Eddie Vedder, sopravvissuto: memorie del tour in Italia

Eddie Vedder

Sopravvivere è un’arte, dicono. Il che, tecnicamente, può essere anche vero. Ci son quelli fortunati, quelli bravi, a sopravvivere, quelli che ne han fatto un mestiere se non forse una ragione di vita. Poi ci son le volte in cui sopravvivi per sbaglio, quelle volte in cui non sai bene come hai fatto, a sopravvivere, addirittura quelle in cui sei sopravvissuto tuo malgrado. O ancora le volte in cui nemmeno sei del tutto sicuro di essere davvero sopravvissuto, e vai avanti a chiedertelo per il resto dei tuoi giorni. Come in Lost, ma con una trama meno complicata e un finale meno imbarazzante e ancora tutto da scrivere. In quei casi tiri un sospiro di sollievo o abbassi le spalle rassegnato, se ci credi ringrazi o bestemmi il tuo dio e provi a tirare avanti, a dare un senso alle cose o almeno a arrivare a fine giornata. Seppellisci i morti, raccogli un paio di feticci da usare come ricordi, e continui a fare quello che sai fare meglio, che sia suonarli, i concerti, o andarli a vedere.

Questo è lo stato d’animo con cui faccio il mio ingresso — tutt’altro che trionfale — all’Ippodromo del Visarno (da qualche anno ribattezzato Visarno Arena — immagino per evitare che quando fai il check-in su Facebook poi tua mamma pensi che sei andato a giocare ai cavalli). Stato d’animo che per fortuna è più che abbondantemente bilanciato dall’aria che già inizia a tirare in mezzo al polverone: un po’ di incoscienza, quel che basta di allegria, e il resto diluito in un’impazienza trepida in mezzo a un caldo infernale, con la sensazione insistente che l’evento dell’anno stia per avere luogo sul serio, right here / right now. La notizia data per certa è che qua sono attese — anche stasera — cinquantamila persone. Dico “anche stasera” perché ormai è già diventata una barzelletta: in cinquantamila per i Radiohead, in cinquantamila per gli Aerosmith, in cinquantamila oggi, probabilmente in cinquantamila domani per i System of a Down. Già mi vedo i titoli dei prossimi eventi o manifestazioni in giro per lo stivale: “Un milione secondo gli organizzatori, quattro gatti per la questura, cinquantamila per quelli del Visarno”. Comunque, numeri — e scherzi — a parte, saremo tanti: Eddie Vedder stesso lo definirà “il mio primo concerto in Italia senza una band, e anche il più grande che abbia mai fatto da solista — queste cose succedono solo qui.” Gli applausi scrosceranno, io penserò: anche tante altre cose succedono solo in Italia, ma meno belle, per poi rapidamente allinearmi al sentire comune, riassumibile in un classico “intanto godiamoci questo momento di gloria, al peggio ci penseremo domani”.

Momento di gloria che inizia in sordina, vedendo avvicendarsi sul palco fin da metà pomeriggio, davanti a una quantità di persone in costante aumento, prima l’indie-rock sopravvissuto al declino della schedina del Totocalcio della band bolognese Altre di B, poi Eva Peverello — da Thiene al grande pubblico, sopravvissuta a X-Factor, con la benedizione di Manuel Agnelli e Carmen Consoli — e quindi Samuel, tappabuchi dell’ultima ora dopo il forfait di Dolores O’Riordan, che se non altro ha il merito di avvicinarsi a una platea che ha comprato un biglietto in cui lui non era presente con la dovuta umiltà (vera o improvvisata che sia: “mi dispiace davvero tanto, mi ero già organizzato anche io per venire a vedere i Cranberries, pensate come son rimasto sorpreso quando mi hanno chiamato a suonare…”). Non che qualcuno ci creda, ma la gente sembra comunque apprezzare il tentativo in maniera civile: nessuno fischia, in non pochi saltellano, qualcuno balla addirittura. I tempi d’oro dei Subsonica sono andati e Samuel si arrangia come può: dopotutto ognuno ha le sue, di strategie per sopravvivere, tutte ugualmente rispettabili, anche se un semplice cambio di cappello non è detto sia sufficiente.

Una breve parentesi a parte la merita Glen Hansard, lui forse davvero il più sopravvissuto di tutti, ormai da tempo partner in crime di ogni live solista di Eddie Vedder, precisamente — si narra — da quel giorno in cui vide schiantarsi al suolo, a due passi dal suo microfono, il corpo senza vita di Michael Edward Pickels, che poco prima, senza dire nulla, aveva abbandonato l’amico con cui stava assistendo al concerto degli Swell Season per salire sul tetto della struttura, prendere una piccola rincorsa, saltare nel vuoto concedendosi due piroette in aria e finire la sua esistenza sul palco del musicista irlandese, che aveva appena concluso un canzone e stava intrattenendo il pubblico prendendosi bonariamente gioco del suo stesso chitarrista. I testimoni oculari — in vena di eufemismi — hanno definito il tutto “pretty traumatic”. Pare che la sera stessa Eddie abbia telefonato a Hansard: “Volevo solo sapere se stavi bene.” Poche, sincere parole per dar vita a un sodalizio che li ha portati a suonare un po’ ovunque. L’ovunque di stasera si chiama Firenze.

