Fare musica a Bruxelles

Ambulance è il progetto dietro cui si celano la voce, la chitarra (e il talento) di Andrea Artistico. A Napoli lo scorso Febbraio per presentare il suo disco d’esordio “Every Man for Himself”, un disco che affonda le sue radici negli anni novanta, Radiohead su tutti, ma che non disdegna incursioni nella new wave e nelle atmosfere dei settanta e che alterna brani ricchi di arrangiamenti chitarristici a ballate come Zimmer 1201. Un disco capace di raccogliere una precisa eredità mantenendo una propria autonomia e una propria integrità e che riesce a suonare classico fin dal primo ascolto senza correre il rischio di sembrare particolarmente datato.

Andrea è tornato a Bruxelles, dove vive da sette anni. L’abbiamo raggiunto ieri sera al termine di una giornata terribile per gli abitanti di Bruxelles e per l’Europa tutta. Inevitabile che la scaletta di questa intervista sia completamente saltata.

Andrea prima di tutto ti chiediamo com’è la situazione adesso, alla fine di questa terribile giornata.

Il bilancio è salito ormai a più di trenta morti nei due attentati e centinaia di feriti. Io lavoro in centro e ho sentito per tutta la giornata elicotteri e sirene senza nessuna pausa. Questa è la situazione al momento ed è chiaro che non è finita qui.

Novembre 2015, gli attentati a Parigi. Poche ore dopo gli occhi del mondo sono su Bruxelles non più la grigia città dell’Unione Europea ma la città che improvvisamente si scopre cuore di tenebra del terrorismo islamista. Quattro mesi. Com’è cambiata la vita a Bruxelles, come e se è cambiato il mondo della musica, i locali, i concerti?

In questi ultimi quattro mesi, devo essere onesto, le mie abitudini non sono cambiate così tanto, ho continuato, ad esempio, ad andare ai concerti. Dove lavoro, uno dei musei più importanti a Bruxelles, c’è, essendo un luogo pubblico, una maggiore pressione. C’è poi sicuramente una presenza militare sul territorio, dai fatti di Parigi, alla quale noi non siamo abituati. In Belgio non si è abituati ai militari per strada. La loro presenza costante è il segno più tangibile di quello che è avvenuto.

Senza rischiare di cadere nel facile confronto islamici/islamisti cosa puoi dirci dell’integrazione in Belgio a partire ovviamente dalla tua stessa esperienza di italiano all’estero?

Senza mezzi termini: in Belgio a chiunque è data non solo la possibilità ma i mezzi per integrarsi. Quando io stesso mi sono iscritto al collocamento, mi hanno dato un assegno di duemila euro per un corso di fiammingo per sostenere l’esame. Ci sono forti comunità maghrebine, turche. Chi non è integrato, mi dispiace dirlo, lo è proprio perché non vuole integrarsi. Non è un discorso di destra, è un discorso difficile da affrontare. Ci sono persone che sono molto integrate, vivono il tessuto sociale in maniera tranquilla pur conservando la loro cultura e la loro religione d’origine. Io, in quanto italiano ed europeo, sono più simile ai belgi ma ho dovuto fare qualche sforzo per integrarmi, qui ormai c’è un problema di seconde, terze generazioni, persone che si fanno saltare per aria distruggendo famiglie che sono venute qua a farsi il culo.

Un mese fa hai aperto il concerto dei Marlene Kuntz al VK che si trova proprio a Molenbeek. Cosa ti è rimasto di quell’esperienza e come si concilia l’idea di un concerto con Molenbeek, che i giornalisti descrivono come una specie di enclave islamica?

VK, Bruxelles

Quando sono arrivato a Bruxelles, le prime notti le ho passate in un ostello a Molenbeek. Era evidente la presenza islamica e sembrava strano andare a ovest di Bruxelles spostandosi culturalmente verso oriente. Il Vk è un’istituzione da ormai quasi trent’anni, è una sala storica in cui hanno suonato Deftones, Rage Against the Machine e Marilyn Manson. Il Vaartkapoen è soprattutto un’associazione con una missione sociale (ma purtroppo pare che nel 2017 dovrà chiudere i battenti per l’assenza di sussidi) è una bella realtà. Ci sono altre realtà con persone che si spaccano il culo tutti i giorni nel sociale e che lavorano duramente. Suonare in questa sala prima dei Marlene, vedere cos’è un concerto rock nel dietro le quinte, incontrare Cristiano Godano è stata la realizzazione di un sogno.

