L’inno alla libertà di Fiona Apple

I’ve waited many years / every print I left upon the track / has led me here

Tre minuti e cinquantasette secondi. Tanto dura la canzone che apre Fetch the Bolt Cutters, quinto album di Fiona Apple (Epic Records/Sony). I Want You To Love Me, oltre ad essere una delle canzoni più belle del disco, è in qualche modo – anche grazie alla sua posizione – paradigmatica di tutto ciò che ascolteremo nei restanti cinquanta minuti che, però, sembrano molti di più fin dal primo ascolto tale è la mole di suoni, di voci, di colori che si dipanano lungo le sue tredici tracce.  Il brano parte quasi come un giocattolo, una serie di suoni e un battito leggero e primordiale. Poi grappoli di note al pianoforte – quello che Fiona suona da quando era una bambina piccolissima – fino all’entrata di quella voce inconfondibile così legata a un suono tipico degli anni novanta. Ma Fiona – lo sappiamo – da allora è andata avanti. Quello you del titolo è dilatato al massimo, la nota tenuta costante e sospesa come un bordone vocale, quindi la voce si arrochisce, si fa ricca di vibrazioni acri e aspre come nella migliore Patti Smith – And I know none of this will matter in the long run / but I know a sound is still a sound around no one – fino al bridge, dove il pezzo cambia ancora con Fiona che solleva al cielo la sua voce come in un campo di cotone, dando una svolta da vecchio spiritual all’intero brano. Mentre il finale, che si fa convulso, strizza quasi l’occhio a certa avanguardia, dalle diavolerie di una Diamanda Galas alle sperimentazioni di Meredith Monk.

I Want You To Love Me è il frutto di un momento di meditazione, disciplina ormai fondamentale nella vita come nel lavoro di questa quarantaduenne che resta ancora bellissima – come agli esordi quando, diciassettenne, firmò un contratto con la Sony – ma che porta tutti visibili sul volto i segni di una vita vissuta lottando contro i propri demoni. Quando nel 1996 uscì Tidal, la sua storia, che sembrava quella di una favola – figlia dell’attore Brandon Maggart e della cantante Diane McAfee, bambina prodigio, bellissima e piena di talento – divenne in un attimo il sogno morboso di tanti ma, contemporaneamente, il peso insostenibile delle aspettative che gravavano su spalle ancora troppo fragili.

Ma dietro quel volto e quella voce – e che voce: un elastico colloso capace in un istante di mutare registro e farsi materia di metallo incandescente – c’era un passato drammatico con lo stupro subito a soli dodici anni e raccontato, finalmente senza vergogna (con un debito personale e musicale verso Tori Amos). Una personalità che trasudava da quella voce, dalla ricchezza lirica e di contenuti di una ragazza ormai diciottenne, che sembrava sfidare con spavalderia il mondo musicale.

La storia è piuttosto nota. Il successo esige spesso un prezzo alto, la sincerità se possibile uno più alto ancora. Quello che per discografici e business maker doveva diventare una specie di Lolita di un mondo di plastica si ribellò in maniera plateale durante la consegna di un premio agli MTV Video Music Awards del 1997. Quel “This world is bullshit” gridato da sopra un palco non era diverso – per tanti, tantissimi aspetti dal colpo di fucile con cui Kurt Cobain aveva messo fine alla sua vita tre anni prima. Erano gli anni di Mtv, anni di un’irripetibile generazione di musicisti straordinari, figli dei primi grandi esperimenti di musica alternativa degli anni ottanta che, nello stesso tempo, convivevano con il compromesso di una diffusione della loro musica attraverso il mezzo televisivo, che erano corteggiati e messi sotto contratto dalle major e che cercavano – forse mai come allora – di mantenere il controllo della propria immagine (si pensi solo ai Pearl Jam e alla loro ribellione contro i videoclip che andò avanti per oltre dieci anni).

Il video di Criminal dall’album d’esordio, Tidal

Fiona ebbe la forza o l’incoscienza di ribellarsi a quel sistema. Ed è difficile non pensare oggi, dopo le tante rivelazioni che hanno poi portato ai vari movimenti – in primis al #metoo – come quella ragazza avesse anticipato i tempi trovando il coraggio – lei sola – di denunciare, almeno implicitamente, la devastazione morale dell’industria musicale e dello spettacolo.