Busker dublinese doc, Glen Hansard lascia la scuola a tredici anni per andare a suonare ai bordi di Grafton Street, dove viene raccolto da Alan Parker che lo chiama a impersonare quello che avrebbe voluto essere nella vita, ovvero il chitarrista dei The Commitments. Sulla scia del successo del film, fonda i The Frames e un po’ di anni dopo, appunto — insieme alla compagna, la pianista ceca Markéta Irglovà — gli Swell Season. I due nel 2006 si tolgono anche lo sfizio di vincere un Oscar per la miglior canzone originale con il film Once, di cui curano buona parte della colonna sonora, oltre a recitare, fondamentalmente nel ruolo di loro stessi. Come tutte le cose belle però, anche questa liaison — sentimentale e artistica — finisce, ma lui trova comunque il tempo di pubblicare un altro paio di album solisti che avrebbero meritato miglior fortuna.

Sul palco del Firenze Rocks — forse spaventato dalla marea di gente che lo attende — si presenta con la band al completo, invece che con la solita, sola, fida chitarra. Palesemente sopravvissuta anche lei a cose che noi umani non possiamo nemmeno immaginare, declina la sua estetica attraverso quella che più che una cassa armonica sembra il soffitto di una chiesa bombardata, ma nonostante questo se la gioca da protagonista, sfidando qualunque legge e regola della fisica acustica. La loro performance — fin troppo breve, col senno di poi — è la vera, reale sorpresa della serata: folk, soul e blues semiacustici di qualità eccelsa, toccanti a tratti, suonati col cuore, come si diceva una volta. Torneranno sul palco alla fine del live di Eddie Vedder, trovandosi perfettamente a loro agio anche nel ruolo di ciliegina sulla torta.

Nell’attesa dell’headliner — esageratamente lunga e del tutto ingiustificata visto il setup scenografico alquanto scarno, che nasce e si esaurisce prevalentemente nella parte centrale dello stage — mi guardo intorno: le magliette dei Pearl Jam e dei Soundgarden si sprecano, ovviamente, ma vince tutto un tizio che fa bella mostra di una t-shirt nera con su scritto “Alice in the Temple of Pearl Garden”, testimonianza vivente dei rischi a cui si va incontro quando i concetti di mash-up, typography design e poetica grunge che dir si voglia vengono gettati senza criterio nello stesso calderone per vedere l’effetto che fa. Applausi lo stesso.

Le luci finalmente svelano gli elementi di scena: una sedia, una paio di valigie ricoperte di adesivi e di viaggi, due chitarre, un ukulele e un mandolino, un organo che non ti spieghi — almeno all’inizio — perché, un registratore a bobine che alla fine suonerà la base dell’unico bis, Hard Sun, e sullo sfondo — so USA — una corona gigante di birilli da bowling, in attesa di essere atterrati da un ipotetico quanto simbolico strike che mai — altrettanto simbolicamente — arriverà.

Si parte con una dichiarazione di appartenenza: il trittico Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town / Wishlist / Immortality mette subito in chiaro il legame inscindibile con la band della vita — sua, nostra, vostra, patrimonio dell’umanità certificato — nonostante tutto il resto. Nonostante i pezzi tratti dalla soundtrack di Into the Wild, nonostante un paio di strimpellate da Ukulele Songs, nonostante le cover di Cat Stevens e Wayne Cochran, nonostante gli scontati omaggi a “uncle Neil Young” (una Rockin’ in a Free World rabbiosa, ringhiata e sbavata sulle corde della povera Stratocaster chiuderà le due ore ininterrotte di set, senza mostrare il minimo segno di stanchezza). Nonostante una Comfortably Numb per sola voce e organo, suonata con la devozione di un chierichetto che si cimenta in Tu Scendi dalle Stelle durante la messa di Natale, che finalmente riporta il capolavoro dei Pink Floyd in quello spazio sospeso che si merita e che ha qualcosa a che fare con la definizione di liturgia.