Quando hai lasciato l’Italia perché hai scelto il Belgio?

Quando ho deciso di partire all’avventura con uno zaino da trekking e un borsone Spalding senza conoscere nessuno, senza uno straccio di lavoro, in una città che non conoscevo m’incuriosiva che si parlassero più lingue, che Bruxelles fosse un luogo molto internazionale. Col tempo ho scoperto poi l’assenza di nazionalismo nei belgi, non c’è una particolare fierezza a differenza dei francesi o degli inglesi. Mi avrebbe dato fastidio integrarmi in un posto con uno sciovinismo più accentuato. Sono molto curiosi nei confronti di tutto quello che è straniero, sono pazzi della cultura italiana. Bruxelles è una comunità piccola abituata per la sua storia ad accogliere quello che è esterno. La mia scelta è stata quella di lasciare Napoli, l’Italia e se sono qui da sette anni è stato perché ci sono delle buone condizioni di vita, sembra strano dirlo oggi ma è così.

Veniamo al progetto musicale. Come nasce Ambulance e com’è cresciuto in questi anni in Belgio?

È l’evoluzione di quello che avevo cominciato a Napoli con tratti ancora molto naif, molto ingenui. Ho avuto la caparbietà e la perseveranza di portare avanti lo stesso progetto ovviamente maturato come sono maturato io, sono arrivato qua che avevo ventitré anni e oggi ne ho trenta.

Colpisce moltissimo fin dal primo ascolto la maturità dell’intero lavoro. Come nasce il disco, quale la sua gestazione?

Molti pezzi sono vecchi, risalgono all’epoca dei vent’anni e non è un caso se i pezzi singoli sui quali punterò di più e che farò uscire sono tra le composizioni più recenti. Non posso non citare Luigi Scialdone deus ex machina della scena musicale napoletana, che è in ogni progetto che conta. Dal mio incontro con lui il progetto è uscito fuori molto più maturo, più concreto. Se non ho registrato un disco finora è perché forse pensavo di non essere pronto. Io ho sempre sognato l’idea di gruppo e questo mi ha rallentato. Alla fine ho capito che se volevo vedere nascere quest’opera dovevo lasciar andare questa zavorra delle mie aspettative nei confronti degli altri musicisti che erano sbagliate perché loro non avevano la mia stessa urgenza, non avevano le mie stesse priorità e capire che questa era una cosa solo mia. Che avrei dovuto fare affidamento solo sulla mia capacità. C’è molta volontà dietro questo disco.

 

Nel libretto del cd c’è una mia foto dell’Himalaya e le parole dal singolo Istambulance I’ve got to keep learning, it’s fair enough proprio per dire che so che è un punto di partenza, che devo far meglio, che c’è da fare ancora molto prima di potermi dire un artista capace di realizzare cose davvero belle. Molte cose sono state epurate, buttate via, composizioni che così com’erano suonavano adolescenziali, ridondanti sottoposte a un grande lavoro di arrangiamento di Scialdone che è stato come un prolungamento del mio stesso pensiero perché mi ha capito fin dal primo momento quando ha deciso di lavorare come produttore artistico. La maturità musicale viene sicuramente più da lui, quella di comunicare sentimenti, stati d’animo, atmosfere quella me la prendo io, dai!

Uno dei pezzi più belli, B612, sembra partire dalla migliore new wave (con influenze trasversali del Bowie della trilogia) per poi prendere un respiro molto alla Manic Street Preachers (di cui c’è eco anche in Torch Bearer). Duden, altro pezzo di punta, ricorda alcune cose di Chris Cornell ai tempi di Euphoria Morning e quindi inevitabilmente di Jeff Buckley. Come nascono i tuoi pezzi? Le tue influenze sono state ben presenti o ormai fanno parte del tuo bagaglio ed è un processo automatico?

