Achab nel bassofondo americano | Emanuel Carnevali

Quel leggendario mostro, tu, lettore, lo conosci,
– ipocrita lettore, – mio simile – fratello!
C. Baudelaire, Al lettore, I fiori del male

Emanuel Carnevali, il poeta nero, l’uomo vuoto, la New York che non esiste… io celebro il tuo arrivo. È per te, che noi venimmo fuori, noi vecchi nel buio. È per te che i rifiuti sono stati smossi e un topo è strisciato fuori dalle immondizie, vivo… e ora, per Dio, vieni tu col ventre incollato alla schiena e ci fai vedere quello che siamo, dei topi.
William Carlos Williams, Gloria!

 

Sono cento, forse mille, le vite vissute da Emanuel Carnevali, poeta, scrittore, critico, nato nel 1897 a Firenze già straniero a sedici anni, quando salì su una nave per incontrare il lato sporco del sogno americano in una New York povera e feroce, pazza e isterica come un turno da cameriere, come fu Carnevali – per uno dei suoi tanti lavori infimi, saltuari che non riuscirà a tenersi stretto. «Sono tristi questi pazzi, e su due o tre facce questa tristezza affiora. Il piacere, una rosa avvizzita sul petto della vita. Piacere, sei una tazza di caffè freddo, una scodella di minestra cattiva, una fetta di roast beef con il sugo che macchia i calzoni ai camerieri. Oh, poveri cavalieri erranti del piacere, i camerieri – lupi addomesticati che portano piatti di carne che osano toccare» scriverà nella terza parte (Nero) de Il primo Dio, pubblicata quasi trent’anni dopo la sua morte in una mitica edizione Adelphi del 1978. Carnevali, in vita, pubblicherà solo una serie di poesie, dei saggi critici e Racconti di un uomo di fretta, che costituisce il centro della raccolta Racconti ritrovati di D Editore da poco in libreria. Condannato a essere orfano, Carnevali, anche della odiata, ma pur sempre propria, patria.

 

All’Italia dovevo la mia infanzia sconsolata. L’Italia non merita i miei ringraziamenti e non la ringrazierò.

 

La vita e l’opera di Carnevali si mescolano insieme nelle densissime pagine de Il primo Dio, l’autobiografia che realizza a distanza di anni, e gli eventi ne costituiscono la penosa ossatura che ripercorre le tappe di questa tragica sua esistenza a partire dall’infanzia che contraddistingue con il colore bianco, come se volesse mantenere intatta la purezza del sogno, dell’ingenuità, anche in un mondo che si colora presto di nero. La madre, a cui Carnevali dedica alcune delle parole più sofferenti e affettuose della raccolta, muore quando lui non ha ancora nove anni, «Mai una volta ho visto mia madre che non fosse ammalata. Era morfinomane: s’era assuefatta all’uso della droga terribile dopo aver laboriosamente partorito questo squallido campione, cioè me», e viene affidato per un anno alle cure della zia, la Regina tormentata del racconto Melania P., che indirizzerà Carnevali alla letteratura («Mia zia potrebbe tranquillamente rivendicare la responsabilità della mia educazione, dell’educazione della mia anima, voglio dire»), prima di trasferirsi definitivamente con l’odiato padre. Il carattere irrequieto e ribelle di Carnevali, in tutto e per tutto determinato a farla pagare «al più ignobile degli uomini», si placa nella lettura, trovando un momentaneo spazio di respiro, fino alla rottura finale – condotta senza rimpianto da entrambe le parti – che inaugura la seconda parte (Rosa) con l’arrivo al collegio di Bologna. Un periodo «mite e lieve», in cui Carnevali sviluppa il suo interesse per la letteratura e la poesia senza, però, trovare pace. Da Bologna viene trasferito a Venezia in cui vive un tenero amore omosessuale che lo fa espellere da scuola e lo costringe al trasferimento a Milano, prima del viaggio verso l’America.

 

Quando lasciai l’Italia, mio padre mi disse che avevo l’aspetto di un disoccupato tedesco, impacciato com’ero in suo vecchio vestito; disse che tutto quello che avrei potuto fare in America sarebbe stato spazzare le strade e in realtà come profeta non sbagliò di molto.

 

L’impatto con il Nuovo Mondo è, come detto, terribile per Carnevali, che vive in stato di povertà, cambiando ripetutamente lavoro e vivendo in appartamenti ammobiliati per pochi dollari a notte, che diventeranno l’immagine della sua America perduta, i free-launch counters, posti che raggiungeva camminando anche dieci chilometri per un pasto, il paradiso capovolto che suona come una condanna per i suoi camerieri, per i vicini, per se stesso. Nero, questa terza e ultima parte dedicata ai colori, è, probabilmente, un insieme delle pagine più crude e inedite che la letteratura italiana abbia mai prodotto. Frasi feroci e ipnotiche che descrivono l’ingresso a New York come un moderno terzo canto dantesco, concentrate sui particolari, i quartieri percorsi palmo a palmo fra la sporcizia, le vie luccicanti, i negozi, e il marcio dei suoi bassifondi. Nero è anche il racconto delle persone, dei miserabili amici e degli amori ancor più miserabili che Carnevali incontra, mentre attraversa quel buio in cui, tuttavia, persiste una luce: «C’era sempre una piccola luce accesa, che mi guidava attraverso l’America, questo paese al buio. Sapevo di essere un poeta e covavo nel mio animo la voglia di scrivere». L’America è quello che Parigi sarà per il giovane Rimbaud, a cui Carnevali si ispirerà per la stesura de Il primo Dio e nell’utilizzo senza compromessi della parola, per il gusto disilluso sulla metafora e il taglio netto nei confronti della storia.

