Fausta Cialente, Un inverno freddissimo

Nel giugno del 1976 Fausta Cialente vince il Premio Strega per il romanzo “Le quattro ragazze Wieselberger” (disponibile in una recente edizione La Tartaruga del 2018); all’epoca la scrittrice aveva 78 anni e una lunghissima carriera anche come giornalista e traduttrice riportata in auge proprio da quella vittoria. Un articolo di Panorama dell’epoca, nel commentare il premio, confeziona per lei il “soprannome” «Nonna romanzo», indugiando nella descrizione dell’aspetto minuto ed etereo della scrittrice. Si fa fatica a pensare che uno dei grandi vecchi della letteratura italiana contemporanea sarebbe mai stato definito «Nonno romanzo» in caso di vittoria, ma questo è il destino che tocca alle scrittrici, anche quando hanno lo spessore morale e storico di Cialente.

Autrice cosmopolita, femminista prima ancora che in Italia si fosse formata una salda coscienza in tal senso, antifascista e in prima linea nella Resistenza e nella lotta alla propaganda dei totalitarismi mentre era in Egitto, al Cairo, dove ha vissuto fino al 1947 collaborando con l’intelligence inglese; Cialente è stata protagonista e spettatrice di un tempo che ha saputo raccontare con cura in tutte le fasi della sua attività di autrice. Il ritorno nelle librerie si deve all’impegno delle case editrici La Tartaruga e Nottetempo; quest’ultima, in particolare, ha pubblicato “Un inverno freddissimo”, romanzo del 1966, a 46 anni di distanza dall’ultima edizione Feltrinelli e aggiungendo due importanti interventi (l’introduzione e una nota al testo finale) della scrittrice Emmanuela Carbé, necessari per inquadrare la figura dell’autrice se si è al primo romanzo.

La figura di Cialente, testimone della storia

In uno dei più recenti compendi della letteratura italiana pubblicato da una grande casa editrice, Fausta Cialente non c’è, né si menziona uno dei suoi sei romanzi o racconti. Anche questa è una sorpresa parziale perché il fenomeno si presenta di frequente quando si parla di autrici. Quella di Cialente, in più, è stata una figura anomala del panorama italiano per i suoi viaggi frequenti, la lunga permanenza all’estero, in Egitto, in Medio Oriente, in Inghilterra, e la formazione politica e culturale in una realtà complessa e cosmopolita. Cialente si è formata come femminista, scrittrice e giornalista nella stessa complessità che emerge in ciascuno dei suoi romanzi. Il lungo lavoro di studio dell’accademica Francesca Rubini sulla figura dell’autrice (pubblicato in “Fausta Cialente. La memoria e il romanzo”, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2019) suddivide la sua produzione in tre fasi distinte: il periodo egiziano (anni ‘20-‘30), che coincide con la permanenza tra Alessandria d’Egitto e Il Cairo e la scrittura di “Natalia” e “Cortile a Cleopatra”, il ritorno in Italia (anni ‘40-‘60), le rinnovate battaglie politiche, l’impegno giornalistico e la «ricerca letteraria sulla memoria della Seconda Guerra Mondiale», che corrispondono ai romanzi “Ballata Levantina” e “Un inverno freddissimo”; e infine la maturità (anni ‘70-‘80) e l’indagine sulla memoria personale che culmina con “Le quattro ragazze Wieselberger” ispirato alla famiglia materna e il periodo triestino della sua giovinezza. Cialente ha anche tradotto Louisa May Alcott e Henry James, ha scritto per “l’Unità”, “Noi Donne” e “Rinascita”, ha fondato e diretto la rivista “Fronte Unito” e ha avuto alle spalle un lungo impegno per Radio Cairo sin dagli anni Trenta e durante la guerra (l’esperienza è raccontata in Radio Cairo, L’avventurosa vita di Fausta Cialente in Egitto, di Maria Serena Palieri, 2018, Donzelli editore).

In un’intervista durante una puntata del programma di Radio Tre “Fahrenheit”, Emmanuela Carbé sottolinea il valore straordinario del racconto delle donne che fa Cialente nei suoi romanzi, rilevante per ragioni artistiche ma, soprattutto, politiche. È il seme delle conversazioni sull’emancipazione femminile che la scrittrice sostiene e rivendica in tutta la sua produzione letteraria e giornalistica, e che viaggia parallelo alla denuncia della struttura arcaica della società italiana, concetto rivoluzionario per l’epoca.

Hanno definito la sua una «scrittura di confine», ma anche antisperimentale, radicata nel romanzo ottocentesco e primonovecentesco. I suoi sono romanzi di formazione calati in una narrazione storica che ricostruisce la provincia italiana e il contesto levantino in fasi chiave della storia.