Da quel momento in poi la vita artistica di Fiona Apple è stata per molti aspetti come un percorso sotterraneo che si è fatto specchio dei suoi stessi problemi, dei quali – come si diceva – Fiona non ha mai nascosto nulla; sia portando sul corpo per molto tempo i segni di una magrezza impressionante, che parlando apertamente nelle interviste di problemi mentali, disturbi ossessivi compulsivi, ansia e depressione.  Fiona Apple è stata per anni vista o raccontata come la ragazza pazza, come la tipa intrattabile, quella per cui augurare fortuna qualora ti avesse concesso un’intervista. Eppure nessuno ha mai potuto far finta di non essere in presenza di un talento eccezionale che dopo l’esplosione di Tidal avrebbe trovato conferma in tre dischi, prodotti dal 1999 al 2012 – When The Pawn…, Extraordinary Machine e The Idler Wheel… – che hanno segnato tre passaggi di una continua evoluzione che, da un pop cantautorale con una cifra assolutamente personale – che oggi pure in parte risente, com’è naturale che sia, dei suoni di quel tempo – l’hanno condotta verso lavori in cui è emersa, sempre accanto all’incredibile matrice delle liriche, una ricerca sulla musica e sui suoni che, pur non discostandosi mai realmente da una certa attitudine di sintesi pop, trasportasse quella stessa attitudine su territori certamente meno battuti e rassicuranti.

Con questo quinto lavoro, Fiona Apple sembra essere quasi giunta alla conclusione – magnifica – di questo percorso, disegnando una parabola che, come altri prima di lei – Tim Buckley o Scott Walker giusto per citare due giganti – invece di discendere verso una banalizzazione o una semplificazione della propria produzione artistica – rappresenta, invece, una costante ricerca in avanti. Dalla sua casa di Venice Beach dove vive da anni, dove medita, dove insieme anche ai suoi musicisti sembra finalmente – e glielo auguriamo – aver ritrovato una propria serenità, un proprio nuovo equilibrio in movimento, Fiona Apple ha  realizzato un disco che – come nella canzone di apertura – è l’immagine stessa della libertà. Il titolo del disco – che ha che fare con la necessità di liberarsi dalle proprie gabbie – trova soluzione musicale in un album dominato soprattutto da sonorità percussive grazie a una componente ritmica che la fa da padrona, non solo attraverso ovviamente strumenti a percussione classici, ma attraverso quella che lei stessa definisce una “orchestra of drums” casalinga.

A un canovaccio musicale così libero, Fiona affianca – naturalmente – la sua voce che con il passare degli anni è cresciuta – se possibile – per potenza e profondità. Si potrebbe stare anni a discutere sterilmente di classifiche, di confronti, di possibili impatti di questa o quell’altra musicista o cantautrice. Quello che, certamente, da sempre contraddistingue Fiona Apple – e molto prima che chiunque di noi scoprisse le ombre della sua vita – può essere racchiuso una parola sola: intensità. Fin dagli esordi Fiona Apple ha cantato come se non ci fosse altro in quell’istante che la sua sola voce e il pezzo che sta suonando. Quella voce torrida fatta di sfumature sempre diverse, che sa giocare coi tempi e con le modulazioni in maniera impressionante, dominata da un controllo tale da renderla assolutamente naturale, che sa muoversi sul registro del pop, del soul, del blues senza legarsi mai a una forma ma producendone nuove, ricchissime e calde o terribilmente glaciali, acuminate, asciutte; è quella voce che ha sempre costituito uno scarto con molte delle sue colleghe. Le fragilità che Fiona cela, – non nasconde – attraverso quella voce si trasformano in una guardia che si abbassa lasciando così trapelare così tanto di sé da provocare un’immediata empatia.

Per molti aspetti Fetch the Bolt Cutters potrebbe sembrare un disco che asciuga, che elimina gli orpelli del cantautorato pop, che lavora di sottrazione. E, in parte, è certamente vero. Ma lo è alla maniera minimalista, movimento dal quale questo lavoro sembra mutuare molte scelte, in particolare dalla componente più tribale – quella di alcune produzioni di Steve Reich ma soprattutto di uno spesso troppo dimenticato Julius Eastman. C’è dentro un un lavorare per blocchi e su quei blocchi costruire un universo. È destrutturare per allontanarsi da forme ormai risapute e cercare uno spazio di libertà dentro a uno schema libero ma coerente. Fetch the Bolt Cutters appare davvero come il riflesso delle meditazioni di Fiona Apple, un metodo di attenzione e disciplina dentro il quale far emergere caos ed entropia e grazie al quale liberarsi delle proprie sovrastrutture, di tutto ciò che ci lega e ci tiene stretti al passato.

I still only travel by foot, and by foot it’s a slow climb / but I’m good at being uncomfortable, so I can’t stop changing all the time.

Per Fiona Apple camminare è sempre stato un elemento fondamentale nella propria esperienza di auto conoscenza. In un tutt’uno con i suoni che ne attraversano il passo e danno ritmo e spazio a versi e musica. Così, per uscire da quella gabbia ha compiuto un percorso reale, fisico ma anche trascendentale e metaforico dentro le orme del suo passato. Ecco allora che – come una trail blazer – ha costruito, fin dal lontano 2012, le basi che hanno portato a questo disco, fatto di riflessioni sul passato e sul presente, sul suo percorso, sul suo essere donna, compagna, figlia, musicista, artista.