 

 

 

Carnevali vive il destino dell’apolide che ovunque vada non ha mezzi per sentirsi a casa, non può tornare, non può andarsene, quindi sopravvive adattandosi alle regole della giungla metropolitana. Ma l’America per Carnevali è anche la terra della scoperta, della vocazione alla letteratura, che vive non più come lettore, iniziando a scrivere brevi poesie che invia agli editori, in un inglese sporco, diretto, imparato sui cartelloni pubblicitari, riuscendo a vincere alcune pubblicazioni e cominciando a integrarsi, come atomo impazzito, nel giro del Greenwich Village, conoscendo Ezra Pound, Eastman e Williams Carlos Williams. Con ognuno di loro costruirà dei rapporti di amicizia che, col passare del tempo, tenderanno a rompersi per via di critiche taglienti e dell’idea di poesia dello stesso Carnevali, interessato alla resa diretta, all’argot popolare, piuttosto alla tecnica del bel scrivere. L’approccio di Carnevali alla letteratura, tuttavia, non è toccato per niente dal lume della salvezza, anzi, riversa nelle parole la voce delle sue miserie. Non condivide il destino del sopravvissuto coi suoi compagni, non cerca di diventare la loro voce. Li disprezza, quanto disprezza la condizione in cui è finito.

Nero è una parte piena di risentimento che si condensa nell’immagine della propria povertà, della vocazione all’arte tanto quanto al desiderio di successo e ricchezza. La situazione non cambierà nemmeno quando – seppur ancora squattrinato – riuscirà a prendersi la direzione di una rivista – Poetry – e concluderà con il trasferimento a Chicago, fra amori e delusioni. Il declino non si arresta, nemmeno nella città del vento in cui pure sembra trovare pace, a causa dell’insorgere della malattia che lo costringerà al ritorno in Italia. Il primo Dio si conclude con l’ultimo viaggio a Bazzano e il ritorno a Bologna, la città dove troverà la morte – in maniera quasi ironica – strangolandosi con un tozzo di pane.

 

Poi le ore e i giorni dell’infelicità tornarono a me, e mi tennero ancora in loro possesso. Dove prima c’era stata amicizia, un diluvio di amici, ora mi si teneva arrogantemente a distanza. Ero stato ammalato per troppo tempo. Avrei dovuto aspettarmelo. […] Mi chiamavano ‘Carnevali’ dove prima ero stato semplicemente ‘Em’. Ero caduto, ma caduto dall’alto, e ciò rendeva ancor più dolorosa, anche se più dignitosa, la mia situazione.

 

Carnevali è un fulmine nella letteratura americana dei primi anni trenta. I suoi saggi critici, in particolare Ultimatum, saranno un viatico per una liberazione whitmaniana nelle opere di W. Carlos Williams che, nonostante la ferita aperta da Emanuel, lo considererà sempre una sorta di risvegliatore della poetica del ‘commonplace’. Il luogo comune, inteso da Carnevali come il luogo d’incontro di povertà e anonimato, diventa una sorta di suo topos, scena di scontro e di ispirazione poetica che lui attraversa come l’Achab di Melville nei bassifondi. La balena bianca è qui il successo, o la pace momentanea, un fatato Eden in cui potersi riposare senza paura. Luogo comune per Carnevali è soprattutto quello dalle camere ammobiliate, insensibili stabili in cui si raccoglie la miseria del mondo, il cui la presenza o la mancanza di respiro dei suoi abitanti non cambia in alcun modo il ritmo della città. In maniera simile a Rilke, che ne I quaderni di Malte Laudris Brigge individua nel passaggio dalla tradizionale morte privata, all’interno della propria casa, a quella superficiale in un ospedale, Carnevali paragona le camere ammobiliate alle case vere e proprie. Ma è un confronto impari, e Carnevali se ne accorge, perché lui una casa non l’avrà mai: «la Camera Ammobiliata è l’insieme delle mie frattaglie spirituali e materiali, conosce tutto quello che in me non va […] Ho lasciato, in un paese veramente vecchio, un’antica casa. C’era troppa tristezza in essa. E nessuna via d’uscita, perché erano tutti troppo saggi. La casa era stanca di stare in piedi sui suoi muri e udire le grida della vecchia gente». Il confronto è, quindi, di tipo sentimentale. Una metafora della propria vita, un pretesto letterario per riprendere lo sconforto del proprio io scisso in mille parti diverse. In questo rientra la vocazione alla letteratura e alla poesia. Carnevali, soprattutto nei racconti, si riferisce sempre al lettore – da qui la citazione iniziale a Baudelaire – come cercandone la complicità o l’assoluzione, un’umana fraternità che in vita ha disprezzato. L’arte per l’arte, proprio la stessa che Carnevali rifiutò sempre, ottenuta attraverso la resa diretta dell’attimo, del rifiuto alla mitezza, di provocare e trasmettere tutta la sofferenza della propria vita. Non è una struttura di salvezza e nemmeno di morte, rimane incastonata fra la resistenza e la pazzia che lo porterà ad affermare di essere un dio, il primo e unico Dio (sic), come dichiara in Danzando come un’opera d’arte, non tanto per celebrazione ma come dichiarazione poetica: «Avevo sempre odiato la raffinatezza e ora piangevo e gridavo in onore della semplicità; la semplicità era l’unica cosa che on poteva essere scambiata per pura idiozia. Per essere un dio, un vero dio, bisogna essere colmi di cose semplici».

 

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