L’analisi del romanzo attraverso la sua protagonista

Nell’agosto del 1963, Cialente pubblica un racconto sull’Unità dal titolo “Inverno a Milano”, al suo interno la scena che aprirà “Un inverno freddissimo”, pubblicato da Feltrinelli tre anni più tardi. Nell’incipit un «bagliore alla curva dell’orizzonte» annuncia la giornata di tardo autunno che si apre su una Milano già fredda e prossima all’inverno. I colombi, «come a un segnale prestabilito […] si alzarono in volo, aleggiarono sui tetti corrosi, sulle vecchie terrazze, intorno ai neri comignoli da cui non uscivano ancora le pallide volute di fumo […]. Dall’alto essi potevano vedere le dolenti ferite della grande città […]». Un colombo si posa, poi, su un davanzale in cerca di briciole di pane e incrocia l’esistenza di Camilla, la protagonista del romanzo, ferma alla finestra a osservare un mondo che le sembra «fermo e remoto». Camilla vive in una soffitta con i suoi figli, Alba, Lalla e Guido, il nipote Arrigo e sua moglie Milena, e infine con Regina e la piccola Nicoletta, moglie e figlia del defunto Nicola, fratello di Arrigo. A interagire con loro un vicino di casa dal passato misterioso, Enzo, e un’amica di famiglia, Matelda. Un coro di personaggi la circonda, quindi, in una soffitta che occupano abusivamente nei primi due anni del secondo dopoguerra. Il marito di Camilla è un grande assente, andato via anni addietro lasciando sola la donna con i loro figli; il dettaglio dell’abbandono subìto peserà in ogni suo pensiero e azione.

[…] le sembrava di sentire ogni volta, sottintesa, l’accusa che si fa a una donna rimasta sola perché abbandonata dal marito. Una donna abbandonata è un’incapace, anche agli occhi dei figli, una buona nulla che non ha saputo farcela nella vita, una specie di rottame…

È questo il giudizio che ha di sé Camilla nei momenti peggiori ed è la voce narrante onnisciente a riferirlo a chi legge, ma non si confonda il personaggio con la scrittrice: Camilla soffre la condizione di donna sola, ma se ne farà una ragione mantenendosi salda sulle sue posizioni; tuttavia nell’estratto è evidente il peso dello stigma nella condizione di arretratezza sociale dell’Italia del tempo, che, come già detto, l’autrice denuncerà durante tutta la sua attività autoriale.

Cialente stabilisce fin dall’incipit il tono del romanzo: descrizioni ampie e dettagliate che preparano le scene in successione, e il risultato è un romanzo teatrale, come lo definisce la stessa Carbé. Cialente descrive minuzie della soffitta e le contestualizza in una Milano che appare solo dalle finestre; si fa presto a intercettare la distruzione postbellica che rovina ogni panorama.

Adesso Milano era una grande città ferita […] che non puzzava più di bruciato ma recava i tristi colori degl’incendi spenti; […]. Si fermavano ai piedi delle case bombardate di cui erano rimasti i muri esterni e dentro non c’era più nulla: se alzavano lo sguardo vedevano il cielo brumoso attraverso le occhiaie vuote delle finestre – finestre che aprivano sul nulla.

“Un inverno freddissimo” è il primo romanzo di ambientazione interamente italiana di Cialente e fotografa un dopoguerra, tra il ’46 e il ’47, di cui l’autrice non è stata spettatrice, ma che ha saputo ricostruire attraverso le testimonianze che raccoglie nell’autoesilio dalla letteratura che si impone fino agli anni ’60. In questo dopoguerra appena iniziato, Camilla è preoccupata e scossa dalla fragilità della sua famiglia, dalla condizione precaria dello spazio in cui vivono e dal freddo, l’altro grande protagonista del romanzo che, fin dal titolo, si insinua in queste incertezze esasperando pensieri e severità. L’ambiente è piccolo, i mezzi sono pochi e incerti e la grande famiglia allargata si scheggia sotto i colpi di una «eterna scontentezza» comune. E il freddo, crudele, ne approfitta: infesta l’acqua, le stanze, le finestre, abita la distruzione che li circonda fino a farsi neve spessa nella parte centrale del romanzo, in cui nemmeno la piccola stufa riuscirà a riscaldare i corpi e il loro cogitare. Nei momenti di “debolezza”, quando Camilla cede, riaffiorano ricordi della vita coniugale che è stata, su una spiaggia calda «meridionale», ma sarà sempre lo «scoramento» a prendere il sopravvento. Camilla si conserva più a lungo possibile nel ruolo autoimposto di guida della comunità con cui convive, «ostentando severità e stanchezza», come se tali qualità diventino garanzia di condotta sicura nel naufragio dello scontento. È così che Cialente innesta il concetto, modernissimo, del peso della famiglia che grava sulla matriarca, convinta dalle regole comuni che solo lei può guidare il nucleo familiare oltre la guerra, dimenticandosi di sostegno e affetto, perché è il tempo della sopravvivenza e non c’è spazio vitale per altro in quel «pantano» che è la loro miseria. Ai personaggi, ma a Camilla soprattutto, l’autrice attribuisce giudizi e pensieri sulla condizione dell’Italia, sul riprovevole trascorso fascista e sul mucchio di rovine che il paese è al tempo della narrazione. Ancora una volta non c’è urgenza di giudizio, ma è l’accuratezza storica a cui aspira Cialente a chiederle di innestare questi particolari. Ne segue, allora, che “Un inverno freddissimo” è un ritratto fedelissimo della condizione sociale nel dopoguerra. In un susseguirsi di soggetti della narrazione, la voce narrante racconta diverse età e stadi di accettazione di una condizione storica delicata, ma anche deludente, di una soffitta decadente e sovraffollata e dell’eco persistente di una guerra sanguinosa e ingiusta. La parte prima del romanzo si chiude con l’inverno che, finalmente, si manifesta e una successione di ritratti dei personaggi nell’atto dell’addormentarsi nei loro letti. A proteggerli il senso di responsabilità di Camilla.

