cosa è rimasto, oggi, della storia di Nina Simone, e di quella del movimento per i diritti civili, di cui era simbolo e leader, nelle nuove voci della comunità afroamericana? In apparenza, davvero poco. L’Hip Hop, la più accreditata, comunitaria, o quantomeno viscerale, manifestazione della cultura black, è ormai ridotta ad un tripudio di sessismo e banalità: i suoi sacerdoti intenti a ricercare l’uguaglianza razziale più nella materia che nello spirito, donne, auto, soldi, armi. Questo il luogo comune che si è venuto ad accumulare, rima dopo rima, nel corso degli ultimi vent’anni, frutto della deliberata quanto efficace demonizzazione teo-con, perpetrata con inaudita veemenza ai tempi di Rodney King e ben trasmessa dall’(autocelebrativo ma riuscito) Straight Outta Compton, nonché di un effettiva carenza di contenuti. Come sempre, però, lo stereotipo contiene una porzione di verità, la più appariscente, celandone allo stesso tempo un’altra. L’“altra” verità, in questo caso, è che una minoranza non così sparuta di artisti, il cosiddetto left-field Hip Hop, non ha dimenticato la lezione di Simone, l’orgoglio di essere neri e africani, ma, soprattutto, la propria responsabilità di coscienza sociale di una comunità.

L’opera di crew come i Soulquarians (The Roots, D’Angelo, Erykah Badu…) non è infatti meno politica di quella mainstream dell’evergreen Toni Morrison o del nuovo (mediatico) che avanza, come Ta-Neishi Coates, con la sua retorica quanto toccante lettera al figlio. Lavori, questi ultimi, “istituzionali” e cerebrali (e non è sempre un bene), nei contenuti ma, soprattutto, nella forma: il romanzo. Se la lezione di Marshall McLuhan resta però ancora valida, ed è così, allora dove e come quelle parole vengono sputate ha una sua rilevanza. Una pubblicazione sul New Yorker, insomma, piaccia o no, non ha un impatto sociale lontanamente paragonabile a quello di una hit in heavy rotation. “Say it loud: I’m black and I’m proud”, predicava James Brown alle folle: forse il modo più efficace di farlo, nel 2016, è metterle in rima e gridarle. Ma se questa via di fuga esiste ed ha assunto una forma ben definita – la doppia H, appunto – è anche grazie ad artisti come Nina Simone, con la loro musica, politica e poetica, sentimentale e violenta, terrena ed eterea, come ogni opera Hip Hop degna di questo nome deve essere. Affondata nella realtà, insomma.

E la storia di Nina Simone è stata appunto inscindibile da quella della propria comunità. Bambina che sognava di diventare la prima pianista classica di colore, ragazza attivista e fiera delle proprie radici poi, donna sfiancata dalle tante battaglie, negli ultimi anni della sua carriera. Ricerca di accettazione, consapevolezza folgorante e amara rassegnazione: tre sentimenti che la comunità afroamericana ha vissuto, eccome, sulla propria pelle nel corso della storia. Il biopic di Liz Garbus, What happened Miss. Simone?, distribuito da Netflix, riesce a raccontare, senza retorica, gli alti e i bassi di una donna che viveva nella realtà, e che da essa veniva continuamente influenzata in ciò che scriveva e cantava, arrivando ad esserne quasi distrutta.

You don’t have to live next to me

Just give me my equality

Everybody knows about Mississippi

Everybody knows about Alabama

Everybody knows about Mississippi Goddam

Mississippi Goddam, dannato Mississippi. Nessuno prima di lei aveva avuto il coraggio di gridarlo in faccia a quelli che benpensavano nell’America degli anni ’60. E per il suo coraggio Nina Simone pagherà un prezzo altissimo, mettendo da parte, esclusa da tutte le radio del paese, le proprie ambizioni di successo, così come la relazione con il proprio marito-manager, che alla via dell’impegno politico avrebbe preferito per lei quella della diva jazz, e, infine, esasperando i tratti bipolari che la caratterizzavano.

Nina Simone non credeva nella non-violenza, ma aveva scelto comunque di affidarsi alla guida convintamente pacifista di Martin Luther King. E il suo assassinio a Dallas segnerà uno spartiacque definitivo nella storia della comunità black – la fine della grande speranza nell’attivismo politico come strumento di liberazione – così come nella vita della cantante, portandola, sempre più instabile e disillusa, a riallacciare i legami con la madre Africa e a ripiegare in Europa, lontana dai suoi demoni.

Folks you’d better stop and think.

Everybody knows we’re on the brink.

What will happen, now that the King is dead?

We can all shed tears; it won’t change a thing.

Così cantava Simone alla cerimonia funebre di Martin Luther King: una voce sola, disillusa e incerta, ma che, proprio rivolgendosi ad un’intera comunità, presunta o reale che fosse, ne manteneva in vita l’idea stessa. È questo che rimane di Nina Simone nella musica black di oggi: il superamento dell’invisibilità non nell’ideologia, né nella retorica, ma nel racconto di un vissuto individuale, oggettivo e reale, in cui un intero popolo possa immedesimarsi. La morte di Rodney King, l’uragano Katrina, gli scontri di Ferguson sono eventi che parlano da sé. Nella società iper-mediatica in cui viviamo, le voci del popolo non possono più limitarsi a denunciare ed enfatizzare, ma devono vivere, da protagonisti, ciò di cui parlano. Nina Simone, sacrificando la propria carriera, la propria vita personale, e perfino la propria salute per ciò in cui credeva, l’ha insegnato ad un’intera generazione di artisti.

 

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