L’occasione persa di Elegia americana

Per Hillbilly (termine adottato nel titolo originale, mal tradotto da noi in Elegia americana) si intende sia gli abitanti dell’area rurale degli Stati Uniti del sud, generalmente additati come rozzi e conservatori, sia coloro che, con una buona dose di intraprendenza, sono riusciti a emergere da un ceto sociale poco abbiente e a realizzare il “sogno americano”. Su questa ambivalenza è costruita l’ultima opera del “mago” dei blockbuster Ron Howard, ispirata all’autobiografia best-seller del magnate americano J.D. Vance e distribuita da Netflix. Con uno schema narrativo di flashback a incastro, il film segue la vicenda di Vance (interpretato da Gabriel Basso) dalla giovinezza nei tardi anni Novanta all’età del college, il suo complesso rapporto con la madre tossicodipendente Bev (Amy Adams) e l’ascesa dagli ambienti umili del Kentuchi grazie al supporto motivazionale della burbera nonna Mamaw (Glenn Close).

Già la struttura non lineare degli eventi basta a mettere in difficoltà la riuscita dell’operazione. Il giochino temporale che cerca di valorizzare la rivincita personale/professionale del “perdente” J.D Vance (la cui voce fuori-campo, inutilmente pomposa, tenta una strada quasi kinghiana ma molto spesso aggiunge poco e nulla alla narrazione) funziona a tratti e provoca perlopiù confusione a causa di un montaggio poco fluido, incapace di dar corpo a raccordi funzionali. Come se la mancanza di ritmo, la noia e il disinteresse non bastassero, ci si mette pure la sceneggiatura di Vanessa Taylor a infliggere il colpo ferale, un pastrocchio di cliché superficiali e frasi fatte che promuovono i più reazionari e stantii ideali americani.

Glenn Close e Amy Adams

Ron Howard si limita a siglare il suo nome nei titoli di testa, perché la sua regia è quanto di più assente e piatto si sia visto in un film così grosso per mezzi a disposizione e menti creative coinvolte, poco aiutata per altro da una fotografia smarmellata in stile telenovela e dalle brutte musiche del peggior Hans Zimmer di sempre. Il cast ben assortito (Glenn Close è colei che ne esce meglio) fa tutto il possibile per trattenere lo spettatore sino all’epilogo, ma dopo un po’ i dialoghi melensi, le impennate di over-acting e le urla convulse diventano solo accanimento terapeutico.

Nel suo complesso Elegia americana rientra nella categoria dei polpettoni hollywoodiani più beceri, un’opera filmica furbetta e studiata a tavolino che potrà piacere a chi facilmente subisce il fascino dei “drammoni struggenti”, al cui amo, stranamente, la critica americana non ha abboccato stavolta, preferendo stroncarlo e tacciarne la banalità. Probabilmente una sceneggiatura più attenta a stemperare il cieco conservatorismo del racconto, e soprattutto una regia ben più audace, avrebbero decretato una più convincente saga familiare. Invece siamo dalle parti dell’operazione commerciale sviluppata male, a cui non si auspica di arrivare alla corsa per gli Oscar.

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