And I’ve been used so many times / I’ve learned to use myself in kind.

Per spezzare le sbarre che la tenevano prigioniera, Fiona ha ripercorso a ritroso alcuni momenti chiave della sua vita: l’adolescenza in Shameika – che racconta dei primi episodi di bullismo subiti a undici anni – didn’t smile, because a smile always seemed rehearsed / I wasn’t afraid of the bullies, and that just made the bullies worse – ma anche la prima consapevolezza di un modo diverso di stare al mondo e delle proprie potenzialità. Riflessioni sulle storie sentimentali del proprio passato come in Rack of his.

Ancora: l’importanza del dialogo – con gli altri e con se stessi – che passa per pezzi bellissimi come Newspapers – nel quale c’è (così come in altri brani) il controcanto della sorella Maude, qui addirittura mentre allatta davanti ai mixer – e Drumset, con il testo registrato d’impulso nella memoria del suo smartphone per essere poi lasciato così, senza alcuna modifica, nella registrazione successiva – The drum set is gone, and the rug it was on is still here, screaming at me.

C’è tutto questo nel suo nuovo lavoro che è attraversato da un’atmosfera assoluta di familiarità, la voce della sorella a impreziosire alcuni passaggi, cani che abbaiano improvvisamente durante la title track, il contributo dell’amica Cara Delevingne. Suoni e affetti quotidiani immersi dentro una capacità limpidissima di prendersi il proprio tempo, di vivere dentro il proprio spazio in un’armonia rara con i suoi musicisti – Sebastian Steinberg al basso, Amy Aileen Wood alla batteria e Davíd Garza alle chitarre, tutti coinvolti nelle percussioni.

C’è naturalmente – come negli altri dischi – il rapporto complesso tra maschile e femminile e più in generale tra manipolatori e vittime come accade in RelayEvil is a relay sport / when the one who’s burned / turns to pass the torch – che affronta ancora l’esperienza dello stupro con uno sguardo più distaccato rispetto ai dischi precedenti e che sembra condurre quasi a un perdono; in For Her, sorta di spiritual contemporaneo che prova a raccontare l’esperienza di diverse donne o come, ancora, in Ladies che rimette al centro la questione – spinosa – della solidarietà femminile e del suo rapporto col maschile.

I spread like strawberries, I climb like peas and beans

Ci sono la depressione di Heavy Balloon e la capacità di ribellarsi di Under The Table. Come la meditazione in On I Go, che elabora un canto Vipassana che Fiona aveva cantato un’intera notte in cella dopo essere stata arrestata per possesso di marjuana – e che Sebastian Steinberg definì come la sua miglior performance vocale di sempre.

When you resist me, hon’, I cease to exist / Because I only like the way I look when looking through your eyes / And when you come back / You commemorate the penetration of the sun into the deep, dark sky

E, infine, Cosmonauts, dedicata all’amore che dura per sempre, una speranza più che una constatazione cui però Fiona tende con liriche bellissime.

Su tutto si percepisce un respiro diverso, una capacità non tanto di perdonare quanto di perdonarsi, di guardare al passato e ripartire con un nuovo senso di leggerezza. E se le parole possono in qualche modo sempre ingannare, non mente certo la musica che non è mai stata così positiva nella sua carriera. Dominato da una celebrazione percussiva – degli strumenti a percussioni ma anche dello stesso modo di approcciare il pianoforte – Fetch the Bolt Cutters è un disco che molto deve a certa tradizione tribale africana, che si tinge qua e là di marcette delle parate di New Orleans o degli spettacoli di Broadway. Che sa tirare fuori andamenti marziali e atmosfere suadenti, coloriture soul e una grinta più marcatamente R’n’B con la voce che ora disegna paesaggi dolcissimi ma più spesso si lascia andare a rivendicazioni più muscolari che ricordano l’orgoglio sudista della Beyoncé di Lemonade o la disperazione roca di un altro simbolo di quei novanta, Sinead O’Connor.

And I’ve always been too smart for that / But you know what? My heart was not

Fetch the Bolt Cutters è un disco di rinascita come di una fioritura primaverile, è un regalo di speranza in settimane di reclusione, soprattutto perché non si lascia certo cullare da facili ottimismi new age ma passa invece attraverso una profonda accettazione di sé, dei propri limiti, soprattutto della propria vulnerabilità. È un disco dal quale emerge una bellezza della vita come non si ascoltava da tempo, un senso di libertà che non è esagerato definire selvaggio e vitale. E come vorremmo davvero ascoltarne più spesso.

Exit mobile version