Alla fine di una Imagine delicatamente appoggiata su una distesa di torce di smartphone (tu chiamale, se vuoi, accendini) che nemmeno a un concerto di Baglioni nel momento di Questo Piccolo Grande Amore, una stella cadente solca — con tempismo così perfetto da lasciare spazio a non pochi sospetti — il cielo senza luna del parco delle Cascine. Un “Ohhhhh” stupito ed emozionato, cantato molto più all’unisono di quanto fosse stato fatto per le strofe di John Lennon, risuona tra le bocche del pubblico, come a Wimbledon, quando la pallina rimbalza davvero vicino alla riga, troppo vicino. In un’atmosfera così magicamente sospesa come quella che c’è intorno, assomiglia più a una santissima stella cometa che a un banale meteora, ma in tempi di fake news e disillusione strisciante, non posso fare a meno di chiedermi se invece non sia un qualche effetto scenico ad hoc, o al limite uno dei fuochi di artificio sparati per le celebrazioni di San Giovanni (oggi è il santo patrono di Firenze — “since when? Since fuckin’ ever, idiot!”) che ha perso la strada, disorientato. Dura il tempo di un attimo, lo stesso tempo che impiego a odiarmi profondamente per averlo perso, quell’attimo, e non essere riuscito a esprimere un desiderio decente, se non quello di provare a essere meno spontaneamente cinico, la prossima volta.

I Am Mine, Guaranteed, Porch, Better Man, Society, Smile: la gente canta, la gente si commuove, anche se ha la capacità — o il buon gusto, dipende dai punti di vista — di non uscire quasi mai dai canoni di una compostezza che ultimamente faccio sempre più fatica a ritrovare in live di questa (ma anche di minori) dimensioni. Una ragazza, inquadrata ripetutamente dalla regia, piange ininterrottamente per tutta la durata di tutte le canzoni, trovando dentro di sé ogni volta nuove lacrime che forse nemmeno lei sapeva di avere. Io no, e mi maledico per questo, ma con tutto il bene che voglio a quell’ex-surfista con la camicia di flanella, per rompere definitivamente l’argine dei sentimenti ho bisogno almeno della band intera, ho bisogno del sorriso storto di Stone Gossard che mi dica che sì, che va bene se gli abbiam rubato una bella manciata degli accordi di questo concerto, ho bisogno delle dita di Mike McCready che raccontino le cose anche senza parole, della faccia buffa di Jeff Ament con su scritto che davvero, qualcosa può andare ancora per il verso giusto, del ciuffo sempre biondo di Matt Cameron, per ricordarmi che anche se hai suonato nei Soundgarden puoi lo stesso rifarti una vita. Ho bisogno che Chris Cornell compaia davvero sul quel palco alla fine di Black, a rispondere coi fatti a quel paio di “come back / come back”, invece di svanire in un singhiozzo sputato nel microfono. Forse ho bisogno di avere venti anni di meno e di sentirmi meno sopravvissuto anche io.

Dopotutto, quello che ci sta tenendo col fiato sospeso è solo un cantautore con una voce della madonna, ma con all’attivo — da solista — giusto un paio di album, se vogliamo chiamare “album” una decina di pezzi per una colonna sonora e altrettanti divertissement con uno strumento ghettizzato come l’ukulele. È un ragazzone cresciuto troppo, seduto da solo in mezzo a un palco gigantesco, con una chitarrina impaurita tra le mani e uno scatolone per grancassa che rifà i pezzi dei Pearl Jam con una voce della madonna, incredibilmente simile a quella del cantante dei Pearl Jam, ma più triste, se possibile. È solo l’ultimo dei Mohicani, senza cresta ma lo stesso con più capelli in testa della buona metà di quelli che lo stanno ascoltando, che forse ancora si chiede come ha fatto a non finire come tutti gli altri, e se lo chiede con quella voce della madonna e con quegli occhi umidi di Brunello di Montalcino — sempre sia lodato — mentre suona note già sentite dentro un film di Sean Penn pieno di bei paesaggi. Solo un povero cristo senza posa che si diletta con le canzoni più famose dei grandi degli anni Sessanta e Settanta, come se dovesse impressionare qualche tipa intorno a un falò sulla spiaggia e lo fa con quella voce della madonna, quella chitarrina minuscola e una passione così pura che si taglia a fette. Solo un padre di famiglia con una voce della madonna, a cui hanno decimato gli affetti, che tiene al suo pubblico come alle sue figlie e cerca la forza di cui ha bisogno negli occhi di quelli delle prime file, uno per uno, e oltre. Solo un artista di strada con una chitarrina e il pubblico più bello del mondo, che si barcamena tra arrangiamenti approssimativi, sudore, dolore e quella voce della madonna. Solo un gran figo di cinquant’anni suonati — in tutti i sensi — che sta spezzando il cuore a cinquantamila persone, una dopo l’altra e tutte insieme, qualcuno sa perchè.

Solo quello, no?

Solo quello. Grazie a Dio.

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