Hai citato artisti che non mi lasciano per niente indifferente, sono lusingato. Parto più dall’idea di messaggio, di atmosfera che voglio creare, non è il testo a rendere una canzone triste o gioiosa. Non mi dico cantautore perché devo ammettere di non dare molta importanza al testo ed è proprio su questo che devo migliorare se voglio dare un seguito a questo primo lavoro. Essendo in inglese è chiaro che i testi non vivono un’immediatezza che potrei avere in italiano. La struttura della canzone è chiara fin dall’inizio anche se in alcuni pezzi l’arrangiamento li ha abbastanza stravolti, B612 ha un arrangiamento incredibile. Touch Bearer riassume un po’ la filosofia del non darsi per vinto, di una caparbietà mia a detta di altri fuori dal comune. Portare una fiaccola, una luce per farsi strada. Ha un testo molto positivo, forse uno dei pochi del disco.

Tu hai un rapporto molto forte con la città di Istanbul tanto da aver girato lì il video per il primo singolo che si chiama proprio Istambulance come a voler mettere nero su bianco un legame fra te e la città turca. Oggi Turchia e Belgio sono gli estremi non solo di un percorso di speranza verso una vita migliore ma anche le due porte che sembrano testimoniare il fallimento di una possibile integrazione. Tu che nel pezzo racconti della tua irrequietezza, del tuo bisogno di viaggiare dove credi possano risiedere le ragioni di questo strappo, quanto c’è di colpa dell’occidente nel disadattamento di una parte della comunità islamica di là dalle sue drammatiche conseguenze?

Per quanto riguarda il video, ho amato molto Istanbul di un amore viscerale pur non avendoci mai vissuto ma girare questo video è stato come quando due amanti vogliono vedersi un ultima volta per dirsi che è finita. Mi sono reso conto soltanto dopo di aver un po’ chiuso con Istanbul, l’ho trovata molto cambiata da quando l’ho conosciuta, da quando mi sono innamorato di lei e bisogna accettarlo. La Turchia è senza mezzi termini uno stato fascista che ha perso l’occasione di giocare un ruolo di faro di speranza per tutto un mondo che dalla primavera araba in poi sta cambiando. Un’occasione persa che certamente non poteva essere raccolta da Erdogan. È un danno incredibile che la Turchia ha fatto a se stessa e alla comunità internazionale. L’occidente c’entra molto, gli è stato presentato un conto per le molte barbarie fatte. Sia chiaro che assolutamente non voglio giustificare gli accadimenti di questi giorni e degli anni passati e che non ho alcuna autorevolezza per discutere di queste cose e di quello che c’è dietro ma di sicuro è importante rifuggire da analisi troppo facili.

To all my friends near and far che parte in maniera quasi psichedelica per poi spostarsi sui territori di Ok Computer sembra raccontare molto di te, di una persona con un bisogno continuo di muoversi, non solo in senso fisico naturalmente. Qual è il prezzo da pagare per l’irrequietezza di cui parli sempre in Istambulance? Il brano è strumentale perché certe cose non possono essere dette ma solo sentite?

È una sorta di solitudine, di senso di colpa, verso gli amici ma soprattutto la famiglia. C’è una dicotomia che non è facile da vivere. C’è una verso di una canzone di Fink, This is the thing che dice: And the things that keep us apart / Keep me alive / And the things that keep me alive / Keep me alone che mi rappresenta bene di là dalla presenza costante e preziosa degli amici e della famiglia.

Un’ultima domanda: da sette anni vivi in Belgio ma il disco è stato registrato a Napoli. Dove ti vedi in futuro, quali progetti hai e quanto di questa esperienza pensi possa confluire nei nuovi pezzi?

Il bilancio di sette anni è positivo per la vita quotidiana, il lavoro, questo disco. Tutto lascerebbe pensare che sarò a Bruxelles in pianta stabile, anche se più di un amico profetizza un mio ritorno a Napoli dove certamente oggi c’è un tessuto sociale anche di musicisti intorno a me sicuramente stimolante che mi lascia un po’ di curiosità. Nel nuovo disco potrebbe trovare spazio quella solitudine di cui parlavo prima ma non in chiave negativa, guardandola da tutte le sue diverse sfaccettature, non necessariamente la mia. Agli amori viscerali e finiti male di questo primo lavoro potrebbe subentrare un amore più universale, più spirituale.

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