Foster The People – Sacred Hearts Club

Foster the People - Sacred Hearts Club

Il Sacred Hearts Club (anche se dal nome potrebbe far pensare più a un’associazione catto-massonica di incontri al buio — una specie di Rotary dei cuori solitari, per capirsi), se esistesse, immagino sarebbe uno di quei locali di culto, a metà tra l’élite e la nicchia, che si sono creati la fama di posto “figo” solo perchè fanno una frustrante selezione all’ingresso. Una fila chilometrica davanti a due buttafuori enormi, più di metà della quale a fine serata non sarà riuscita a entrare. Fine serata che a sua volta si preannuncia all’insegna di teenager disperati, accasciati sul marciapiede, in lacrime per aver perso l’ennesima occasione di vedere dal vivo — sorseggiando un cocktail decorato con neon fosforescenti su divanetti pseudo-retrò — i loro high-school anti-heros che nel frattempo si sono trasformati in un fenomeno che sfiora la boy-band.

Ora, non starò qui a discutere se questo sia uno di quei casi da manuale in cui la fantasia supera la realtà, fatto sta che i Foster the People arrivano al loro terzo album con lo status conclamato di fenomeno da billboard e sempre meno idee in testa. O forse troppe. Sicuramente, ben confuse.

“We wrote these songs to reflect joy in a time where people have needed it more than ever and we thought it was a good time to share them with you.”

Appunto.
L’impressione è che Sacred Hearts Club segua con ben poco imbarazzo un attuale trend da classifica chiaramente delineato: canzoni pop patinate al punto giusto ma sempre moralmente consapevoli e vagamente impegnate, che tentano — grazie a ritornelli di un accattivante al limite della strage di neuroni — di farci distrarre per un attimo dalla melma in cui vorrebbero farci affogare le brutte notizie che popolano i titoloni dei giornali che ci circondano. Un lavoro sporco fatto da dietro le quinte e portato avanti con la faccia pulita e il sorriso leggero da coloro che si son conquistati sul campo i galloni di professionisti in materia, ovvero la band che anni fa scalò quelle stesse classifiche con un bizzarro quanto contagioso piccolo tormentone fischiettato — che solo un ex compositore di jingle per pubblicità come Mark Foster poteva tirar fuori — sui pensieri omicidi di un gruppo di ragazzini persi in una società dalla pistola facile. Un lavoro che — siam tutti d’accordo — qualcuno deve pur fare, ma che trova qui un’esecuzione che rasenta a malapena il “compitino”, nonostante i fin troppo evidenti tentativi di rinfrescare la ricetta, e partorisce un album che cerca disperatamente — senza trovarlo — il proprio posto e la propria ragione di essere in quella sconfinata terra di nessuno che sta tra i Beach Boys e Hudson Mohawke. Perchè in fin dei conti, un’accurata lista di vacue scintille di gioia dalla vita breve e dalla coda spenta non riescono ad accecarci al punto di non intravedere il chiaro calo di ispirazione di una band che, a forza di aggiungere elementi e tasselli al proprio sound, finisce per ottenere il risultato opposto, ovvero una perdita di identità che rischia di rivelarsi — spero di sbagliarmi — senza ritorno.

Anche qualche passaggio interessante — come Pay the Man, che si prende gli onori (e gli oneri, col senno di poi) di aprire il disco e finisce per promettere qualcosa in più di quello che l’album in conclusione mantiene, o Lotus Eater, che a mio parere è il vero, unico, attimo di lucido songwriting in tutta la tracklist — perso così, come la buona vecchia particella di sodio, in mezzo a un mare di inconsistenza, risulta quasi un inciampo, come se fosse venuto bene, diciamo, per sbaglio.

Il resto è un tentativo altalenante di una make-up artist un po’ confusa che prova a uniformare il trucco della band di Los Angeles, ma finisce per andarci giù un po’ troppo pesante con passate ripetute di rossetto R&B, brillantini trap-EDM e un mascara esageratamente gommoso di campionamenti groovy. Si prova a far suonare gli MGMT come i Phoenix (o viceversa — trova le differenze), si tenta di mischiarli con il mainstream estremo di DJ Snake non senza prima aver cercato di dar loro un tono spruzzandoli di eau de Diplo, a volte si mira alla perfezione del funk à la Get Lucky senza ovviamente raggiungerla, altrove si scimmiottano gli N’SYNC non si capisce bene se e con quanta ironia. Ogni secondo di ogni canzone (tutte nemmeno lunghissime ma che potrebbero tranquillamente sopravvivere con un minuto abbondante di meno) è infiocchettato con lo scarabocchio di un synth o il fiorellino di un effetto vocale, che sì raggiungono senza particolari difficoltà l’orecchio, ma — non essendo la canzone stessa abbastanza robusta da reggere una produzione così raffinata — lo stuzzicano più del dovuto, al punto di risultare quasi fastidiosi. Dopo il minimalismo azzeccato di Pumped Up Kicks, i Foster the People sembrano ora andare incontro al problema opposto, almeno in termini di scelte di sound: c’è semplicemente troppo, qua dentro. I tocchi di elettronica frizzante e la piega hip-hop che prendono per alcuni tratti possono suggerire che la band voglia fare il suo trionfale ingresso nel recinto del pop da stadio, ma in questo senso molte tracce mancano di essenzialità e immediatezza. L’effetto è quindi che, con così tanta carne al fuoco — e così poca brace — risulta estremamente difficile distinguere quello che a tutti gli effetti si candida ad essere un elemento musicale distintivo da una semplice decorazione sonora e — sinceramente — tutto finisce per assomigliare più a quest’ultima che a qualcosa di diverso.

D’altro canto, bisogna anche dire che probabilmente Sacred Hearts Club è un disco che può essere visto — ancor prima che ascoltato — e letto da varie angolazioni, così come analizzato sotto vari punti di vista: per esempio, qualcuno potrebbe dire — nemmeno troppo a torto, ammetto — che certe scelte dimostrano che questi ragazzi hanno deciso di iniziare a crescere, provando a far sviluppare le loro radici indie-rock anche nel campo del vicino (dove — si sa, per definizione — l’erba e i dollari son sempre più verdi) in modo da creare i presupposti per lanciarsi verso sfide nuove e sempre più stimolanti. Io sinceramente, arrivato in fondo all’ennesimo ascolto dell’album, l’unica sfida che riesco a vederci credo di poterla riassumere in una semplice domanda: quanti gradi di coolness ci separano ormai dai Maroon 5?

La risposta è altrettanto semplice e quasi non contestabile: poco più di una manciata. Con tutti i pro e i contro del caso. Per quel che mi riguarda, questi ultimi prendono il sopravvento e fanno pendere la bilancia dal lato sbagliato, così non mi resta altro che finire a citare gli ultimi Depeche Mode, ammettendo — forse a malincuore — “Come on (Foster the) people / you’re letting me down.”

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