Fleet Foxes – Crack-Up

Immagina l’estate, siamo su una spiaggia deserta, non fa caldo, c’è una forte brezza che scuote tutto, forse è in arrivo una tempesta, le onde si infrangono su una scogliera, di fronte l’Oceano irrequieto, non il mare chiuso e placido del Mediterraneo: questo è il mood che cattura lo scatto di copertina di Crack-Up, nuovo album dei Fleet Foxes, e ad ascoltarlo sono queste le immagini che invadono la nostra mente.

I Fleet Foxes sono una vecchia conoscenza, è ormai dall’album di debutto uscito nel 2008 e dal lancinante singolo White Winter Hymnal che ci assecondiamo alle loro trame folk, al bel racconto incantato delle chitarre che riportano verso atmosfere da figli dei fiori. Del resto il look della band aiuta, a guardarli suonare sul palco sembrano essere sbarcati direttamente dagli anni Settanta. Una vecchia storia dice che se esistessero dei requisiti minimi per suonare nei Fleet Foxes allora sarebbero quelli di portare la barba e i capelli lunghi. [Piccola info di servizio: Fleet Foxes are Hiring]

I punti cardinali e fissi della band sono Robin Pecknold (voce guida e chitarra), Skyler Skjelset (chitarra, mandolino e voce) e Casey Wescott (tastiere e mandolino), che danno vita al gruppo insieme all’ex bassista Craig Curran e all’ex batterista Nicholas Peterson nel 2006. A quella formazione originaria nel 2008, epoca di uscita del primo LP della band, si aggiungeranno Christian Wargo (basso e chitarra) e Josh Tillman alla batteria. Tillman resterà nel gruppo fino al 2012, ovvero poco dopo l’uscita del secondo disco, Helplessness Blues, per poi dare vita ai suoi progetti solisti e trasformarsi in Father John Misty.

Da quel fatidico 2011 di Helplessness Blues (è un caso che in qualche modo il nome dell’album citi un pezzo incredibile come Helpless di Neil Young?) i Fleet Foxes si fermano. Riappaiono solo ora con Crack-Up, a distanza di sei lunghi anni di silenzio, durante i quali è piuttosto il batterista a rubare la scena all’ex band. E quanto avreste mai scommesso su un batterista che prova la carriera solista? Forse solo a Robert Wyatt prima era riuscito di emanciparsi da questo strumento, anche se Wyatt aveva contribuito al songwriting dei Soft Machine già dal primo disco.

Crack-Up non rivoluziona lo stile dei Fleet Foxes. Siamo sempre di fronte alla stessa band, che non sta cercando di dettare nuove tracce nel panorama musicale contemporaneo, ma anzi ripesca nel passato, riporta in auge la chitarra, e i cori, le doppie voci, qualcosa che ha che fare di più con Crosby, Stills, Nash & Young che con l’indie folk. [Su come sia complesso poi parlare di indie folk oggi ci siamo già interrogati]

Third of May / Ōdaigahara, brano che ha anticipato il disco, aveva già lasciato intendere che i Fleet Foxes non fossero rimasti in silenzio così a lungo per ripensare se stessi e la propria musica. Eppure sembra qualcosa sia scattato lo stesso nelle corde del gruppo. Il pezzo è una lunga suite di 9 minuti musicalmente elegante in cui la data evocata, 3 Maggio, è quella del compleanno di Skyler Skjelset (che negli ultimi anni stava aprendo, in solo, i live dei Beach House, tra le altre cose). Già solo con il singolo di lancio sembra lampante come i suoni si siano aperti nell’ultimo lavoro dei Fleet Foxes, con ritmi e tempi alternati, esplosioni strumentali e improvvisi minimalismi lo-fi.

Del resto già l’attacco del disco, I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar, è una suite in tre parti che si apre dolcemente minimal, con il sussurrare di una voce femminile a contorno, per poi cedere il passo a un’esplosione acustica, ripiegarsi a tratti su se stessa, e tornare poi a una dimensione intimista dove pare di sentire l’eco del rumore delle onde (stesse onde che apriranno il seguente pezzo Cassius, –). La batteria scandisce invece il ritmo di Fool’s Errand, per poi abbandonarsi a linee melodiche che riportano ancora verso atmosfere freak d’altri tempi. Ma non c’è nessuna stagione votata al peace and love da cantare di questi tempi: “It was a fool’s errand / Waiting for a sign“, canta Pecknold evocando l’oggi.

Semmai il vero pericolo di Crack-Up è quello di essere un disco troppo compatto che potrebbe risultare a tratti soporifero, ma i Fleet Foxes sono così: prendere o lasciare. Kept Woman è un pezzo che si discosta leggermente da questa compattezza, pur nel suo tentativo di riattualizzare alcune atmosfere alla Simon & Garfunkel. La domanda che resta sospesa diventa dunque: se da un lato Bon Iver ha abbandonato il puro indie-folk arrivando a contaminare il suono con l’elettronica, dall’altro Father John Misty si è gettato a riformulare le vie di un cantautorato dai tratti eleganti che flirta anche con il pop, e Dave Longstreth (aka Dirty Projectors) sperimenta nuove direzioni per l’indie-rock [molto interessante lo scambio tra Longstreth e Pecknold a proposito dello stato dell’indie-rock], qual è lo spazio che occupa questo lavoro dei Fleet Foxes all’alba del loro ritorno dopo sei anni di rumoroso silenzio?

Intendiamoci, è un disco ricchissimo, che avrà sicuramente un impatto forte nella dimensione live. Un disco che approfondisce i discorsi lasciati in sospeso dopo Helplessness Blues, in cui Pecknold e Skjelset si aprono, e anche la band si apre in sussulti strumentali sperimentali e in un mix di strumenti che va dalle chitarre ai fiati al pianoforte, tuttavia l’eco di CSN&Y continua a tornare come un vecchio fantasma a ossessionare le atmosfere Fleet Foxes, e non c’è neanche un singolo fresco come Mykonos stavolta a rompere il ghiaccio. Però: immagina l’estate, siamo su una spiaggia deserta, non fa caldo, c’è una forte brezza che scuote tutto, forse è in arrivo una tempesta, le onde si infrangono su una scogliera, di fronte l’Oceano irrequieto, non il mare chiuso e placido del Mediterraneo. Probabilmente la risposta è tutta qui, e il resto non conta. Crack-Up ha il merito di lasciarci respirare aria pura.

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