E alla fine vince Mahmood

Italian singers Mahmood performs on stage at the Ariston theatre during the 69th Sanremo Italian Song Festival, Sanremo, Italy, 08 February 2019. The Festival runs from 05 to 09 February. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Lo sappiamo tutti, lo sanno i concorrenti e lo sapeva Claudio Baglioni ancora prima di accettare due anni fa il ruolo di Direttore Artistico o di dichiarare ieri sera che la musica è al centro di tutto: il Festival di Sanremo non è più solo il tempio della canzone italiana. L’Ariston, nei primi giorni di febbraio, è ormai teatro riassuntivo di quello che succede in Italia nel corso dell’anno precedente. Nello stile perfetto di una tragedia greca in cinque atti in cui si deridono o fischiano gli incompresi, lo “straniero” è insultato e tacciato di corruzione e il coro — cioè la critica musicale — difende a spada tratta i suoi protetti “indie”, anche quest’anno il Festival ci ha raccontato una storia complessivamente italiana, ma non esclusivamente musicale. In quest’ottica, il modo in cui si è concluso lascia intravedere una luce di speranza, perché la vittoria di Mahmood è, a tutti gli effetti, una vittoria globale.

Da questa notte impazzano sui social commenti che invocano la giustizia divina, “punite i peccatori, essi mentono” perché al televoto il giovane ha ricevuto una percentuale molto bassa di voti – ma lungi da questi paladini della verità informarsi su come funziona la votazione finale, che coinvolge tutte e tre le giurie e il pubblico da casa solo come quarta componente – tutti a gridare allo scandalo, allo schifo, alla canzone priva di significato e, soprattutto, all’“aiutiamo gli italiani”, “non è il festival della canzone egiziana”, “vergogna”.
(Potessi, vi metterei le mani addosso. Purtroppo, posso solo scriverci sopra.)

Dunque si tratta di una vittoria globale, perché se da una parte è sintomo inconfondibile di come l’olezzo fascistoide della nostra politica ci stia stancando, dall’altra è anche un incredibile passo in avanti in coerenza rispetto all’evoluzione musicale che avviene fuori dalle quattro mura dell’Ariston.


La canzone di Mahmood si inserisce perfettamente all’interno del mercato contemporaneo e trova facilmente il suo posto accanto agli artisti più in voga in Italia, tra quelli che guadagnano milioni di views e dischi di platino come piovesse e quelli che stanno ancora cercando di capire come arrivarci.

A questo proposito, se davvero ci si aspettava che potessero vincere le canzoni di Ultimo o, peggio ancora, de Il Volo o di Padre Cristicchi o, mammaiuto mantenetemi, quella di Irama, ci sarebbe stato da preoccuparsi. Avrebbe voluto dire, pur inconsapevolmente, rimanere infangati nella melma putrida e stantia di un velato nazionalismo patetico di cui Sanremo si è nutrito per anni e che cerca di commuovere il pubblico con immagini confuse di persone che viaggiano come bagagli, con segreti di chicchi di grano che contengono l’universo, con dediche di baci sull’anima o con storie raccapriccianti di pacemaker e abusi.

E invece, davanti alla meraviglia di favorevoli e contrari, lo scacco matto lo fa un ragazzo che canta anche in Arabo, che racconta di come i rapporti siano spesso compromessi dal denaro, quando è troppo, quando è troppo poco, quando non c’è, e che lo fa con un linguaggio diretto e, novità assoluta per il Festival, non paraculo. Cosa c’è di più comprensibile? Ci siamo passati tutti, in ambito sia personale sia professionale. Oltretutto, sorprenderà, ma questo giovane sa anche cantare, non come chi che cerca di improvvisarsi neomelò, non come Patty Pravo o Nino D’Angelo che hanno perso la voce, non come gli Ex Otago o i Boomdabash o Einar che chissà cosa ci facevano sul quel palco.

Come dicevo prima, non si può negare che la sua vittoria abbia del politico, sarebbe stupido farlo. Dopotutto, Baglioni ha palesemente messo in piedi e condotto uno spettacolo schierato, seppure non in maniera esplicita nel corso delle serate, ed è chiaro come le giurie abbiano avuto la sua stessa visione a lungo raggio: basta squallore e ovvietà, basta scendere a compromessi, basta svendersi in nome di un’italianità «che non ha più un volto né più un’età», per strappare una citazione off topic.

Soldi è una canzone scritta in maniera intelligente, sia musicalmente sia liricamente, è interpretata nella giusta misura da Alessandro Mahmoud e, sin dal primo ascolto, ti entra in testa. Vogliamo metterci la multiculturalità? Mettiamocela. Cosa c’è di più vivo oggi della multiculturalità nel nostro paese e nel mondo? Se così non fosse, dopotutto, il governo non si impegnerebbe così tanto a combatterla.

Quindi, anche davanti a eventi come il botta e risposta non dichiarato tra Salvini e la Isoardi che ha divertito tutti noi, mi pare che la cosa più importante sia che il Festival di Sanremo è riuscito, forse dopo tanto tempo, a smuovere un dibattito ampio e denso, che coinvolge tutti i presenti e tocca piani diversi. Quale evento migliore di questo per confrontarci ancora una volta e in maniera ancora più tangibile con il clima di odio e scontento in cui siamo costretti a vivere?

Volendo aggiungere un ultimo appunto, la reazione di Ultimo durante la conferenza stampa successiva alla classifica finale è l’ennesima chicca che la manifestazione ci ha regalato. È pur vero che la sua arroganza e la sua presunzione, mista a finta ingenuità mentre insulta sia i giornalisti che lo intervistano sia il vincitore – «il ragazzo, Mahmood» – potrebbero essere moderate, nel tentativo, almeno quello, di ricostruire i confini di una civiltà che stiamo perdendo.

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