Foto Alessia Ragno

Il senso del romanzo si palesa in apertura della seconda parte:

Era un desiderio comune quello di “cominciare a star meglio” […]. Ma l’impauriva quel voler dimenticare i “sentimenti”, di cui nessuno parlava più, l’impauriva soprattutto quel “voler stare meglio” che non era un desiderio soltanto, era una febbre, qualcosa di vorace, sotto sotto di cieco e violento, come se ognuno fosse pronto a tutto e nessuno potesse aspettare oltre! Quindi non solo perché la circondava un duro inverno le sembrava di vivere in mezzo a una pianura nuda e gelata, senza orizzonti.

La voce narrante dipana i pensieri di Camilla con la schiettezza che apparteneva a Cialente stessa, e l’analisi che ne scaturisce è una fotografia delle emozioni controverse che esplodono dopo una lunga paura, la speranza nel futuro che pare disattesa e il fremere comune che il meglio venga subito, magari proprio durante l’inverno freddissimo e maledetto. La fatica di questi pensieri si intensifica con il procedere delle pagine, trascorrono il Natale e l’ultimo dell’anno, qualche speranza di miglioramento brilla ancora fino a quando un primo personaggio lascia il tetto familiare per inseguire una vita più redditizia. Non ci sono spiegazioni nel suo allontanamento, gli indizi arriveranno più avanti, ma il dolore dello strappo sarà grande per tutte e tutti, in primis per Camilla che in quest’azione vede l’estendersi del suo fallimento. Ancora una volta, la donna carica sulle sue spalle la responsabilità della famiglia intera: sua la colpa dell’allontanamento, del non averlo anticipato e impedito, in un delirio di onnipotenza che non fa altro che alimentare il «malinconico deserto» interiore. E quando sembra che tutto stia per crollare sulla già incurvata Camilla, interviene la maestria della narratrice Cialente: dapprima una luce di speranza e poi lo svelamento, con una tecnica narrativa sopraffina, del dolore più grande e il tradimento finale del destino. È sotto i colpi di questo tradimento finale che la famiglia si smembra con tocco lieve, nella terza e ultima parte del romanzo, in cui ogni personaggio prenderà la sua strada, Camilla compresa, lontani dalla soffitta per costruire una nuova normalità.

«Mi sembra che fino ad un certo momento eravamo tutti quasi felici» dice sul finale Lalla al fratello più piccolo, e aggiunge: «Ma nessuno di noi l’aveva capito». Non è l’amara beffa, piuttosto è proprio grazie a questa consapevolezza che ciascun personaggio si libera dall’incantesimo dell’inverno maligno e riprende la già citata normalità, possibile solo sottraendosi alle grinfie della soffitta. Ogni componente di questa famiglia prenderà la sua strada, ma l’ultimo sguardo viene riservato a Camilla, colei che rivendicherà proprio sul finale la sua indipendenza cocciuta e il suo femminismo appena accennato ma evidente. Nell’ultima pagina Cialente congeda Camilla con una tenue nota malinconica mentre quest’ultima, a braccetto col dolore, cammina adagio «sull’ultima neve» andando incontro alla primavera.


Fonti

Fahrenheit, radio Tre, puntata del 21/11/2022 

Italiane – Fausta Cialente

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Dialogo con Francesca Rubini sulla figura di Fausta Cialente

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