La magistrale performance degli Editors a Milano

Ancora troppo freschi per renderci conto dello tsunami musicale che ci ha travolti, noi trentenni siamo stati inconsapevoli spettatori della grande “ondata” dell’indie, genere nato come qualcosa di davvero sconvolgente, e prevedibilmente, degenerato in una miriade di gruppi one hit wonder, spesso con nomi e singoli tutti troppo uguali. Ma l’inizio, quello fu potente, tant’è che questo stesso magazine, con il suo nome peculiare, si fa portavoce di una generazione che questo movimento l’ha vissuto da dentro.

L’indie ha avuto tre grandi capostipiti, tre colonne portanti, come abbiamo più dettagliatamente raccontato qui: la corrente americana era rappresentata da Interpol e The National, mentre sul fronte inglese c’erano quattro ragazzi di Stafford cresciuti a pane e Joy Division che incarnavano bene, vent’anni dopo, quel sentimento di dolce malinconia, gli Editors.

Siamo nel 2018, e dal primo album, The Back Room, sono passati 13 anni. Assistere ad un loro live oggi, ha un gusto totalmente diverso, come già avevo appurato nel 2013 con il tour del quarto album The Weight Of Your Love. Quello di domenica 22 Aprile al Mediolanum Forum di Assago, è il grande giro di boa, la consacrazione, almeno a livello italiano, in una delle maggiori venue a livello di capienza e prestigio. Chi tra di voi ricorda le prime esibizioni live, si troverà davanti ad uno spettacolo totalmente diverso: lasciata da parte l’essenzialità dei primi lavori, la band ha acquisito un’impronta sempre più elettronica e pop, senza perdere la sua vena intrinsecamente dark. Il grande palco, incorniciato ai lati da due maxi schermi, presenta un’imponente scenografia di geometrie metalliche sospese, a fare da sfondo ai musicisti nelle loro uniformi totalmente nere. Una passerella centrale che divide il pubblico delle prime file a metà, è l’estensione che permette a Tom Smith di avvicinarsi alla platea con l’asta del suo microfono, sovrastando un (prevedibile) mare di smartphone alzati per catturare le sue movenze sincopate.

La partenza è affidata ad Halleluja (So Low), ultimo estratto dall’album Violence, giusto per far capire l’aria che tira. Già dall’ascolto dei lavori in studio si percepisce come la componente elettronica trovi uno spazio sempre più ampio. La scaletta si srotola, veloce come un nastro di seta avvolto, senza una vera percezione temporale, sia a livello di durata che di proposta. Pezzi più recenti, come A Ton of Love e Formaldehyde, insieme a quelli estratti da Violence e del penultimo In Dreams, trovano una collocazione naturale vicino alle grandi hit del passato, Blood, Munich, An End Has A Start, In This Light and on This Evening, Eat Raw Meat = Blood Droll, eseguite esattamente in quest’ordine. La risposta del pubblico è entusiasta, segno tangibile di una band che si è evoluta senza svendersi, coltivando un seguito di fan affezionati all’intera loro storia, come genitori orgogliosi davanti alla loro creatura che è cresciuta, vale la pena dire a dismisura.

Sotto il palco l’adrenalina è tangibile, così come la sintonia tra quello che succede sopra e sotto. Un’infilata di pezzi uno dietro l’altro intervallati solo da qualche “grazi mile” e “ciao Melanno” di Tom alle prese con i cliché della band che saluta il pubblico, accorso numerosissimo a consacrare questa Sunday night. Non c’è tempo di prender fiato se non nell’encore, quando rientra per un pezzo in solo, No Sound But The Wind, quiete che preannuncia la fatidica tempesta. Cold e Magazine ci fanno capire che non è finita qui, quando puntuale arriva Papillon, che fa definitivamente scoppiare i presenti in una danza convulsa, accompagnata da cori quasi da stadio (tanto da associarla ad un’altra hit alternative che ha avuto una storia simile, questa volta legata ad una vittoria ai mondiali di calcio: Seven Nation Army dei White Stripes, ormai per tutti “po-popopopopo-po”). Convinti di essere ormai arrivati alle battute finali, sorprendono con una dilatata Marching Orders prima di un inchino e dell’uscita, questa volta per davvero.

Non c’è spazio per la nostalgia, durante un live degli Editors. Qualsiasi riminiscenza del passato, anche il minimo accenno di rimpianto verso una band che è cambiata molto nel corso dei suoi 6 album, viene spazzato via da un’esibizione potente, catchy ma non ruffiana. Gli Editors si sono evoluti in modo coerente durante 15 anni di carriera, rafforzando esibizione dopo esibizione la loro enorme resa dal vivo, merito soprattutto di un frontman carismatico capace di rapire la platea, un guru che sul palco di nero ha davvero solo gli abiti di scena.

Tutte le foto sono di Alise Blandini

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